mercoledì 31 dicembre 2008

Mezzanotte, fra l'Avana e Gaza. Davide Giacalone

In un attimo si consuma un anno, ma la storia rimane talora inchiodata, ignara del tempo. Alla mezzanotte di oggi Fidel Castro conquisterà un record inespugnabile: cinquanta anni di dispotismo personale. Divenne comunista solo per cinico calcolo e per convenienza, in compenso i comunisti del mondo libero e ricco lo hanno osannato, ed ancora si sdilinquiscono, fregandosene del popolo condannato alla fame, degli intellettuali costretti all’esilio, degli omosessuali portati nei campi di concentramento. Il primo gennaio 1959 Castro entrò all’Avana, da quel giorno i cubani liberi ne sono fuggiti, per cinquanta anni.

A fare il percorso inverso, ad approdare a Cuba, sono aerei pieni di ammiratori e profittatori. Militanti di una sinistra cieca ed invecchiata, cui basta riconoscere un anti statunitense per farne un compagno, così trovandosi sempre a tifare per la feccia della storia. Nel sedile accanto ci sono vecchi maiali e stolide babbione, alla ricerca di miserabili con cui sollazzarsi. Accoppiata coerente, per metterla in quel posto al popolo cubano.
Sulla striscia di Gaza i botti son sempre gli stessi. Barak annuncia la voglia di cancellare Hamas. Magari! Lo sperano, per primi, i palestinesi di Abu Mazen. Lo spera Bush, come Obama, l’uno per chiudere e l’altro per aprire. Ma ad impedirlo ci sono i soldi e le armi degli iraniani, e c’è un’Europa che biascica di tregue, incapace di affermare che la sicurezza d’Israele è la condizione senza la quale non ci sarà, mai e poi mai, uno Stato palestinese. Farla finita, con i terroristi al soldo degli stranieri, è interesse del popolo palestinese. Mentre da noi ancora circolano gli imbecilli con la kefiah, alla moda dell’intifada, e la voglia di parteggiare per gli assassini pur di manifestare contro israeliani ed americani.
Per l’ideologia comunista il ventesimo secolo, quello delle grandi dittature, si è chiuso con dieci anni d’anticipo. Grazie al cielo, a Reagan, agli euromissili ed a Wojtyla. Per l’avversità alla democrazia ed alle libertà individuali, alla laicità dello Stato ed alla vitalità del capitalismo, invece, ancora dura. E cerca sponde e forza fra i nemici dell’occidente. Nella giornata degli auguri, me ne preme uno: che la civiltà trionfi ed i fondamentalismi anneghino, portando nell’abisso gli stupidi seguaci.

domenica 21 dicembre 2008

Islam all'attacco? No, noi suicidi. Michele Brambilla

La notizia è identica a tante altre che ci siamo ormai abituati a registrare, ogni anno, nell’imminenza del Natale: a Ravenna 17 asili su 22 hanno proibito il presepe. Identica è anche la motivazione della messa al bando: la volontà di «non offendere» i bambini non cristiani, che poi vuol dire i bambini musulmani, in larga maggioranza tra gli stranieri, anche se in larghissima minoranza tra gli iscritti agli asili. Comunque, per rispetto a quella «minoranza», niente presepe: e quindi anche niente Tu scendi dalle stelle, niente Astro del ciel, niente Adeste fideles, niente recita, non parliamo poi di una messa. È probabile che fra breve venga anche proibito ai bambini di far menzione in classe della scatola del Lego trovata sotto l’albero.
C’è però qualcosa di nuovo, in quel che è accaduto a Ravenna. Questa volta la comunità musulmana, evidentemente stufa di essere poi presa a bersaglio dell’indignazione di quei pochi ormai rimasti a indignarsi, insomma stufa di fare da capro espiatorio, ha fatto sentire la sua voce. «Il presepe non urta nessuno», ha detto Mustapha Toumi, segretario del Centro di cultura e Studi islamici della Romagna, che ha aggiunto: «La natività è il simbolo che spiega la venuta al mondo di Gesù, profeta amato dal popolo musulmano». Parole che sarebbero un’ovvietà, se solo si conoscesse l’abc della religione islamica, per la quale Gesù non è l’Incarnazione di Dio (come credono i cristiani) ma è comunque un grande profeta, secondo solo a Maometto.
Infatti, se è una «novità» la pubblica reazione degli islamici di Romagna, è anche incontestabile che mai abbiamo avuto notizia, negli anni scorsi, di manifestazioni di islamici contro il presepe: siamo sempre stati noi italiani, noi occidentali, noi laici a volerli cancellare dal panorama natalizio. Le uniche proteste contro i simboli cristiani provenienti dal mondo islamico sono venute da quel pittoresco personaggio di Adel Smith, cittadino italiano a tutti gli affetti, figlio di un italiano che si chiama «Smith» solo per via di antenati scozzesi. Quando, il 7 novembre 2001, a Porta a porta Adel Smith insultò il crocefisso («un cadaverino appeso a due legnetti»), la Comunità islamica italiana prese immediatamente le distanze.
Quel che è successo a Ravenna speriamo sia, insomma, la caduta di una foglia di fico, di un’ipocrisia tenuta in vita fino ad ora per occultare la verità: siamo noi che stiamo cercando di spazzare via il cristianesimo dalla nostra cultura e dalla nostra vita. Il «rispetto della sensibilità musulmana» è solo un pretesto, prova ne sia la festa di Ognissanti, altra ricorrenza cristiana ormai di fatto soppressa, e non per favorire la convivenza con altre religioni: è bastato trovare, come succedaneo, un’americanata come Halloween. Certo: il rischio di un’islamizzazione dell’Occidente, denunciato da Oriana Fallaci e da tanti altri, è reale. Ma se ciò avverrà, non sarà perché gli islamici ci avranno ammazzati: sarà perché noi ci saremo suicidati.
Qualcuno ironizza quando la Chiesa cattolica lamenta di sentirsi aggredita e accerchiata per essere ridotta a un ruolo di assoluta marginalità. Ma è un dato di fatto che i mezzi di informazione, la scuola, la politica e in generale tutta la cultura parlano un linguaggio estraneo - quando non apertamente ostile - al cristianesimo. Un fenomeno che non viene negato neppure da chi di questa cultura ormai a-cristiana è portatore. Ma che viene giustificato con la semplice necessità di separare Stato e fede, o con una sorta di autodifesa contro le continue ingerenze della Chiesa in questioni politiche.
In realtà, le «continue ingerenze» - più in materia etica che politica - sono un quasi disperato tentativo di far sentire ancora la propria voce in un mondo che vive neanche più «contro», ma semplicemente «senza» riferimenti al vangelo. La politica non basta a spiegare un’offensiva che ha in realtà radici ben più profonde: le stesse che hanno portato la cristianità, in duemila anni di storia, a essere ciclicamente perseguitata. Non a caso il cristiano crede che la Chiesa sussisterà fino alla fine dei tempi: ma non certo come maggioranza, bensì come «piccolo gregge». (il Giornale)

sabato 13 dicembre 2008

Ma perché le Cooperative fanno anche le banche? Giovambattista Palumbo

Il "prestito sociale" delle Cooperative è un deposito, sotto forma di libretto, che i soci Coop utilizzano sia come bancomat sia come forma di impiego dei propri risparmi. I portatori dei "libretti" Coop sono dunque creditori di una società commerciale in grado, attraverso tale sistema, di poter contare su una riserva di liquidità quasi infinita (oltre che molto conveniente), che viene poi magari reinvestita a tassi anche maggiori, con relativi profitti.

Il prestito "sociale" serve dunque a finanziare l'attività distributiva, che non è però più “sociale” di quella di altre imprese (non cooperative) che operano nello stesso settore.

Allo scorso 31 dicembre, il solo distretto tirrenico delle Coop deteneva depositi, sotto forma di "prestito sociale", per più di 4 miliardi di euro, laddove il totale nazionale dei depositi così raccolti è di circa 12 miliardi di euro. Le cifre danno l’idea anche del peso politico della questione. Insomma perché mai le cooperative che si occupano di grande distribuzione dovrebbero fare anche le banche?

Forse perché così, grazie ai tanti risparmi loro prestati, hanno a disposizione una liquidità continua, il che gli evita anche di chiedere prestiti alle banche a tassi sicuramente più alti (vantaggio ancora più importante in un momento di stretta creditizia come quella che si annuncia)? O forse perché, come detto, poi reinvestono tali risparmi, ricavandone poi ulteriori profitti (che comunque continuano ad andare nel calderone degli utili soggetti alla tassazione agevolata tipica delle cooperative)? E sul lato fiscale?

Sul lato fiscale Tremonti ha finalmente alzato l’aliquota sul prestito soci dal 12,5% al 20%. Sulla questione del resto vi era già l’attenzione della Commissione Europea, che aveva parlato di aiuti di Stato incompatibili con il mercato comune. Aiuti che, favorendo talune imprese, falsavano o minacciavano di falsare la libera concorrenza. Secondo la Commissione UE, infatti, la deduzione dal reddito imponibile degli utili accantonati alle riserve indivisibili sembra proprio un aiuto di stato, così come il prestito sociale, ossia la riduzione fiscale sugli interessi versati ai membri per depositi a breve termine e la deducibilità dei ristorni, con il rischio dunque di illeciti vantaggi per le grandi cooperative, concorrenti dirette delle imprese commerciali tradizionali. Anche se, come detto, alcuni di tali vantaggi sono stati ridimensionati, restano però tutti gli altri vantaggi legati alla possibilità di avere a disposizione una così grande liquidità a condizioni molto vantaggiose.

Lo strumento del prestito sociale era nato del resto anche come rimedio alla circostanza che, per Statuto, tali Cooperative non possono remunerare il capitale investito dai soci e non possono distribuire utili. Queste due prerogative, anzi, rappresentano una delle peculiarità che giustificano le agevolazioni fiscali. Ecco allora però che con il prestito sociale si assicura ai propri soci almeno un rendimento assimilabile a quello dei Bot (che infatti è preso come punto di riferimento da tutte le Coop nel calcolare il rendimento da assicurare sui prestiti sociali). Ma, a parte il fatto che in questo modo, di fatto, si aggira un divieto statutario, con, oltretutto, il rischio di violazione di principi comunitari secondo il concetto di derivazione giurisprudenziale dell’abuso del diritto, il prestito sociale, come investimento, è almeno sicuro e conveniente?

Parliamo di fatti. Quanto alla sicurezza, la Banca d’Italia ha comunque imposto una clausola di garanzia, per cui le cooperative non possono raccogliere più di tre volte il loro patrimonio (capitale più riserve indivise) e ciascun socio non può prestare più di 25.000,00 Euro.

