mercoledì 30 aprile 2008

Già che c'è, Walther butti in soffitta anche Obama. Carlo Panella

Se volete capire perché Alemanno ha vinto le elezioni, guardatevi l'immagine di quello striscione dei militanti di An steso sotto il Campidoglio festante per il neo sindaco: ''Grazie Walther! Santo subito!''.Quando la destra postfascista diventa spiritosa e autorionica, è semplicemente successo che non è più destra, non è più postfascista, è solo intelligente.
Non così la sinistra che non sa elaborare il lutto e che in questi giorni ne dice di tutti i colori sulle ragioni del suo disastro, tranne quella giusta.
E quella giusta è che non ha sbagliato su un particolare, su una campagna elettorale, su un candidato sindaco o premier, ma che ha sbagliato su tutto.
Chi non ci crede, guardi cosa sta accedendo in queste ore al mito ispiratore di Walther e di tutta la sinistra modaiola italiana: Barack Obama. Il giovane kennedyano progressista, nonché inventore dello sfigatissimo e porta iella ''We can!'' è alle prese con le sue origini culturali. Origini che hanno un nome e un cognome: il reverendo Wright. Per venti anni infatti Obama è stato adepto della sua chiesa e fedele tra i fedeli e da sempre l'ha indicato come il suo amato padre spiriturale. Oggi però Obama è stato costretto a divorziare dal suo babbo spirituale e a mandarlo a quel paese. Il reverendo, infatti, gasato dal successo del discepolo, ha iniziato un giro di conferenze in cui accusa i bianchi americani di avere inventato e diffuso l'Aids solo e unicamente per colpire i neri (tesi cara anche al presidente sudafricano nero M'beki) e che gli Usa si sono meritati l'11 settembre per la loro politica terrorista e imperialista. Obama ha ovviamente sconfessato tutto questo, ha preso le distanze, dice che non riconsoce più il reverendo, che questi è cambiato.
Ma non è così. Il reverendo Wright, estimatore dell'antisemita musulmano nero Farrhakan (alle cui marce partecipò lo stesso Obama), l'ha sempre pensata così, magari prima non la diceva così, ma la sostanza era questa.
Obama, però, non ha mai colto questo lato razzista, violento, antisemita e antiamericano della sua predicazione. Solo ora che vuole diventare presidente di tutti gli americani, di fronte alla vigile platea mediatica, è costretto a rendersene conto e troppo tardi se ne distanzia.
Walther e la sinistra italiana hanno fatto lo stesso errore con i tanto corteggiati imam dell'Ucoii (ugualmente razzisti e antisemiti) e con i tanti predicatori d'odio che hanno ospitato nelle loro immense adunate pacifiste.
Il minestrone culturale della sinistra tutto è stato, tranne che vaccinato nei confronti del razzismo, dell'antisemitismo, dell'idiozia antimperialista. Però è stato tollerante con i soprusi e le violenze non dei lavoratori immigrati -assolutamente trascurati- ma dei più parassiti e violenti tra i clandestini, sempre protetti e tollerati, in nome dell'antimerialismo alla Wright.
Il risultato si è visto. Grazie Walther.

martedì 22 aprile 2008

Musi lunghi nei salotti. Angelo Crespi

Per la prima volta nella storia repubblicana, nessun comunista in Parlamento. Fuori dalle Camere, la sinistra massimalista rischia di perdere la propria influenza anche nel mondo della cultura. Ma per portare a termine la rivoluzione liberale non servono liste di proscrizione, bensì un progetto che rilanci il nostro Paese, attui il ricambio generazionale, ci conduca fuori dal luogocomunismo.