Il libretto del prestito sociale però non è protetto dal Fondo interbancario di tutela che protegge i conti correnti e i depositi bancari fino a 103.000,00 Euro e niente esclude che anche tali imprese, in teoria, possano fallire (nel settore delle costruzioni è anzi capitato già più volte). Le Coop, quindi, già solo per questo motivo, per compensare cioè il “rischio fallimento”, dovrebbero offrire tassi di interesse superiori rispetto a quelli bancari (come detto, comunque, garantiti). Quanto alla convenienza, con l’innalzamento dell’aliquota sul prestito dal 12,5% al 20%, alla cedola lorda (attualmente, circa, al 3%), a meno che le Cooperative non riescano ad assorbire l’aumento fiscale (cosa peraltro alquanto difficile), si dovrebbe sottrarre il 7,5% e quindi il rendimento netto del prestito sociale, alla fine, sarebbe inferiore anche a quello dei Bot.

Forse dunque sarebbe meglio (per tutti, risparmiatori compresi) che i supermercati tornassero a fare i supermercati (possibilmente senza agevolazioni fiscali contrarie al principio comunitario della tutela libera concorrenza e in violazione della disciplina in materia di aiuti di stato) e che le banche tornassero a fare le banche (nel senso buono del termine, naturalmente; laddove ancora un senso buono esista). (l'Occidentale)

mercoledì 3 dicembre 2008

Blitz al campo Casilino: sequestrato ai nomadi un milione di euro

Vivevano nel campo rom, ma disponevano di appartamenti, auto di grossa cilindrata e 26 conti bancari. Beni mobili e immobili per un valore di oltre un milione di euro sono stati sequestrati ad un gruppo di nomadi provenienti dalla ex Jugoslavia, nel corso di una operazione cominciata all’alba dei carabinieri del Ros nel più grande campo nomadi d’Italia, il Casilino 900. All’operazione partecipano anche reparti territoriali dell’arma e sono in corso perquisizioni con oltre 150 carabinieri. I carabinieri del Ros hanno accertato che il gruppo di nomadi oggetto di indagine, pur vivendo in una baracca, disponeva di appartamenti, auto di grossa cilindrata e 26 conti correnti bancari.
I militari hanno eseguito il decreto di sequestro di beni emesso da tribunale ordinario di Roma su richiesta della Direzione distrettuale antimafia. Le persone indagate, hanno accertato i carabinieri, pur non esercitando attività lavorativa e non dichiarando redditi, disponevano di un patrimonio di ingenti proporzioni e movimentavano somme di denaro di cui non potevano giustificare la provenienza.
Durissimo il commento del sindaco di Roma: “Rivolgo complimenti vivissimi all’Arma dei carabinieri per la brillante operazione portata a termine nel campo Casilino 900. Ma questo intervento getta una luce inquietante sulla situazione che si vive all’interno dei campi nomadi. Scoprire che persone che vivono in una baracca hanno conti in banca e appartamenti di proprietà sparsi per la città, dimostra come su questi temi non si può agire solo sul versante della solidarietà e dell’integrazione. Esiste un problema di legalità che è irresponsabile negare o minimizzare”. “Ecco perchè” conclude Alemanno “con ancor maggiore forza ci impegneremo per lo spostamento del Casilino 900 offrendo una soluzione di vivibilità per tutti coloro che si vogliono integrare e contemporaneamente espellendo tutti coloro che non si dimostrano disponibili a rispettare la legalità”. (Panorama)

sabato 29 novembre 2008

Da Mumbai a Washington. Davide Giacalone

L’India è un gigante economico in rapida crescita. Al contrario della Cina, è una democrazia, sebbene con caratteristiche non certo europee. Quattro religioni sono nate qui: l’Induismo, il Buddismo, il Giainismo ed il Sikismo. Nessuna di queste è incompatibile con lo sviluppo capitalistico, hanno, insomma, meno problemi di noi, figli, a vario titolo, della Bibbia. Fino all’inizio degli anni novanta è stato il più grande Paese fra i “non allineati”, vale a dire che ha sviluppato l’arma atomica in positiva relazione con l’Unione Sovietica. Con la fine dei due blocchi, l’India si è concentra sulle riforme ed ha imboccato la via della ricchezza.Il Paese è martoriato dal terrorismo. Solo quest’anno, e prima dell’attacco a Mumbai, i morti erano già più di 200. Essendo quasi tutti indiani, dalle nostre parti ce la sbrigavamo con una foto della strage. L’impressione è che, adesso, stiano parlando con noi, o, meglio, stiano rivolgendosi a Washington. La risposta non la vogliono da Singh (premier indiano), ma da Obama. Due elementi depongono in tale senso. Primo: gli obiettivi sono stati scelti apposta per parlare al mondo, concentrandosi su alberghi e cittadini stranieri. Secondo: la quantità dei morti è in linea con la media passata e la qualità militare dell’attacco non è poi così raffinata. Sono in tanti, lanciano bombe e sparano con i mitra nei luoghi affollati, è un lavoro all’ingrosso, per niente sofisticato. Semmai è la reazione indiana ad essere inefficiente.
Visto che si firmano Mujahidin, quindi mussulmani, la mente corre ad Al Quaeda ed al nemico storico, il Pakistan. Ma questo Paese confinante è stato alleato degli occidentali nel far partire la guerra in Afghanistan, ed in quel momento gli statunitensi dovettero governare il rapporto con l’India, divenuto interlocutore affidabile da quando si dedica più ai soldi che alle bombe. Quindi, non solo le due matrici non si sovrappongono, ma se il coordinamento parte dal Pakistan, non lo si deve certo a chi amministra i buoni rapporti con l’occidente. E’ chi vuol far saltare tutto in aria, chi soffre il clima di collaborazione, a porre oggi il problema ad un Obama che persegue la continuità in politica estera: chi scegli, come rispondi? Non mi meraviglierei se i kalashnikov non fossero l’unica cosa d’origine russa.

venerdì 28 novembre 2008

Il senso del denaro. Lucia Annunziata

Un po’ di conti: se una famiglia guadagna 500 euro al mese, un dono mensile di 40 euro costituisce quasi il 10% di aumento del suo reddito.

Sputateci sopra! Molto fastidiosa, perché molto snob, la discussione sollevata dall’introduzione della Social card. Si è sentito di tutto: «Umiliante elemosina», «tessera annonaria», «beffa». «Misura irrisoria e paternalista». Definizioni eccessive, e perfetto esempio di come la polemica a tutti i costi spesso non fa bene all’opposizione e non lede il governo.

Provo a partire dalle critiche fin qui mosse al pacchetto anticrisi che il governo dovrebbe approvare: si dice che 80 miliardi sono pochi per un vero intervento, sono ancora tutti sulla carta e in più i soldi realmente disponibili sono in parte già impegnati, come quelli per il Sud (i fondi Fas). Più sostanzialmente il pacchetto è criticato tuttavia per il suo approccio: esaminate da vicino, le sue misure sono più di difesa contro il peggio che un vero stimolo economico. La mancanza di un intervento diretto sulle tredicesime, per far sì che davvero i consumi vengano rilanciati nel critico periodo di Natale, è un buon esempio simbolico di tutti questi limiti.

Sono critiche condivisibili, che per altro sembrano avere un’eco nello stesso governo, se è vero quel che si legge delle tensioni dentro l’esecutivo intorno a un intervento prima di Natale, e se si leggono bene le dichiarazioni del premier sulla necessità di avere più risorse a disposizione, grazie anche alla leggera flessibilità sui parametri arrivata dall’Europa. Ma - ecco la vera domanda - perché respingere (ridicolizzare) le misure che contiene di una qualche efficacia? Ad esempio: lo spostamento del pagamento dell’Iva al momento in cui si incassa non è certo un forte intervento di detassazione, ma non è anche un piccolo sollievo? Ancora: se gli ammortizzatori sociali vengono estesi anche a lavoratori precari e irregolari, si può dire giustamente che questi fondi non sono sufficienti per tutti coloro che si troveranno in difficoltà, ma bisogna per questo respingere quelli che arriveranno a pochi?

Lo stesso vale per la Social card. Non mi è chiaro che cosa ci sia esattamente da criticare. È dedicata specificamente «agli ultimi degli ultimi», a quel milione e mezzo di poveri irreversibili - vecchi, donne sole con bambini, famiglie prive d’ogni prospettiva - gli stessi la cui esistenza Prodi denunciò, facendone la base dei suoi interventi più immediati. La Card è per definizione un piccolissimo gesto di sostegno sociale e se anche fosse la piccola carità dei capitalisti compassionevoli, non sarebbe per questo da respingere. Su qualche giornale (centrodestra e centrosinistra) si sostiene che questi interventi deludono la classe media, ma i fondi dedicati a questa assistenza avrebbero avuto ben piccolo impatto su quel che serve per la classe media. Mentre per i veri poveri, per chi guadagna 500 euro al mese, anche 40 euro in più fanno una differenza.

L’impressione è che al centro della discussione sulla Social card ci sia un vuoto di consapevolezza su che cosa sia la povertà. Non la povertà «percepita» di una società che diventa progressivamente più immobile, né quella della classe media che deve ridefinire il suo stile di vita, e neanche quella di una classe operaia che deve drasticamente ridurre anche i consumi essenziali. Parliamo di poveri veri, che per metà vivono con quello che hanno, per l’altra metà vanno alle mense pubbliche; di coloro per cui a Natale andare a mangiare un pasto decente (e servito) alla Comunità di Sant’Egidio fa tutta la differenza del mondo. Questa la gente che a volte ruba una mela nei supermercati o che nei supermercati con dignità compra una mela e una scatola di pelati a prezzi scontati. E anche chi sta meglio di loro - e che non avrà la Social card - non vive con molto di più: la pensione di un operaio che ha lavorato quarant’anni è fra 700 e 800 euro, e uno stipendio nel nostro Paese è di 1200-1500 euro.

Questo è il senso del denaro che hanno i cittadini comuni. Per ognuno di loro 40 euro sono un mese di carica per il telefonino del figlio o una sera fuori a cena, o la spesa di una settimana. Per quelli davvero poveri 40 euro sono il consumo mensile di elettricità, la differenza fra riscaldarsi o meno. Inoltre, queste persone non hanno vergogna di avere nelle mani una carta che ne attesti la condizione di povertà: i veri poveri sanno di esserlo e conoscono già l’umiliazione di mettersi in fila alle mense, o di chiedere ai figli qualche lira in più. Una carta probabilmente porta loro almeno un senso di considerazione da parte degli altri. Sono poi stati così terribili i «food stamp» kennediani? Erano certo più dei 40 euro della nostra carta, e come questa sono stati discussi: i neri d’America ne sono stati umiliati ed esacerbati, ma ne sono anche stati aiutati in uno dei peggiori passaggi della loro storia.

Attenzione, dunque, a non parlare per chi non ha la nostra stessa condizione e la nostra stessa voce. Quelli che «con 40 euro si comprano tre caffè e le sigarette» probabilmente non si rendono conto dell’ammontare di privilegio che è contenuto in questa frase. (la Stampa)

martedì 25 novembre 2008

Tale Veltroni, tale Raciti. L'uovo di giornata

E' proprio vero: i giovani guardano i grandi e imparano. Più li frequentano e più li imitano. Accade che, lontano dai riflettori che contano, i giovani del Pd abbiano eletto il proprio segretario attraverso delle primarie nazionali. Nel vedere come è stato gestito il tutto Veltroni sarà senz’altro soddisfatto, si stanno seguendo le sue orme.

Il nuovo segretario è Fausto Raciti, siciliano, ventiquattro anni, da anni impegnato con la sinistra giovanile. Pupillo di Walter. Come avviene tra i grandi, le trattative di palazzo davano il fanciullo segretario giovanile già da un pezzo. Ma serviva l’incoronazione popolare. Per dirla in politichese: l’incoronazione doveva arrivare attraverso una grande festa della democrazia. Che bravi questi giovani, litigano come i grandi, agiscono secondo logiche da prima repubblica, sparano cifre come i loro ministri ombra e quando si tratta di primarie seguono le orme paterne. Il Movimento giovanile cresce seguendo gli insegnamenti di Walter e dopo queste primarie in salsa giovane ne abbiamo chiara la conferma.

Ecco un primo indizio: le cifre. Di Ufficiali non ce ne sono ma, secondo altre stime, “ufficiali” solo tra virgolette, a votare sono stati 121.623. Tanti? Pochi? Va a sapere. Ma per Walter sono stati tanti ben più dei francesi iscritti al partito socialista che hanno partecipato al ballottaggio tra Royal e Aubry! E scusate se è poco, viene da aggiungere. Tutto sembrava andare per il verso giusto, secondo appunto la walter strategy, quando, è proprio il caso si dirlo, a rompere gli inciuci nel paniere, è arrivata Giulia Innocenti, coetanea di Raciti, e proveniente dai radicali. La fanciulla rischiava di mandare a carte quarantotto tutta la pantomima delle primarie giovanili. Mentre la base giovanile beveva il frullatone delle primarie e della grande festa di democrazia i leaderucci del movimento si facevano gli affari loro. In ordine dalla base militante in buona fede sono stati denunciati: caos durante lo spoglio delle schede, zero seggi nelle zone dove la Innocenti era più forte ( un solo seggio a Palermo, contro i quarantadue dei comuni della provincia), palesi inviti da parte degli scrutatori a votare Raciti, voti per Raciti arrivati via mail e chi, addirittura ha votato telefonicamente.

Insomma ognuno ha cercato in qualche modo di partecipare alla grande festa della democrazia. Ecco perché erano “più dei francesi iscritti al partito socialista che hanno partecipato al ballottaggio tra Royal e Aubry!”In Francia si sa, le feste non finiscono mai a tarallucci e vino. (l'Occidentale)

sabato 22 novembre 2008

La politica dell'effimero. Arturo Diaconale

Una volta era la manifestazione al Circo Massimo. Adesso sono le elezioni in Abruzzo. Successivamente saranno quelle europee di primavera o qualche altro accidente occasionale. Di sicuro c’è sempre un qualche pretesto per il segretario del Pd Walter Veltroni per contraddire la presunta vocazione riformista del proprio partito e cavalcare l’onda massimalista alla ricerca del risultato immediato. Si tratta di realismo politico? Quello che impone ad un leader di non perdere mai di vista gli avvenimenti che si susseguono giorno dopo giorno ed impongono una attenzione che spesso può spingere a derogare dalla strategia di fondo? Niente affatto. Si tratta di un vero e proprio metodo. L’unico che Veltroni conosce e sa applicare. Quello di subordinare i principi alle occasioni. E, di conseguenza, di puntare sempre e comunque sull’apparenza del momento piuttosto che sulla sostanza del lungo periodo. Il caso più vicino ed emblematico è quello dell’atteggiamento assunto dal segretario del Pd a proposito dell’incalzare della crisi economica. Di fronte al moltiplicarsi dei segnali della tempesta che rischia di sconvolgere il paese, Veltroni ha lanciato al governo la proposta di aprire rapidamente un tavolo a Palazzo Chigi tra i rappresentanti di tutte le forze politiche e sociali per un confronto sul modo migliore per fronteggiare il pericolo. In apparenza l’iniziativa è di buon senso.

E sembrerebbe dimostrare che la volontà di dialogo del segretario del Pd non si è affievolita in questi mesi di dure polemiche tra maggioranza ed opposizione. Nella realtà, però, non è affatto così. Perché subito dopo aver sollecitato al governo l’apertura di un confronto per fronteggiare la crisi, Veltroni non solo ha ripercorso tutti i provvedimenti economici varati nei mesi scorsi dal governo bocciandoli senza possibilità di appello uno per uno. Il ché può essere anche legittimo per un leader dell’opposizione che deve comunque marcare la differenza e la distanza con la maggioranza. Ma ha aggiunto anche una stoccata finale diretta personalmente contro il Presidente definendolo un “uomo del conflitto e della contrapposizione”. Cioè uno con cui non è possibile realizzare alcun tipo di confronto. È contraddittoria la posizione di chi chiede l’apertura del dialogo e contemporaneamente esclude che questo dialogo possa mai iniziare o produrre risultati, visto che il proprio interlocutore principale è “uomo di conflitto e di contrapposizione”? Per ogni persona di buon senso è sicuramente così.

Per Veltroni, invece, no. E non perché non abbia buon senso, ma perché il suo modo di fare politica è totalmente imperniato sulla contraddizione. Il suo, in sostanza, è il “ma anche” portato a sistema. Si chiede il dialogo “ma anche” s’insulta bloccandolo in partenza. E via di seguito. A dimostrazione e conferma che il segretario del Pd non ha un principio stabile a cui ancorare la propria azione, che potrebbe essere indifferentemente il dialogo o la lotta. Ma gioca sull’uno e sull’altro con assoluta indifferenza, alla ricerca non di una strategia a cui ancorare il Pd. Solo dell’occasione del momento per conquistare un titolo sui giornali o un passaggio in Tv. Chi ricorda l’esperienza di Veltroni in Campidoglio sa bene che questa è la strategia politica dell’effimero. Che produce le piazze piene nelle notti bianche, ma, alla lunga, provoca le urne vuote alle elezioni. Per il Pdl è una assicurazione sul futuro. Per il Pd una jattura (l'Opinione)

Il peccato originale. Augusto Minzolini

Una fissazione. Una tentazione irresistibile. Per i politici la Rai è inevitabilmente l’oggetto del desiderio. Un comportamento paradossale visto che non mancano argomenti più importanti in questi tempi di crisi economica. E, invece, mamma Rai si ingoia tutto, catalizza l’attenzione, diventa il pomo della discordia o un terreno di dialogo. In questa legislatura è accaduto subito. Walter Veltroni pose il problema Rai nel primo incontro che ebbe a quattr’occhi con il Cavaliere dopo le elezioni: avrebbe potuto parlare di tante altre cose, ma in quei venti minuti il leader del Pd si occupò soprattutto dell’azienda del suo cuore. Dopo sei mesi siamo al punto di partenza. Basta pensare che due giorni fa per spingere il centro-destra a boicottare il presidente eletto alla Commissione di vigilanza, quel Riccardo Villari che sta facendo impazzire Veltroni, il centro-sinistra ha cominciato un’azione di ostruzionismo sul «decreto salva-banche» su cui aveva dato già il suo ok. Un atteggiamento, per usare un eufemismo, a dir poco discutibile. In questi giorni è successo anche di peggio: i presidenti delle due Camere, nel lodevole tentativo di sbloccare la situazione, hanno chiesto a Villari di dimettersi invitandolo ad anteporre le ragioni politiche a quelle giuridiche che, invece, gli consentirebbero di restare al suo posto.

Ora il prima «buttiglioniano», poi «mastelliano», quindi «mariniano» Riccardo Villari può essere considerato una vittima o un furbone, ma in ogni caso l’iniziativa presa dai vertici istituzionali crea un precedente pericoloso. Le alte cariche, infatti, sono tali proprio perché sono garantite da regole giuridiche che consentono loro di essere al di sopra delle parti. Ebbene, subordinare queste regole alle opportunità politiche un domani potrebbe diventare imbarazzante: ad esempio, mutando il rapporto tra Pdl e Pd, qualcuno potrebbe chiedere a Fini o Schifani di lasciare il posto a un esponente dell’opposizione, facendo appello al loro senso di responsabilità, per aprire una nuova fase politica. Insomma, anche questa volta la Rai ha provocato una lunga serie di guai. I problemi, però, nascono sempre da un nodo politico irrisolto. La vicenda, infatti, poteva essere liquidata già un mese fa, c’era l’ipotesi di un accordo equanime che maggioranza e opposizione avrebbero potuto accettare magari turandosi il naso: l’opposizione avrebbe dato il via libera all’elezione di Gaetano Pecorella alla Consulta; Berlusconi avrebbe accettato obtorto collo l’elezione di Leoluca Orlando, che non gli ha mai risparmiato nulla in termini di accuse verbali, alla presidenza della Commissione vigilanza Rai. Invece, alla fine l’intesa è saltata: Veltroni - spinto da Antonio Di Pietro - ha posto un veto su Pecorella per la Consulta e Berlusconi è stato costretto a cambiare candidato; poi, il leader del Pd - convinto da Di Pietro - ha trasformato il nome di Orlando in un’icona senza alternative. Messa così, Berlusconi non avrebbe mai potuto accettare insieme un «veto» e un’«imposizione» di Di Pietro via Veltroni. Per cui siamo arrivati allo scontro e allo «showdown» sulla Rai che il Cavaliere avrebbe sicuramente evitato, non fosse altro perché qualcuno gli avrebbe ritirato o gli ritirerà fuori (Nanni Moretti docet) la solita questione del conflitto d’interessi. Insomma, un lungo elenco di errori. Troppi. L’accordo su Sergio Zavoli è stato siglato tardi. Magari tra qualche giorno la situazione sarà raddrizzata. Magari i commissari del centro-destra, come quelli del centro-sinistra, decideranno - scommette il veltroniano Goffredo Bettini - di non partecipare ai lavori di una Commissione di vigilanza presieduta da Villari. Magari quest’ultimo, abbandonato da tutti, si dimetterà pure. Resta, però, un problema politico irrisolto che produrrà altri guai visto che la politica non sarà precisa come la matematica ma ci si avvicina. Tutto questo «caos» nasce dai limiti di leadership di Veltroni e dalle contraddizioni della sua linea politica. Per dialogare con profitto i capi dei due schieramenti debbono rappresentare una leadership riconosciuta: in queste settimane Berlusconi promuoverà ministro della Salute Ferruccio Fazio, e al Turismo Michela Brambilla, e nessuno tra i suoi alzerà un dito: per Veltroni, invece, ogni intesa, ogni nomina si trasforma in un calvario, tutti ne contestano le decisioni. Ma è soprattutto la linea politica che è piena di ombre. Il «ma anche» veltroniano può essere applicato a tanti argomenti, ma non si può dire: dialogo con Berlusconi, ma sono anche alleato con il campione dell’«anti-berlusconismo» Di Pietro. È una posizione spericolata, foriera di incidenti di cui però ora Veltroni è rimasto prigioniero: il congresso del Pd è virtualmente aperto, si concluderà alle elezioni europee e Veltroni per sopravvivere, per raggiungere l’agognata soglia di salvezza del 30%, non potrà lasciare troppo spazio a Di Pietro sulla sua sinistra, dovrà coccolarselo. Contemporaneamente se Veltroni non romperà definitivamente con l’ex magistrato neppure le magiche doti diplomatiche di Gianni Letta potranno dare un senso al dialogo. Forse Zavoli farà il presidente della commissione di Vigilanza, ma inevitabilmente subito dopo si aprirà una polemica sul presidente Rai in attesa di uno scontro su qualcos’altro. È successo di nuovo ieri sulla giustizia. A un possibile accordo seguirà comunque una rottura. Così il leader del Pd continuerà a mordersi la coda fino alle Europee. Sulla Rai e non solo. (la Stampa)