Il risultato è stato sorprendente. Dopo sessant’anni di Repubblica e a quasi vent’anni dalla caduta del Muro, in Parlamento non ci saranno più deputati né senatori che si ispirano direttamente al Partito Comunista. Termina quella che fu definita l’anomalia italiana: il più grande partito comunista d’Occidente capace di governare pur non stando al governo, capace di influenzare la nazione fin nel profondo dell’anima. Di fatto si chiude oggi il Novecento, secolo lungo, denso di tragedie e centinaia di milioni di persone morte per colpa delle ideologie, di cui il Comunismo è la più resistente e pervicace e assassina.
Ovvio che quella italiana fu la versione soft di una diabolica utopia, ma non per questo meno dannosa. I comunisti italiani in quarant’anni di integerrima militanza hanno sempre scelto le strade peggiori che la storia ha in seguito condannato: contro gli Alleati, contro il piano Marshall, contro le Nazioni Unite, contro la Nato, contro Israele, a favore della rivoluzione cinese, a favore dell’invasione d’Ungheria, a favore della invasione polacca, a favore di Ho Ci Min, a favore di Pol Pot, a favore di Fidel Castro, a favore di Khomeini, perfino a favore delle Brigate Rosse e dei terroristi islamici. Di fronte alla pur sommaria elencazione, appare quasi un miracolo che l’Italia abbia potuto crescere e svilupparsi, segno che al di sotto della superficie resistono millenarie radici di buon senso, realismo, cristianesimo, amore per la libertà.

Gli stessi anticorpi che hanno reagito alla prima vera prova di governo della sinistra comunista. La compagine schierata in parte sotto l’arcobaleno e in parte sotto falce e martello ha trascinato nel baratro un già debole Romano Prodi. Fa davvero specie ricordare che abbiamo avuto, fino a pochi giorni fa, presidente della Camera, Fausto Bertinotti, e ministro dell’Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio. Due figure che riassumono alla perfezione i connotati di una sinistra massimalista, dai tratti reazionari, le cui soluzioni alla crisi della postmodernità appaiono antistoriche e utopistiche, tese tra il no alla globalizzazione in chiave pseudorivoluzionaria (Caruso) e il radicalismo laicista (Luxuria), tra un ecologismo catastrofista (Pecoraro Scanio) e un classismo di maniera (Giordano). E sotto le cui insegna ci stavano collettivisti e statalisti convinti, mondialisti e femministe d’antan, vecchi extraparlamentari, reduci del terrorismo, fautori di un nuovo terrorismo, giustizialisti.

Durante la recente campagna elettorale, mentre i comunisti di governo speravano di resistere e mostravano il volto migliore, le altre liste più radicali (Alternativa Comunista e Sinistra Critica) esprimevano – grazie alla par condicio finalmente a una platea più vasta – concetti e idee talmente iperbolici da sconfinare nell’irreale, quasi che il mondo si fosse fermato alla diatriba Stalin-Trozkij e dovessimo approntare nel più breve tempo possibile un piano quinquennale. Solo l’irresponsabile gestione dei mass media, vere case matte del pensiero unico, ha permesso una sovraesposizione di questa ideologia che risulta largamente minoritaria nel Paese, ha permesso che si prolungasse l’agonia di un sistema politico e di potere ora definitivamente morto.
E dobbiamo ringraziare non solo la vittoria di Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, ma anche la caparbietà di Walter Veltroni che ha voluto tagliare con il passato e davvero oggi può dire senza timori di “non essere mai stato comunista”. Un Veltroni che si candida autorevolmente a interpretare il futuro di uno schieramente democratico e riformista. E a cui anche Berlusconi si affida per portare a termine le riforme strutturali e istituzionali.

Politicamente corretto. Stop
Lo diciamo con somma cautela: l’egemonia comunista è finita. Si apre una nuova stagione nella quale il politicamente corretto e il luogocomunismo non avranno più il peso che hanno avuto finora, almeno a livello politico o parlamentare. Certo, fuori dalla Camere restano i salotti. Ma con queste elezioni c’è la possibilità di archiviare sessant’anni di regime illiberale anche nel campo della cultura e delle arti. Allo stesso modo, la figura dell’intellettuale organico può essere dimenticata. Ovviamente, tutto dipenderà dalla capacità di governo del Pdl in un campo così complicato come quello culturale. Ma ci sono buone speranze che non vengano compiuti gli errori della passata legislatura 2001/2006, quando il Centrodestra sottovalutò il consenso negativo che poteva provenire da un mondo culturale arroccato su posizioni massimaliste.