martedì 18 novembre 2008

I pidocchi nella criniera del cavallo. Peppino Caldarola

La minaccia è chiara. Se Villari, inteso come Riccardo, non si dimet­te, sarà cacciato dal Pd. Villari, per ora, non si dimette. L’abominevole termine «espulsione» torna a svolazzare sopra le teste dei dirigenti del Pd. Due settimane fa sembrava toccasse alla Binetti. Oggi a Villari. Doma­ni chissà. Il partito «più moderno» della sinistra torna ai riti sacrificali e ca­tacombali dell'antico movimento operaio. È un bel tuffo indietro. Di molti decenni.
L’ultimo Pci, bistrattato e dimenticato, non espelleva più nessuno. Neppure cadeva nella tentazione delle formazioni correntizie di espellersi l'una con l'altra. Nell'ultimo Pci, e nei partiti succedanei, potevi entrare e uscire. Chi parlava di espulsioni veniva additato come un'anticaglia, un pazzo furioso che non capiva i nuovi tempi. In effetti il Pci antico di espulsioni ne aveva fatte tante. L'ultima, clamorosa, quella che ha segnato anche l'attuale ge­nerazione al comando del Pd, colpì i redattori del "manifesto". Da Pintor, a Rossanda, a Natoli, a Lucio Magri, a Valentino Parlato. Quel Pci ebbe il pudore di graduare la pena e promulgò dapprima la radiazione, poi li cac­ciò. Inattività frazionista era il casus belli. Un partito diviso in ingraiani e amendoliani aveva fatto un'icona del simulacro dell'unità e quegli intellettuali antisovietici (ma filocinesi) non potevano essere sopportati. Un sofferente Natta decretò la cacciata. Giuseppe Chiarante, Lucio Lombardo Radice e il gio­vane Fabio Mussi furono gli unici ad opporsi. Nessuno dei coetanei di Mussi seguì l'e­sempio del giovane livornese. Né fra i tanti "destri" del Pci, oggi liberal, si levarono voci contrarie.
Anche quella fu una prima volta dopo tan­to tempo. Dopo, per capirci, Bordiga, caccia­to in quanto bordighiano, Tresso Leonetti e Tasca in quanto trockisti. Era toccata l'infamia anche a Ignazio Silone, che fu, dopo la morte, riabilitato come precursore. Ci fu l'episodio, che pas­sò alla storia con la nota definizione di Togliatti sui «pidocchi nella criniera del cavallo», che vide fuori gioco Aldo Cucchi e Valdo Magnani, quest'ultimo poi rientrato e di­ventato leader delle cooperative. Cucchi e Magnani segnarono un'epoca, il loro movimento, di tipo socialdemocratico, venne nominato «magnacucchi» e vi militarono personaggi come Lucio Libertini e Rino Formica. Venne buttato fuori dal partito di Napoli Eugenio Reale, ex ambasciato­re a Varsavia, per «deviazionismo borghese». L'espulsione su cui calò un lungo silenzio fu quella di Pier Paolo Pasolini, cacciato prima degli anni 50 dalla federazione comunista di Pordenone, per omosessualità. Il dissenso, anche nei comportamenti personali, veniva sanzionato sempre con l'al­lontanamento. Spesso l'allontanamento veniva sanzionato ex post dall'e­spulsione. Un militante che lasciava la tessera non andava via, punto e basta. Regolarmente, dopo l'uscita, veniva espulso. Il partito era così oc­chiuto che controllava la vita privata dei dirigenti. Un importante segretario di federazione pugliese del Pci venne trasferito perché aveva un'amante. Ma si cacciava anche l'erba cattiva. È il caso di Luigi Cavallo, giornalista assoldato dalla Cia che venne buttato fuori a Torino dove rimase e fondò un sindacato giallo. Due membri del gruppo dirigente del Pci, nei primi an­ni settanta, furono allontanati dopo una rapida seduta segreta del Comita­to centrale perché infiltrati dalla Cia. Si chiamavano Stendardi e Ottaviano. Persino Mani Pulite fece la sua vittima, quel Guido Caporali che, coinvolto nello scandalo delle "lenzuola d'oro", fu allontanato in fretta e furia. Espulsioni clamorose e espulsioni silenziose. Un rito sommario, il decreto e l'allontanamento dalla vita della famiglia comunista. Dopo l'espulsione, l'infamia. L'espulso era bandito, i compagni non lo salutavano più, i suoi amici erano emarginati, la colpa si estendeva alla famiglia e alla discen­denza. «Il partito si rafforza epurandosi» aveva proclamato quel grande leader con i baffi (baffoni, che avete capito?) e la minaccia pendeva sul capo di tutti ogni volta che qualcuno pronunciava la frase bandita: «non sono d'accordo». Poi venne il bel tempo. Il partito si vergognò di questa carneficina di dissidenti e circolò sangue nuovo. Il comunismo italiano, in­vecchiato e ingrigito, divenne liberale e tollerante. Il dopo Pci fu una sta­gione di libertà del dissenso assoluta. Ora col Pd si torna indietro. È come a Caporetto. Se il soldato o l'ufficiale fuggiva o criticava o andava per un'altra strada veniva fucilato. Fu la crudele linea di difesa di un generale incapace, Cadorna. Anche lui nel Pantheon dei fondatori del Pd? (il Riformista)

venerdì 7 novembre 2008

Informazione a senso unico. Andrea Camaiora

Riprendiamo dopo diversi mesi a seguire quanto avviene sugli organi di informazione. Due sono i filoni tematici sui quali vale la pena di riflettere: la bufera scatenatasi intorno alla riforma della scuola e l'agenda politica generale, con al centro la diatriba infinita per la presidenza della Commissione di Vigilanza Rai. Per quanto riguarda la scuola meritano di essere evidenziati la linea del gruppo Finegil-L'Espresso e del Sole 24 Ore e il ruolo fazioso e accanito svolto da AnnoZero. Il gruppo Finegil (ne fanno parte tra gli altri Il Tirreno, La Nuova Venezia, La Gazzetta di Mantova, ecc...) ogni giorno fa da cassa di risonanza di ogni manifestazione di protesta contro il governo e ciò è anche comprensibile nella grande provincia italiana, dove bastano poche decine di studenti rumorosi a fare notizia.

Ciò che lascia perplessi è che non sia stata pensata né ieri, né oggi, una campagna locale di contro informazione utile a non lasciare disorientato l'elettorato, in particolare quello giovanile, fornendo informazioni certe sulla riforma approvata dalla maggioranza. Non commentiamo neppure più la sacra Trimurti Corriere-Repubblica-Stampa che fa da guardiano alle macerie dell'Ulivo. Riusciamo invece ancora a stupirci del Sole 24 Ore. Perché, se è vero che ha per direttore Ferruccio De Bortoli, è altrettanto vero che è pur sempre il quotidiano degli industriali (o solo quello di una parte di Confindustria?). L'ineffabile Folli scrive, a proposito delle parole del premier sulla necessità di garantire il diritto allo studio, ‹‹se il Presidente del Consiglio scende in campo in prima persona, si entra nell'area del rischio. Non tutte le questioni possono essere trattate alla stregua della spazzatura di Napoli... la scuola ha bisogno di altro››. Il giorno seguente il Sole non cambia linea. Ecco il catenaccio del titolo interno: ‹‹Berlusconi ci ripensa››, affiancato da un ‹‹Veltroni: Cavaliere inaffidabile ma bene la smentita››.

La trasmissione di Michele Santoro, da parte sua, ha giocato sistematicamente a senso unico, screditando il governo e limitando il contraddittorio a livelli, questi sì, di regime. L'onorevole dimissionario Santoro è lo stesso che, in versione sdraiata, ha concesso la passerella a Veltroni alla vigilia della manifestazione del 25 ottobre in una puntata che ha fatto parlare Giorgio Lainati, deputato-mediano per le questioni Rai del PdL, di ‹‹monologo veltroniano››. Ha colpito particolarmente la messa in onda di bambini sandwich di sei anni che ripetono, a mo' di filastrocca, uno slogan in rima contro la Gelmini. Un episodio vergognoso sul quale la Rai dovrà necessariamente intervenire. L'azienda di viale Mazzini nel 1997 firmò infatti un «codice di autoregolamentazione dei rapporti tra minori e tv» con il quale si impegnava, tra le altre cose, ‹‹a non utilizzare i minori (da 0 a 14 anni) in grottesche imitazioni degli adulti››. Che cosa c'è di più diseducativo di mostrare un gruppetto di bambini addestrati a recitare a memoria una canzoncina contro un ministro? La stessa trasmissione, dando voce solo a studenti, genitori e docenti anti riforma, ha fornito il megafono per brillanti considerazioni come ‹‹per il governo meno scuola si fa e meglio è››, oppure ‹‹un solo maestro, visto che c'è una sola persona al governo che decide tutto››.