Ancora qualche giorno fa, 490 intellettuali italiani hanno firmato sull’Unità uno scontato manifesto in favore del Pd e contro Berlusconi, dimostrando quanto sia ancora pervicace la sopravvivenza dell’intellettuale engagé, che preferisce l’ideologia alla verità delle cose, e spesso si dimostra in ritardo perfino rispetto al proprio leader che sembra invece aver metabolizzato davvero i mutamenti dei tempi.
La mania di manifestare o di dare la firma in bianco a qualsiasi appello è una delle cose più comiche dell’intellighenzia italica che – va ricordato – è composta sempre più da canzonettari, comici, attrici e attricette. Nel manifesto citato, compariva pure il nome di uno scultore morto. La difesa degli spin doctor di Veltroni se possibile è ancora più ridicola: “avevamo raccolto l’adesione con largo anticipo”, si sono scusati. Un po’ come si faceva nei formidabili Sessanta e Settanta, quando un presenzialista della firma come Jean Paul Sartre sottoscriveva in bianco qualsiasi appello, o qui da noi un gruppo di radical chic apponeva il proprio nome in calce a un delirante j’accuse contro il commissario Luigi Calabresi (che poi sarebbe stato tragicamente “giustiziato”).

Dopo una così larga vittoria politica, sarebbe un controsenso per un governo liberale stilare una lista di proscrizione che comprenda i 490 sottoscrittori del Pd ed è invece utopico pensare di redigerne una completa che annoveri le migliaia di intellettuali, professori, insegnanti, giornalisti, artisti, scrittori, attori, cantanti che in questi decenni hanno goduto di preponde e facilitazioni immeritate, deprimendo con la loro arroganza l’accademia, la scuola, l’informazione, l’arte, il cinema, la televisione.
Più sensato, lasciar perdere il passato impostando una nuova politica culturale all’insegna della libertà e del buon senso che apra nuovi orizzonti e scenari nel panorama stantio di questi anni. Per far ciò appare fondamentale, innanzitutto, l’apporto del ministro della Cultura. Solo invertendo ai massimi vertici il segno, si può sperare che a cascata muti radicalmente il risultato finale. Serve uno spoil system onesto e trasparente, attraverso il quale premiare nuove professionalità, dando vita a un ricambio generazionale che in Italia si aspetta da decenni.

Il ministero della Cultura, che molti per mancanza di lungimiranza snobbano, è l’avamposto perfetto per dar vita alla tanto preconizzata rivoluzione liberale: da quel fortino, lo hanno dimostrato i governi di sinistra, si governano centri di potere culturale importantissimi, e a maggior ragione imprescindibili oggi per la divulgazione di un pensiero finalmente libero (la Biennale, gli enti lirici, i musei, le sovrintendenze, le commissioni cinematografiche, le fondazioni…) nonché per l’implementazione di una politica dei beni culturali che sia vero motore di sviluppo dell’Italia.
I beni culturali sono infatti un patrimonio da conservare, ma anche una risorsa da sfruttare. Essi sono la specificità del nostro Paese sia in chiave identitaria che economica. Sono il giacimento inesausto di Bellezza a cui la politica deve attingere per progettare nella tradizione nuove soluzioni che ci conducano fuori dalla crisi. Solo riconoscendo nella Bellezza un valore politico si può infatti sperare che l’Italia ritrovi una propria particolare via nella globalizzazione.

La Rai è irriformabile
Più in generale è però necessario vigilare anche sull’informazione. La Rai è una formidabile generatrice di luoghi comuni, di inutili miti, di false letture del reale e della storia. Non è pensabile modificare nel profondo un patrimonio genetico che si basa su incrostazioni e militanze pluridecennali. E anche lo spoil system tentato in precedenza non ha fatto che perpetuare gli antichi vizi, spesso neppure mutandone il segno. Più sensato appare invece puntare sui nuovi settori, sulle nuove tecnologie, sul multimediale aprendo spazi di libertà e di confronto dove ancora il cancro dell’ideologia non si è propagato con metastasi.
E' però necessario adoperarsi anche nel campo della scuola e dell’università, pensando a una riforma che sia innanzitutto un balzo nel passato. E cioè riportando in vita tutti quei meccanismi di meritocrazia aboliti dall’idea livellatrice post sessantottina: meritocrazia quando si tratta di valutare gli studenti e quando si tratta di valutare i docenti. Soprattutto uscire da una trita idea statalista secondo la quale lo Stato ha il compito primario di irrigimentare i propri cittadini, dalla culla alla laurea.

Infine è necessario che tutti gli uomini di buon senso prestino attenzione agli altri settori: la stampa, le case editrici (comprese le sedicenti liberali), il mondo delle arti in generale, dove l’adesione al politicamente corretto non è sintomo di una libertà agita, bensì prona acquiescenza a un sistema di favori e camarille che oggi per fortuna si sta sgretolando e quindi può essere criticato senza timore di ritorsioni. Ma che può ancora sedurre e fare proseliti per inerzia e residuale capacità attrattiva soprattutto tra gli intellettuali abituati ad abbeverarsi alle greppie della politica.
Come diceva Longanesi “tutte le rivoluzioni iniziano per strada e finiscono a tavola”. Quella comunista è finita nei salotti sempre più ammuffiti della Roma godona o della Milano radical chic. Salotti nei quali si attestano gli ultimi resistenti, pronti a sparare sul nuovo governo o sulla nuova opposizione finalmente riformista. (il Domenicale)

lunedì 21 aprile 2008

L'unico cattivo d'Italia. Alfio Caruso

Finalmente abbiamo il gran cattivo d'Italia. Nel Paese dei troppi santi l'unico reprobo è Bruno Contrada. Vinto dalla Storia e sconfitto dallo Stato, che lo ha marchiato quale traditore di Boris Giuliano, di Ninni Cassarà, di Beppe Montana e dei tanti sacrificatisi nella trincea del Dovere, lo sbirro settantottenne deve agonizzare e crepare in galera affinché ciascuno di noi ogni mattina si possa guardare allo specchio e sentirsi migliore. Messi da parte sia il controverso iter giudiziario (nel primo processo di appello Contrada era stato prosciolto), sia la certezza che la Legge mai è eguale per tutti (la sacrosanta assoluzione di Andreotti ha cancellato indizi superiori a quelli che hanno prodotto la condanna di Contrada), rimane incomprensibile un simile accanimento. A qualunque nemico in catene, giunto agli sgoccioli della vita, il vincitore concede il conforto degli affetti domestici, il sollievo di chiudere gli occhi nel proprio letto.

A Contrada no: nessuna pietà per chi negli anni di fango palermitani attraversava la terra di nessuno, si sporcava le mani, incontrava Saruzzu 'u spiuni (Rosario Riccobono). All'epoca i collaboratori di giustizia non erano stati ancora inventati, c'erano i confidenti e a essi si prometteva dieci nella speranza di portare a casa uno, convinti che nella sporca guerra contro Cosa Nostra il fine legittimasse i mezzi.

Una decina di giudici ha deciso che il comportamento di Contrada ha superato i confini del lecito; ha dato credito alle accuse di mafiosi da lui perseguitati prima che indossassero le sacri vesti di pseudo pentiti; ha ritenuto che le testimonianze a suo favore di molti rappresentanti delle Istituzioni non avessero alcun valore.