D'altra parte non è che da Santoro ci sia da aspettarsi granché. La sua carriera è costellata di episodi deprecabili. Ne raccontiamo uno - piuttosto conosciuto ma mai a sufficienza - per introdurre il tema della commissione di Vigilanza Rai che tanto fa digiunare il radicalveltroniano Marco Pannella. Dicono nel Pd che la storia politica di Leoluca Orlando, candidato unico dell'opposizione a presidente della commissione di vigilanza, basti a testimoniare la sua credibilità come figura di garanzia alla Vigilanza Rai. Bene, ecco il racconto che vi avevamo promesso: nel maggio del 1990 l'allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando, ospite di Santoro a Samarcanda, disse che la procura di Palermo teneva ‹‹dentro i cassetti›› le prove dei delitti Mattarella e La Torre. L'accusa era rivolta a Falcone, tanto che l'ideologo della Rete, Padre Pintacuda, dichiarò apertamente all' Unità ‹‹Si, io accuso Falcone››. Non pago di questa performance, il 23 febbraio Orlando denunciava - ancora ospite di Santoro in Rai - ‹‹il comportamento equivoco di qualche esponente dell'Arma dei Carabinieri›› di Terrasini. Si trattava del maresciallo Antonino Lombardo, che era alla vigilia del viaggio in Usa per prelevare il boss Badalamenti. Il sottufficiale, sulla cui lealtà il comandante dell'Arma tentò invano di testimoniare in diretta (telefonò ma Santoro non gli diede la parola), si tolse la vita di lì a dieci giorni, dopo che gli fecero trovare «incaprettato» un suo confidente.

E' dunque questo il cursus honorum che può vantare l'onorevole Orlando per aspirare alla presidenza della commissione di via del Seminario? È questo il signore che l'opposizione tiene ancora in pista dopo che la maggioranza ha ritirato per la Corte Costituzionale quel galantuomo di Gaetano Pecorella? E' proprio il caso che l'Udc persista nel sostenere Orlando? Non basta che la sua storia personale di dc che rinnega la Dc abbia avuto un seguito, proprio recentissimamente, alla notizia data in aula alla Camera dell'assoluzione dell'ex dc Calogero Mannino dall'accusa di concorso in associazione mafiosa, quando Orlando è stato tra i pochi a non applaudire? È questo il signore che li garantisce nel ruolo di presidente? Sono interrogativi che fanno riflettere e, in ultima analisi, amareggiano. Una cosa è certa. Anche qualora l'ex sindaco di Palermo non sia eletto alla presidenza della Commissione di Vigilanza, il solo permanere così a lungo della sua candidatura la dice lunga sullo scadimento di un certo modo di intendere la politica. (Ragionpolitica)

martedì 4 novembre 2008

Perché non fanno più ridere...Paolo Pillitteri

I medici chiamati intorno al capezzale della satira Televisiva hanno riscontrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, una gravissima indisposizione alla risata, quasi irreversibile, data la progressiva paralisi dei centri a ciò preposti. Il quadro clinico generale si connota di una depressione profonda, con rischi di suicidi di massa. I medici non hanno tuttavia raggiunto l’unanimità per l’eventuale cura da applicare. Il fatto è che la satira è entrata in coma perché i suoi artisti, tutti di sinistra, hanno perso la cosiddetta reason why di sè, la stessa ragion d’essere, di esserci: la sinistra. Questa è arrivata al capolinea dopo i crolli elettorali. Siccome non ha voluto analizzarne le ragioni e trarne le conseguenze, continuando come prima più di prima, con i medesimi leader di mille sconfitte, ne è derivato un effetto collaterale non indifferente: l’incapacità a proporre, a produrre idee, programmi, novità, insomma, riforme, modernizzazioni di sè. La satira ha immeditatamente riflesso, come uno specchio deformante, l’afasia e i balbettamenti del Pd, ne ha fiutato l’inconsistenza, anche di massa, rifugiandosi nelle acque torbide e limacciose, eppur gratificanti, della sua mosca cocchiera, Di Pietro, e del suo vero portavoce/portamanette Marco Travaglio. Grillo, invece, ha capito l’aria che tira e s’è defilato. E’ a questo punto che una come la Guzzanti ritornata ad “AnnoZero”, ma anche la Dandini o il Vergassola e, per certi aspetti Lillo e Greg e pure una Littizzetto, e persino Crozza col suo kilometrico show su La 7, si sono trovati zavorrati da un peso che li trascina giù, sotto, in basso, nelle correnti della Tv manichea, arrabbiata, con la puzza sotto il naso, con quell’aria di spocchia che aleggia sempre intorno ai migliori, a quelli che non sbagliano mai, a quelli che a Berlusconi non glie ne perdonano una.

Berlusconi, appunto. Che palle! come si dice a Canale 5 di Greggio, Iachetti e De Filippi. Esattamente come la sinistra è vissuta a lungo della rendita di un antiberlusconismo d’accatto in nome della sua superiorità etica, allo stesso modo la satira ha mutuato da quella errata accezione un modello che non funziona più perchè, salvo il dipietrismo, non ha più referenti, non fa più ridere, ecco. Del resto, i comici militanti dovrebbero sapere i rischi che corrono quando la squadra politica perde, soprattuto se loro stessi sono scesi in politica (Piazza Navona, ecc.) come sponsor. Il caso del Premio Nobel Dario Fo - che non fa ridere da anni perchè fa solo politica - simbolizza, col suo speech alla Statale, composto di parole d’ordine e frasi liturgiche d’antan, il malinconico deja vu di una posizione datata e fuori tempo massimo. La satira è anche e soprattutto una questione di linguaggio. La centralità del verbum, del messaggio. Si sentono parole come “ribellarsi alla nefanda Gelmini, la democrazia italiana è messa in pericolo dalla deriva autoritaria berlusconiana, siamo al regime di Putin se non a quello dei colonnelli in Argentina. Presto faremo la fine di Weimar che creò Hitler. Al governo siede un magnaccia impegnato a piazzare le veline nei ministeri. Milioni di studenti attendono un nostro gesto. La dittatura avanza”.

Questo è il linguaggio di Di Pietro, un mix di giustizialismo peronista e di parafascismo tribunizio, che ha contaminato lo stesso Veltroni e, a maggior ragione, la satira. La quale si illude di far cambiare idea riproponendo stantie macchiette, imbarazzanti cliche e polverosi stereotipi sulla democrazia in pericolo. E l’Unità a inseguire questo gioco al ribasso, dedicando titoli allarmati d’apertura al ritorno in Tv di Licio Gelli. Già. Ma gli ex brigatisti che ci vanno un giorno sì e l’altro pure? E che scrivono libri per film, per di più finanziati dallo stato o dalla Rai? Il punto è che questa rentrèe del Venerabile novantenne - come messaggio il medium ha già detto tutto- si è come capovolta. La satira, cioè, si è rovesciata contro gli autori delle frasi più ridicolmente demagogiche: “La scuola - ha tuonato Di Pietro - dopo la giustizia e l’informazione, è un altro tassello del progetto del venerbile della P2 Licio Gelli, che Berlusconi sta realizzando”. E tutti giù a ridere. Di lui. Era ora. (l'Opinione)

martedì 28 ottobre 2008

Bush colpisce duro la Siria perché l'Europa intenda. Carlo Panella

La spettacolare operazione di elicotteri e truppe speciali statunitensi che hanno colpito domenica un gruppo terrorista iracheno, comodamente installato in Siria, ha un senso che va ben oltre la normale attività di pacificazione dell'Iraq.
Sicuramente è stata motivata dalla volontà di colpire duro un gruppo che infastidiva molto la pacificazione irachena, ma ha avuto una predominate funzione di warning. L'azione infatti dimostra -come la Rice ha confermato la scorsa settimana a chiare lettere- che la Siria di Beshar al Assad continua a non pagare nessun prezzo a fronte delle ribadite aperture di credito da parte della Francia di Sarkozy (e purtroppo anche dall'Italia di Frattini). Con questa operazione, Damasco è stata colta ancora una volta con le mani nel sacco: nonostante le tante dichiarazioni verbali, Assad continua ad appoggiare le guerriglia quaidista in Iraq, esattamente come continua a armare Hezbollah (vedi l'ottima oinchiesta di Guido Olimpio sul Correre di domenica) ed Hamas (come peraltro dichiarano sfrontatamente i pasdaran iraniani).
La lunga fase ''obamiana'' di dialogo a tutti i costi con l'asse Siria-Iran, si è aperta con largo anticipo l'estate scorsa, con la sciagurata decisione di Sarkozy di ospitare come ospite d'onore al Assad alla sfilata del 14 luglio a Parigi (con scandalo non solo di Chirac, ma anche di molti generali francesi). E' poi continuata negli ultimi mesi, con continua aperture di credito da parte delle cancelleire europee, Farnasina inclusa.
Il problema, però, non sta al solito nel dialogo, ma nel fatto che a fronte delle continue legittimazioni europee, Beshar al Assad non ha poi pagato alcun prezzo, non ha modificato minimamente la sua politica di destabilizzazione dell'area e anzi si prepara con tutta evidenza ad una nuova micro invasione del Libano (avendo a pretesto gli scontri tra alauiti filosiriani e sunniti nella zona di Tiro).
Colpire il ''santuario'' terrorista dei quaidisti iracheni, ben protetto dentro i confini siriani è stato dunque il modo scelto dall'amministrazione Bush per chiarire agli europei che la loro politica è avventurista, che Assad continua ad essere un interlocutore inaffidabile.Nella speranza che l'Europa capisca.

Per Veltroni i sondaggi dicono il vero solo quando bocciano il Cav. L'uovo di giornata

Quando Berlusconi sale nei sondaggi e legittimamente se ne rallegra, Veltroni e la sinistra lo accusano di vivere rinchiuso nel suo mondo virtuale dove l'unico indicatore che conta è il segno più nella curva del gradimento. Gli dicono che è scollato dal paese reale e preda di una ossessione costante da sondaggio.

Stranamente la musica cambia se i sondaggi mostrano qualche flessione. Allora il rimprovero è opposto: l'accusa diventa quella di ignorare i segnali che provengono dal paese, di rimanere sordo verso lo scontento che si agita nelle masse popolari. Se i sondaggi calano, come in una certa misura accade in questi giorni di manifestazioni, proteste e crisi economica incalzante, allora è il momento per Berlusconi di assecondare le loro indicazioni, di inchinarsi al volere della doxa e rimettersi sulla careggiata che l'opposizione gli indica. "Berlusconi ha perso il 18 per cento in un mese e mezzo - ha detto Veltroni dopo la manifestazione del Circo Massimo - farebbe bene a dare ascolto alla società italiana".