Niente da obiettare, rientra nella discrezionalità di ogni verdetto umano. Tuttavia, siamo sicuri che Contrada sia peggio di Previti, per sua e nostra fortuna lontano dalla galera? Che sia peggio di Priebke, il quale alle Fosse Ardeatine riuscì a essere persino più feroce della rappresaglia predisposta dal suo comando (le vittime innocenti dovevano essere 330, gli assassinati furono 335)? Possibile che le sue perizie mediche siano più inattendibili di quelle che consentirono a Gelli, riconsegnato dalle autorità svizzere, di evitare il carcere? All'epoca tre luminari della cardiologia stabilirono che le condizioni del venerabile non soltanto erano incompatibili con la detenzione, ma addirittura facevano prevedere un suo imminente decesso. Dopo oltre vent'anni Gelli ci riscalda ancora con la sua presenza contornata da dolci poesie meritevoli di premi. Né più né meno quanto è avvenuto in tempi recenti con Nino Rotolo, asceso da killer dei corleonesi al ruolo di capo mandamento di Pagliarelli. Malgrado gli ergastoli fu scarcerato grazie a compiacenti attestazioni su un cuore a pezzi, ma non tale da impedirgli di superare di slancio un muretto per partecipare ai summit della cosca.

D’altronde Contrada non ha suscitato la compassione della Chiesa, benché i suoi monsignori si siano in passato inteneriti perfino per Riina e Provenzano, né ha meritato l'apprezzamento di Dell'Utri, la cui coscienza di uomo d'onore (nel senso di Shakespeare, Giulio Cesare, atto III, scena II), ha voluto ricordare l'eroismo di Mangano, pluriomicida mafioso.

Insomma, caro Contrada, si decida a morire e non rompa. (la Stampa)

venerdì 18 aprile 2008

E' esplosa la bolla speculativa della sinistra. l'Occidentale

Dopo quasi una settimana dal voto del 13 e 14 aprile la cosa che più sorprende è la sorpresa. A parte forse Silvio Berlusconi e pochi altri, anche tra le prime file di Pd e Pdl, tra i commentatori e in genere tra chi segue la politica, ancora non ci si capacita per l’ampiezza della vittoria berlusconiana alle urne.

La cosa davvero strana è che, al contrario, i primi exit poll – quelli che prevedevano il quasi pareggio Pd-Pdl – erano accolti, magari con rassegnazione ma non certo con stupore nel centro-destra e come una conferma nel centro-sinistra.

Il fatto è che per settimane i principali giornali e quasi tutte le televisioni ci hanno come ipnotizzato con una sorta di mantra elettorale: la rimonta di Veltroni, i sondaggi ormai testa a testa, la stanchezza di Berlusconi, l’Italia che vuole facce nuove, l’Europa che non si fida della destra, il miracolo possibile dei buoni dei belli e dei bravi imbarcati sul pullman veltroniano.

Era tutto falso. Era un gigantesco wishful thinking spacciato per analisi obiettiva dei fatti. Una bolla speculativa di attese e speranze che i media hanno fatto gonfiare a dismisura fino ad accecarci tutti quanti.

Il motivo è semplice, nel giornalismo si condensa ancora una percentuale altissima di uomini e donne di sinistra: da quelli “inconsapevoli” ma di sinistra solo perché si considerano “perbene”, fino ai molti reduci del ’68 che hanno trovato nella comunicazione il surrogato ben retribuito della rivoluzione.

Parlando tra di loro, nei loro salotti, nei loro ristoranti, nelle case al mare e in collina, si convincono che il mondo è tutto come ciò che vedono. Per questo nessuno poteva immaginare la scomparsa di Bertinotti e degli altri: ma come è possibile, a Capalbio o a Cetona lo votano in tanti….?? Ma come, ieri dalla principessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare erano tutti per lui…???

Volevano tutti il pareggio (fino alla vittoria della sinistra anche il pensiero desiderante più ardito non sapeva spingersi) e così c'hanno investito idee e talenti, l’hanno coccolato, raccontato, spiegato fino all’esaurimento.

Poi il 13 e 14 aprile la bolla speculativa è esplosa e chi credeva di avere in mano voti, crediti e fiducia, si è trovato con una manciata di junk bond.

Contrada e l'eutanasia. Davide Giacalone

Spero la dilagata ipocrisia non giunga al culmine di prendere alla lettera le parole della sorella di Contrata, portavoce di un uomo carcerato e malato che chiede di essere ucciso. Aprire un dibattito sull’eutanasia è un insulto alla ragione. Quel che Bruno Contrada dice è di una semplicità assoluta: io da qui non esco perché malato, perché io qui sono entrato da innocente; se non volete farmi uscire riconoscendo che non ho mai favorito la mafia, allora ammazzatemi fisicamente, accelerate la pratica, perché la mia ammissione di colpevolezza non l’avrete mai, non mi piegherete mai.
La condanna di Contrata è definitiva, la giustizia ha fatto il suo corso. Purtroppo negando d’essere tale. La pena del carcere serve a privare il detenuto della libertà legata al corpo. Contrada, com’è capitato ad altri, reclama l’innocenza usando il proprio corpo come problema da porre alla collettività. Ciascuno può pensare quel che vuole, ma occorre avere rispetto di un uomo che s’ispira a tale condotta, evitando di credere che stia chiedendo pietà. Chiede vendetta.Purtroppo, penso che Contrada morirà in cella. O subirà l’onta d’esserne estratto poco prima, perché si dica che è morto altrove. L’imputato Contrada, poi il detenuto Contrada, è stato sconfitto. L’uomo vuole ancora giocare la sua partita, mettendo nel conto che potrà concludersi postuma. Noi, con i nostri corpi liberi, dobbiamo sapere che la sua ipoteca sulla memoria collettiva è gravissima. Non si tratta di discutere l’esito di un processo, magari ripetendoci l’ovvio: gli errori giudiziari sono sempre esistiti. No, si tratta di discutere un intero capitolo della nostra storia. Se non siamo capaci di capirlo, siamo noi che meritiamo l’eutanasia.