Allora sappiatelo in anticipo: i sondaggi in crescita sono frutto del delirio autorefenziale del Cav.; quelli in calo sono la vera voce della società italiana. E' un po' lo stesso meccanismo per cui l'Italia è meglio di chi la governa solo se a governare è il centro-destra. (l'Occidentale)

lunedì 27 ottobre 2008

Seppellito il riformismo, sono tornati alla politica con la clava. Peppino Caldarola

Il Circo Massimo è una grande piazza per i numeri, dai concerti di Antonello Venditti, allo scudetto della Roma con spogliarello di Sabrina Ferilli, ai festeggiamenti per il mondiale dell’Italia. È una piccola piazza per la politica. Cominciò Sergio Cofferati, ha finito ieri Walter Veltroni. Due milioni e mezzo di persone sono una cifra da sogno. La realtà dice molto meno. La politica toglie ancora qualcosa. Il Pd ha mobilitato meno persone di quella Cgil che protestava contro l’abolizione dell’articolo 18, ma in tutte e due le occasioni il leader ha volato basso. Cofferati stupì tutti con un discorso grigio che deluse chi sperava di sentire battere il cuore della sinistra. Veltroni ha provocato una tachicardia che rischia di essere mortale per il cuore riformista del Partito democratico.
Il discorso del capo del Pd è stato un tuffo nel passato. C’era tutto l’ultimo Berlinguer, quello che, pentito dell’unità nazionale, chiamava a raccolta tutto il radicalismo comunista per nascondere una sconfitta che si avvicinava a grandi passi. La stessa operazione ha fatto ieri Veltroni. La chiave del suo ragionamento è stata fondata sulla estraneità della destra rispetto al Paese. La diversità comunista era un dato ideologico e morale. La diversità veltroniana diventa oggi un connotato antropologico. Siamo oltre la damnatio che i vecchi comunisti agitavano contro i nemici del popolo, e siamo al di sotto della vis polemica che caratterizza gli scontri politici negli Usa e nella Gran Bretagna. Veltroni ha scelto la strada impervia della genetica superiorità morale della sinistra sulla destra. Non siamo tornati indietro. Siamo tornati alle palafitte e alla politica con la clava. L’ultimo Veltroni seppellisce il Veltroni blairiano e dialogante dell’esordio.
Forse è quella piazza che porta male alla politica. Al Circo Massimo si concluse, nel momento del bagno di folla, la carriera politica di Cofferati e forse al Circo Massimo è morto ieri il Veltroni riformista. È nato il capo di un partito radicale di massa, che resterà a lungo all’opposizione. Veltroni ha detto in buon italiano quello che Di Pietro avrebbe detto violentando sintassi e grammatica. Ha parlato il linguaggio di Furio Colombo, di Flores D’Arcais, di Travaglio e di Santoro. Ottima audience, fallimento elettorale alle viste. Per i riformisti di sinistra inizia un viaggio catacombale. (il Giornale)

venerdì 24 ottobre 2008

Giovani reazionari. Davide Giacalone

La scuola non è un problema di ordine pubblico. Occupare gli edifici pubblici è sicuramente un reato, ma l’intervento della forza pubblica, per prevenirlo o rimuoverlo, deve essere sollecitato dai rettori e dai presidi, non dal governo e dal ministro degli interni. L’avviso ai naviganti, pertanto, era errato od ingannevole. Al governo devono stare bene attenti a non giocare di sola rimessa, neanche adagiandosi sul fatto che le proteste possano far apparire quale vasto e profondo intervento riformatore quelli che restano provvedimenti limitati e settoriali. Giusti, aggiungo, ma incapaci di aggredire il problema.
All’opposizione, del resto, non si creda di poter fare da sponda alla protesta studentesca, sol perché non si trovano a governare e, quindi, sperano di mettere quel vento nelle proprie vele. Quello che sta prendendo forma non è un movimento rivoluzionario (ove mai abbia senso parlare di rivoluzione), ma reazionario.
Molti di questi ragazzi non sono strumentalizzati, sono accecati. Li sento animarsi perché l’odiosa politica governativa minaccia l’esistenza della loro scuola e della loro università. Peccato che detta politica sia cosa da poco e che le loro scuole e le loro università è difficile possano fare più schifo di così. Escludo che ad uno studente possa venire in mente di occupare per difendere i maestri doppi (delle elementari), l’educazione civica che nessuno ha mai fatto o le scuole con meno di cinquanta alunni che non si trovano manco per niente in montagna, ma servono a curare interessi clientelari. Eppure questi ragazzi si ribellano, ma a cosa? Temo si stiano opponendo alla fine del mondo dei loro padri, in gran parte mantenuti dalla spesa e dal debito pubblico. Temo credano sia un loro diritto fare gli avvocati, o meglio ancora i magistrati, se hanno conseguito una laurea in giurisprudenza ma di diritto non sanno un bel niente. Temo credano sia normale essere analfabeti, perché quel che conta è diventare famosi ed entrare in Parlamento.
Invece no, non solo quel mondo sta finendo, ma è un gran bene che crepi. Solo che non cade sotto i colpi di un riformismo intelligente e responsabile, bensì sotto le mazzate della crisi finanziaria e dell’insostenibilità della spesa. Dopo di che, nella globalizzazione, servono ingegneri che facciano star su i ponti e che si spieghino in inglese, pertanto quelli che conoscono l’arte di fare un muro meno di un capomastro e si esprimono in italiota resteranno dove meritano: all’ultimo posto. Sgradevole? Sicuro. Ma altrettanto sicuro che opporsi a che le cose cambino, sperando così di conservare anche il companatico, è il tipicissimo abito mentale dei reazionari. Con o senza l’intervento della polizia.

lunedì 20 ottobre 2008

Tv, la soluzione non risolutiva. Davide Giacalone

Molti giudicheranno astruso, ed anche noioso, il tema, decidendo di non leggermi. Invece questo capitolo di surrealtà televisiva ha anche aspetti divertenti, comunque indicativi di come vanno le cose nella nostra Italia. Mi riferisco alla storia di Europa 7, l’emittente televisiva cui il governo del 1999, con decisione irrazionale, assegnò una concessione televisiva nazionale. L’irrazionalità non si riferisce alla natura dell’emittente o dell’editore, naturalmente, ma al fatto che non aveva le frequenze per trasmettere ed il governo non era in grado di fornirle. Tutte quelle concessioni, nessuna esclusa, mancano del requisito di regolarità, perché prive di frequenze, ma chi le aveva poté continuare a trasmettere, mentre a chi ne difettava non restava che incorniciare il pezzo di carta.
Europa 7, giustamente, non si è rassegnata e s’è sentita dar ragione in più di un giudizio. Ora pende il Consiglio di Stato (prossimo dicembre) ed il governo è nei guai. Dice di non potere assegnare frequenze pianificate, ma omette di aggiungere il perché: non sono mai state pianificate. O, meglio, lo furono, ma poi decisero di buttare tutto a mare e continuare a campare nel caos. Confusione che si trova anche in molti commenti, che ritengono Europa 7 antagonista di Rete 4, quando, invece, vince le cause contro lo Stato, che è il vero inadempiente. Ecco il grottesco: tutti i canali che vediamo sullo schermo emettono in modo legittimo, ma la cosa è incompatibile con il legittimo diritto di chi ne è rimasto fuori. Roba da manicomio.
Sperano di avere trovato un rimedio: approfittare della ricanalizzazione, richiesta dalla conferenza di Ginevra, per assegnare ad Europa 7 un canale vicino a quello di Rai 1, che si restringerà senza perdere nulla. Il guaio è che nello scombiccherato sistema italiano da quelle parti si trova la radiofonia digitale, Dab, che non ha spazio dove legittimamente gli spetta perché colà si trova, irregolarmente, Rai 2. Così si moltiplicheranno i torti e l’edifico sarà sempre più pericolante.
Da anni il legislatore, d’ambo le parti politiche, spera di risolvere la faccenda dicendo che si passerà tutti al digitale, solo che non azzecca neanche una delle date entro le quali ciò dovrebbe avvenire. Con tanti saluti al diritto, alla libertà d’impresa ed al pluralismo.

domenica 12 ottobre 2008

Furbetti laureati in finanza o speculatori. Giorgio Arfaras

La crisi in corso è quasi sempre descritta con uno schema che asserisce che i tassi di interesse troppo bassi hanno spinto i prezzi degli immobili troppo in alto, con gli immobili medesimi che finivano nella pancia delle obbligazioni che tutto il mondo lietamente comprava. Con il tutto che è precipitato, perché i prezzi degli immobili e delle obbligazioni incinte degli stessi erano assurdi. Le persone chic dicono che il mercato era “mispriced”, ossia che aveva dei prezzi non efficienti. Tutti, salvo alcuni liberisti, che, al contrario del sanguinario Stalin che purgava gli oppositori, desiderano solo le purghe dei prezzi, hanno invocato, tremuli, il ritorno dello Stato. E’ vero che è andata così, ma per quale ragione è andata così? Gli investitori raffinati non potevano prevedere che i prezzi che salivano troppo, poi sarebbero scesi? E se potevano prevederlo, perché non si sono mossi in anticipo? Ci deve essere qualcosa in più per arrivare alla spiegazione. Se si riceve un bonus enorme per vendere le obbligazioni con dentro i mutui ipotecari, e se tutti le vogliono, i venditori sono incentivati, anche se sanno che i prezzi saranno assurdi e che precipiteranno. Intanto guadagnano molto. Quando le obbligazioni che hanno venduto saranno precipitate di prezzo, avranno comunque incassato. Questo dal punto di vista dell’offerta, ma quale è quello della domanda?