giovedì 17 aprile 2008

Etica dell'impresa (e della tirchieria). Davide Giacalone

Segnalo il caso di Ingvar Kamprad, che non esita a definirsi tirchio, e forse lo è, ma è l’esempio vivente di un’etica dell’impresa che non si lascia assimilare ai pacchiani costumi degli arricchiti. Il nome di quest’uomo forse non dice molto, ma il marchio Ikea riassume tutto. La sua fortuna personale si aggira sui 18 miliardi di euro, l’ultimo fatturato viaggia verso i venti. Diciamo che le preoccupazioni finanziarie non sono le sue principali. Eppure va al mercato verso la chiusura, quando aumentano gli sconti, si muove con il carrello fra gli scaffali cercando le occasioni, vive in una bella, ma normale e lineare villetta in un paesino svizzero, avendola arredata con mobili da lui prodotti e da lui stesso montati. Viaggia per affari, naturalmente, ma rigorosamente low cost. Quando arriva prende la metropolitana. Ha 82 anni, ma non vede perché tirare i remi in barca o perché sperperare: i mobili son quello che sa fare e vivere dignitosamente, preservando la sua “normalità” anonima, gli sembra un gran bel risultato.Ripeto, può darsi che qualche suo comportamento sia un po’ maniacale, ma la sua condotta di vita rende ancor più scandalose le retribuzioni che qualche manager italiano si attribuisce e paga, per giunta mandando allo sfacelo le aziende che amministra. L’etica dell’impresa consiste nel fare. Nel creare prodotti che risolvano i problemi dei clienti, nel creare ricchezza. Non mi piace l’idea che tutti ci si debba adeguare ad una vita monacale, ma la convinzione che l’impresa sia il mezzo dell’arricchimento personale, finalizzato alla “bella vita”, è sbagliata. Ed è decadente.
Il signor Ikea sarà pure spilorcio, ma quel suo approccio al mercato ha consentito di costruire un gruppo che guarda cinesi ed indiani come possibili clienti, non come concorrenti cui soccombere. I tanti riccastri che spiegano le vele al vento, comprano ville, s’aggirano con ingioiellati manichini che, sul mercato, hanno nomi più pregnanti, invece possono solo cercare di scappare con la cassa prima che gli asiatici soffino loro il lavoro. Noi abbiamo manager, che è già generoso definire domestici, incapaci di muoversi senza aerei aziendali. Questo è un signore che ha lavoro in gran parte del mondo e va all’imbarco come tutti gli altri. Il suo catalogo è distribuito in 170 milioni di copie, mentre i prodotti di quegli altri si reggono in ambiti protetti e numericamente ridicoli. Lui prende l’autobus, quegli altri si perdono nel quartiere di casa, se abbandonati dall’autista.
La morale del mercato è nel valore dell’azienda, come nel valore che l’azienda porta al mercato. La finanza è una parte importante di questo mercato, e guai a considerarla in sé negativa. Ma far soldi con la finanza, giocando fra la borsa ed i bilanci taroccati, serve solo ad impoverire tutti, consentendo a qualche zotico d’atteggiarsi a collezionista d’arte. Dalle nostre parti, a mezzadria fra il cattolicesimo pauperista ed il marxismo per denutriti, si considera la ricchezza un peccato od una colpa, salvo poi andare a leccar tartine in ricevimenti post industriali. Mi sa che qualche sana lezione di spilorceria calvinista non guasterebbe.

mercoledì 9 aprile 2008

La smettessero. Valerio Fioravanti

Ogni paio di mesi da quasi venti anni, Umberto Bossi spara la solita stupidaggine: “Prenderemo i fucili!”. Prima, giustamente, a queste farneticazioni non ci faceva caso nessuno, ma da quando Bossi è andato al governo con il centrodestra, ossia dal ’94, ogni volta che Bossi ridice la sua, Repubblica e Unità mettono la “notizia” in prima pagina, scriita ben grande, contornata di pareri prestigiosi, e simulando ogni volta la consueta “indignazione”, dolendosi profondamente per lo sfregio alla costituzione, alla storia d’Italia, alla democrazia eccetera eccetera. La smettessero con questa sceneggiata, con questa indignazione bimestrale, con questo scandalo a comando. Se poi anche Bossi la smettesse di parlare come un contadino avvinazzato, sarebbe meglio per tutti. (l'Opinione)

martedì 1 aprile 2008

Perché Veltroni non nomina mai il Cav.

Walter Veltroni si è imposto il vezzo di non pronunciare mai il nome di Berlusconi in campagna elettorale. Ricorre a tutte le parafrasi possibili, ma ostentatamente evita il nome proprio. Vorrebbe che questa scelta fosse intesa come una svolta positiva: la fine dell’anti-berlusconismo insultante che caratterizzava la retorica di sinistra.

Ma non è così: si tratta invece di una scelta odiosa e tracotante, tesa a deumanizzare l’avversario, a cancellarne identità e caratteristiche personali. E’ una trovata da bassifondi della psico-politica, indegna dell’immagine cristallina che Veltroni vuole trasmettere di sé e rivelatrice invece della sua vera indole fatta di piccole e grandi cattiverie, di calcoli e di astuzie.

Veltroni si illude che nel vuoto creato dall’assenza del nome dell’avversario gli italiani possano riversare i loro odi e le loro paure: ognuno le sue, ognuno le peggiori, risparmiando a lui la fatica di sporcarsi le mani. Ma non funziona così.

Quello che spaventa gli italiani è che possono sentirsi ripetere il nome di Veltroni anche cento volte al giorno, ma il vuoto resta lo stesso. (l'Occidentale)