Chi voleva le obbligazioni incinte dei mutui pensava che intanto guadagnava perché queste obbligazioni rendevano più dei titoli di Stato, e quindi che la redditività dei suoi investimenti aumentava e che poi si sarebbe visto. Questo comportamento, allo stesso tempo avido e razionale, possiamo etichettarlo come quello dei “furbetti del quartierino”. Tutti si appellavano alle valutazioni delle società di rating, che sostenevano che le obbligazioni erano di qualità, ed ai modelli di controllo statistico del rischio, che dicevano che le cose erano sotto controllo. Era una “razionalizzazione”, un comportamento “non logico” che si nasconde dietro un comportamento “logico”. Non è infatti logico pensare che esista il “moto perpetuo” dei prezzi. Esiste solo il “moto temporaneo”. I giudizi di rating ed i modelli di controllo del rischio erano il “latinorum” per impressionare. Questo comportamento, avido, razionale, e coronato da giustificazioni obiettive, possiamo etichettarlo come quello dei “furbetti del quartierino” che hanno “una laurea in finanza”. In ogni caso, se si comprendono sia le motivazioni sia le giustificazioni di quelli che hanno investito con i prezzi in ascesa continua, non si capisce perché chi pensava che i prezzi erano assurdi non si sia messo a vendere fino a farli precipitare. Chi lo pensava ed agiva di conseguenza non deve avere, nel nostro ragionare, un’etica superiore, ma le stesse semplici motivazioni di guadagno degli altri. Non stiamo cercando degli “arcangeli e semidei”, ma solo dei normali operatori che spingano i prezzi assurdamente alti al ribasso.

Un mercato si definisce “completo” se sono possibili tutte le operazioni. Quelle a pronti, come comprare le uova, quelle a termine, come accendere un contratto future, quelle condizionate, come incassare l’assicurazione quando si manifesta l’evento definito dal contratto. Fra le operazioni attuabili, se si vuole un mercato “completo”, vi sono quelle che scommettono che le cose possano prendere una piega negativa. Se penso che la società X abbia un prezzo assurdo, vendo la sua azione “allo scoperto”, ossia mi faccio prestare il titolo di X e lo vendo. Quando è caduto il prezzo, lo ricompro e rendo il titolo. Se i prezzi sono assurdi ed allo stesso tempo sono possibili le vendite scoperte, i prezzi assurdi non dovrebbero manifestarsi. Se la crescita dei prezzi delle azioni tecnologiche fino al 2000 e degli immobili fino al 2006 era assurda, perché mai non sono entrati in pista i venditori allo scoperto? Supponiamo che l’azione della società (o dell’immobile) X abbia un prezzo di 10 euro. Abbiamo chi pensa che sia una grande impresa e chi pensa che sia un bidone. Chi pensa che sia una grande impresa compra, ma la società fallisce, e quindi perde 10 euro. Se invece ha ragione e sale fino a 100 euro, guadagna ben 90 euro. Chi pensa che la società X sia un bidone vende allo scoperto. Se ha ragione e la società fallisce, guadagna 10 euro. Se invece si sbaglia, e la società sale fino a 100 euro, perde ben 90 euro. I risultati sono diseguali.

Chi compra e basta, chi è “lungo”, può perdere al massimo quel che investe, 10 euro, ma può guadagnare molto, 90 euro. Chi vende allo scoperto, chi è “corto”, può perdere molto più di quello che investe, 90 euro, ma può guadagnare, se ha ragione, 10 euro. Lo spettro dei risultati non è proprio un incentivo a vendere allo scoperto. Per questa ragione i venditori allo scoperto non sono importanti quando i mercati salgono, e quindi non possono diventarne “i pompieri”. Solo quando i mercati stanno precipitando la probabilità di guadagnare vendendo allo scoperto aumenta molto. I venditori scoperti allora si fanno coraggio, diventano molti e quindi importanti. Peccato che a quel punto i politici e la stampa, che “lisciano il pelo” all“uomo della strada” solo quando i mercati sono in caduta, denuncino gli operatori scoperti come i “becchini” del pubblico risparmio. In conclusione, i mercati non sono completi, perché, salvo quando precipitano, le vendite scoperte sono troppo rischiose. I mercati non hanno quindi un meccanismo tutto interno che impedisca la crescita irragionevole dei prezzi. Il risultato sono “i furbetti del quartierino con laurea” nella fase ascendente, gli “speculatori” da additare al pubblico disprezzo nella fase discendente, e l’intervento pubblico, naturalmente per aiutare i “nostri concittadini meno fortunati”, alla fine. (l'Opinione)

giovedì 9 ottobre 2008

Gheddafi viola gli accordi, ma noi preferiamo far festa. Dimitri Buffa

“Di fatto gli accordi del 30 agosto la Libia non li rispetta”. Lo dice il ministro dell’Interno Roberto Maroni a Radio Padania stigmatizzando il fatto che il regime di Gheddafi a tutt’oggi ancora non abbia ottemperato agli impegni presi, aggiungendo che “il 99,9% degli sbarchi dei clandestini a Lampedusa è colpa della Libia”. Insomma da lì provengono. A fronte di tutto questo il Corriere della Sera ha raccontato ieri di un’indegna passerella di politici e di politicanti vari davanti alla solita tenda del finto beduino Gheddafi nel deserto. Tutti a festeggiare gli accordi (per ora non mantenuti) in questione, che risalgono allo scorso 30 agosto. D’altronde “la dignità chi non ce l’ha, non può darsela da solo”. E la parafrasi del grande Alessandro Manzoni, potrebbe essere il commento migliore per l’incredibile figura che politici come Giulio Andreotti, Lamberto Dini, Nicola Latorre, Beppe Pisanu e altri ancora hanno fatto qualche giorno fa andando a farsi “premiare” da Gheddafi. L’uomo che, dopo avere preso il potere nel 1969 in Libia con un colpo di Stato, dopo avere cacciato da quella terra gli italiani “discendenti dei colonialisti” nonché gli “odiati ebrei” e dopo essere stato per decenni lo sponsor del terrorismo internazionale, adesso si accredita come leader arabo moderato riuscendo a ottenere che l’Italia gli paghi per l’ennesima volta i danni di un colonialismo ormai remoto.

Miracoli della politica estera dell’Eni cui l’attuale ministro in carica Franco Frattini si accoda come uno scolaretto. Miracoli anche del realismo berlusconiano che qualche volta partorisce effetti collaterali veramente pericolosi. Ma miracolo soprattutto dell’opportunismo italiota e di chi, nella burocrazia della Farnesina, altamente “se ne frega”, ad esempio, del contenzioso tuttora in atto con oltre 110 ditte italiane che semplicemente non riescono a farsi pagare il dovuto dalle contro parti libiche e dallo stesso governo della Jamahiryia. Il presidente del Consorzio che li rappresenta, l’Airil dell’eroico Leone Massa, è diventato un personaggio di quei film western tipo “un uomo solo contro tutti”. In quei “tutti” ci sono anche i politici che vanno nel deserto a farsi premiare con la fascia verde da Gheddafi e che se ne ritornano in Italia con gli aerei privati, o con i charter messi a disposizione non si sa bene da chi, carichi di pesce fresco e datteri del Sahara. Che poi in arabo significa semplicemente “deserto”. E in questo deserto della moralità e della politica che il nostro paese rischia di diventare una repubblica delle banane. Anzi del dattero libico. (l'Opinione)

martedì 7 ottobre 2008

Tutti i perché di un lunedì nero. Fabrizio Goria

Quello che le borse mondiali hanno vissuto è stato l’ennesimo lunedì nero dall’inizio della crisi subprime. La picchiata è stata la risposta al piano Paulson, da 850 miliardi di dollari, per il salvataggio del sistema finanziario statunitense, ma non solo. Sono pesanti le ombre che sono calate sull’Europa: Fortis, Hypo Real Estate ed UniCredit fanno tremare gli operatori. Proprio quest’ultima ha contribuito Piazza Affari ad essere una delle maglie nere di ieri, con un secco –8,24% per il Mibtel e l’S&P/MIB.

Con 444 miliardi di euro per le sole borse europee e oltre 1750 per quelle mondiali, la giornata di ieri è stata la peggiore dal 19 ottobre 1987. L’indice newyorkese Dow Jones è sceso sotto l’importante soglia psicologica dei 10mila punti e sarebbe sceso ancora di più, se non fosse scattato un meccanismo di autoprotezione degli stessi traders, che hanno fatto risalire l’indice in chiusura di contrattazioni. Anche il Nikkei ha fatto pensare al peggio, scendendo per pochi istanti sotto i 10mila punti, salvo chiudere appena sopra, dopo una difficile seduta. Il passaggio che ha portato a questo crollo vertiginoso è da ricercare in una serie di fatti, fortemente interdipendenti fra loro, che hanno investito i mercati.

In primis i mercati hanno risentito dell’effetto del piano stilato dal segretario del Tesoro Usa, Henry Paulson, per mettere al riparo i mercati dai “toxic assets” dei subprimes. Inizialmente di 700 miliardi di dollari, poi bocciato alla Camera, passato al Senato ed incorporato di ulteriori 150 miliardi, infine ratificato dalla stessa Camera e varato, il piano prevede la formazione di un enorme fondo per il recupero di tutte le posizioni a rischio di banche ed assicurazioni a stelle e strisce, per evitar nuovi casi Lehman Brothers o AIG. Peccato che queste misure non siano state recepite come utili dal mercato, che le ha bocciate in pieno: troppa l’incertezza che si nasconde dietro ai bilanci di molte società. Infatti il problema principale è proprio la mancanza di fiducia degli addetti ai lavori. Sia Calisto Tanzi, ai tempi di Parmalat, sia Richard Fuld, CEO di Lehman, pochi giorni prima del fallimento avevano sempre garantito personalmente che la situazione economica delle società che guidavano era florida: uno è finito in galera, l’altro è chissà dove con oltre 160 miliardi di liquidazione.

Seconda concausa del crollo di ieri la decisione del governo tedesco di garantire tutti i depositi bancari dei cittadini e di effettuare un maestoso bailout per Hypo Real Estate, il colosso bavarese dei mutui immobiliari. L’iniezione di 35 miliardi di euro da parte di Bundesbank per il salvataggio e l’esposizione dei risparmi teutonici hanno fatto vacillare molte certezze sul treno dell’economia europea. Hypo ha iscritto a bilancio svalutazioni sui derivati per oltre 8,5 miliardi, complice la condizione in cui versa la controllata irlandese Depfa Bank, per il quale il governo di Dublino ha deciso però di non muoversi minimamente. L’azione elemosinatrice di Hypo ha dato i suoi frutti per le casse della stessa, ma ha gettato nel panico gli operatori. Come per gli Usa, anche in Europa si comincia a valutar con sospetto ogni dichiarazione dei banchieri. Una paura che sembrava relegata all’America, con l’Oceano Atlantico a dividere i due mercati, è giunta nel Vecchio Continente, forse prima delle previsioni. La Bce per ora sembra una sfinge ed anche questo non fa che aumentare le tensioni isteriche nei mercati.

Infine, arriviamo all’Italia, che ha vissuto la giornata finanziaria più nera degli ultimi 15 anni almeno. Cosa accade da noi? Da una parte, siamo stati notevolmente protetti dalla crisi per il carattere fortemente territoriale dei nostri istituti di credito, i quali preferiscono investire ed allocare i depositi presso lo stesso territorio in cui si trovano. Questa caratteristica, simile a quella tedesca delle Landesbank (nonostante due fallimenti), ha permesso al nostro sistema bancario di reggere (finora…) l’urto secco della crisi dei mutui. Purtroppo, non tutti sono piccoli, ma a volte sono davvero enormi, come UniCredit. Dopo l’aumento di capitale per 6,6 miliardi (3,6 come monte dividendi, pagato in azioni e 3 miliardi tramite azioni a 3,083 euro) Alessandro Profumo, amministratore delegato del gruppo, ha rilasciato alcune dichiarazioni che hanno il sapore di una liberazione. «So che lo scenario esterno era già negativo prima. Abbiamo sottovalutato le condizioni del mercato e fatto degli errori di valutazione, questo ci è assolutamente chiaro» ha affermato Profumo, valutando l’esposizione della banca alle Asset backed securities (Abs) in 500 milioni di euro, ai quali si debbono aggiungere ulteriori 200 milioni per le obbligazioni bancarie scoperte. Ma Profumo è un fiume in piena, dato che il suo discorso passa poi alle acquisizioni di Hvb e Capitalia, per le quali si «poteva aspettare di più», invece che comprarle ai massimi di mercato, incuranti del mercato che sta mutando.

Molti sono già certi che ci sia un nuovo 1929, che sia la fine di un sistema, che si deve tornare all’economia reale dimenticandosi della finanza e delle sue raffinatezze mefistofeliche. La sensazione è che lo stesso mercato sta piano piano espellendo tutto il marcio che finora aveva assorbito. Solo così potremo vedere in che modo le distorsioni dell’uomo hanno utilizzato un meccanismo sofisticato per lucrar sempre di più. Ma prendersela con lo stesso sistema equivale e non riconoscere i colpevoli ed a non risolvere il problema. In condizioni ottimali, non è la vettura a causare l’incidente automobilistico, bensì il guidatore. (l'Occidentale)

lunedì 6 ottobre 2008

I Maroni di Zapatero

I ministri spagnoli vogliono risolvere l’emergenza Rom con le idee del Cav.

Dei circa 120 mila Rom che, secondo le stime della Croce Rossa erano immigrati in Italia dopo l’adesione della Romania all’Unione europea e al trattato di libera circolazione di Schengen, pare ne siano rimasti nel nostro paese solo la metà. Le cifre saranno note solo a metà ottobre, quando sarà completato il censimento dei campi Rom, ma già ora il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha anticipato all’Espresso la sensazione che “molti se ne sono andati spontaneamente nella permissiva Spagna di Zapatero”. Siccome, ovviamente, la pressione esercitata dai controlli demografici e di polizia ha inciso soprattutto sull’area dell’immigrazione rom dedita a varie forme di criminalità, questo significa che la Spagna rischia di importare un consistente problema di ordine pubblico. Il ministro del Lavoro spagnolo Celestino Corbacho, considera le osservazioni di Maroni “un cattivo contributo all’Europa che si vuole costruire, una Unione forte”. In realtà non è il governo italiano che ha esportato rom, o gitanos come si chiamano in Spagna, nella vicina penisola. Non è nemmeno la “permissività” citata da Maroni, che in realtà è solo di facciata. Lo stesso Corbacho ha chiesto che, in presenza di un tasso di disoccupazione vicino al 12 per cento, la Spagna blocchi anche l’immigrazione regolare, mentre i migranti subsahariani che cercavano di entrare nelle enclaves spagnole in Africa di Ceuta e Melilla erano già stati accolti a fucilate.

La Spagna che ha espulso dieci volte più clandestini irregolari dell’Italia, in realtà non è affatto tollerante. Quello che attira i gitanos è la retorica antiberlusconiana dei membri del governo e della grande stampa spagnola, che hanno instentemente battuto sul tasto del presunto razzismo italiano e della persecuzione dei Rom per ragioni politiche. Ieri, el Pais titolava sull’“ondata xenofoba” che renderebbe “irrespirabile” il clima italiano. La pressione esercitata dal controllo di legalità in Italia unita all’effetto della propaganda su una presunta maggiore umanità del sistema spagnolo verso immigrati e gitanos ha determinato la migrazione della parte criminale dei rom verso la Spagna. Contenti loro. (il Foglio)

sabato 4 ottobre 2008

La fuga dal rischio. Giuseppe Bertola

La crisi in atto ha un’origine chiara, e due volti. L’origine è nell’andamento dei prezzi delle case che negli ultimi anni erano saliti molto, specialmente negli Stati Uniti dove erano spinti dai bassi tassi d’interesse e da mutui generosi, e nel 2007 hanno cominciato a scendere. Questo volto della crisi non è tanto brutto. Qualcuno ha pagato o ha promesso di pagare le case a prezzi che si sono rivelati eccessivi, ma qualcun altro a quei prezzi è riuscito a venderle. Un trasferimento di ricchezza non è un disastro, come un uragano che distrugge una grande città. Le case ci sono ancora: anzi, le nuove costruzioni e ristrutturazioni degli anni scorsi fanno sì che le case siano un po’ troppe e troppo belle. Anche nel 2001 tra le macerie del crollo dei titoli tecnologici c’era chi aveva perso molto e chi aveva guadagnato molto, e c’erano molti gigabyte di banda larga in eccesso in cavi a fibra ottica che sono poi tornati utili negli anni successivi.

Le telefonate transatlantiche adesso possono costare pochissimo anche perché una parte del loro costo è pagata da chi ha comprato azioni tecnologiche nel 2000 ed è rimasto preso nel loro crollo. Il volto brutto della crisi è quello finanziario. I mercati finanziari stabiliscono il prezzo di pezzi di carta in relazione tra loro ed è normale che i prezzi di quei pezzi di carta oscillino, perché è normale che si commettano errori, come quello di chiedere e concedere un mutuo che poi non si riesce a pagare. Anche se può fare impressione che si parli di 700 miliardi di dollari come possibile ammontare complessivo di quegli errori, quella cifra corrisponde a un calo di due o tre punti percentuali del mercato azionario americano, cosa che si è spesso verificata nell’arco di pochi giorni senza sconvolgere nessuno. Ma i mercati finanziari hanno avuto un ruolo nell’origine di questa crisi e la loro incapacità di gestirla la sta amplificando. Il rischio di mancato pagamento dei mutui non è stato valutato correttamente al momento di erogarli, e operazioni di cartolarizzazione hanno trasferito ad ancor più ignari investitori le conseguenze del fatto che, mentre di solito solo una piccola parte dei mutui va in sofferenza, questa volta i prezzi delle case erano tutti troppo alti, proprio perché i mutui erano così facili da ottenere, e sono scesi tutti insieme. L’aver subito perdite ingenti su investimenti che sembravano promettenti fa perdere fiducia nella propria capacità di valutare i rischi, e fa sì che adesso nel mercato finanziario manchi la voglia di rischiare. Per questo chi è disposto a rischiare adesso è ben pagato nel mercato azionario, dove si comprano a prezzi bassi imprese solide, e nel mercato monetario interbancario, dove chi presta soldi può spuntare 2 o 3 punti percentuali oltre il rendimento dei titoli di Stato. Ed è proprio perché si rifugge da ogni rischio che le banche sono in difficoltà. Se cercassero adesso di cedere i loro crediti su un mercato finanziario senza compratori, non ricaverebbero quel che occorre a ripagare le loro obbligazioni, dalle quali quindi rifuggono gli investitori. Questa spirale negativa non solo fa inceppare la finanza, impedendo al risparmio di incanalarsi verso gli investimenti più produttivi e inevitabilmente un po’ più rischiosi, ma incupisce il volto reale della crisi perché l’incertezza riduce spese e investimenti, e redditi e occupazione. Per ovviare a tutto ciò i governi possono far fronte alla mancanza di fiducia e voglia di rischiare se sfruttano bene i vantaggi che hanno rispetto ai privati cittadini. Possono imporre regole che, almeno d’ora in poi, facciano chiarezza sulla rischiosità degli strumenti finanziari. Certo non è facile far rispettare le regole se l’industria finanziaria ha interesse a mantenere opaca la struttura dei suoi bilanci, anche trasferendo oltre confine le parti più oscure dei suoi affari. Ma un secondo importante vantaggio dei governi è che, osservando il problema da una prospettiva di sistema, possono cercare di evitare che i comportamenti dei singoli si avvitino tra loro in modo da portare il sistema a una situazione senza sbocchi, in cui nessuno può vendere perché nessuno vuole comprare. Per fornire un po’ di quella voglia di rischiare che adesso manca, per evitare che il valore delle attività finanziarie rischiose crolli come succede se tutti nel settore privato vogliono disfarsene, i governi possono offrire una rete di sicurezza o un’ancora di salvezza. In America si punta ad assorbire nel settore pubblico una parte delle attività bancarie rischiose, a un prezzo che dovrebbe essere inferiore a quello a cui è ora possibile collocarne piccole quantità sul mercato ma superiore a quello irrisorio che si realizzerebbe se tutti nel settore privato provassero a disfarsene. Con questo sistema, il governo si comporta da acquirente di ultima istanza, ma non diventa azionista delle banche. In Europa, invece, i governi hanno nazionalizzato in tutto o in parte le banche in difficoltà. Lo strumento è diverso, ma lo spirito è simile: nell’uno e nell’altro caso, se il prezzo di acquisto di mutui o azioni è quello giusto, l’intervento statale può scongiurare la spirale negativa e far sì che la collettività non solo riacquisti un sistema finanziario funzionante ma riesca anche (incassando quel che sarà ripagato dei mutui, o rivendendo al mercato le quote azionarie) a guadagnare qualcosa dal punto di vista finanziario. È bene che i governi seguano queste strade, perché il mercato non sembra in grado di tirarsi fuori da solo dalle secche in cui si è incagliato. Ma bisogna aver ben presenti gli ostacoli che su quella strada si possono frapporre al pieno successo di governi che non sono né onnipotenti, né onniscienti. Se alla fin fine i mutui rilevati dal settore pubblico si rivelassero di ben poco valore, l’intervento può trasformarsi in un regalo a chi ha sbagliato. E può rivelarsi una pessima idea nazionalizzare le banche se chi le gestisce privilegiasse poi gli interessi dei loro impiegati e debitori, e non quelli dello Stato azionista e della società nel suo complesso. In questo momento difficile, l’ostacolo più importante a un efficace intervento pubblico è la mancanza di coesione. Negli Stati Uniti manca la coesione tra politici sotto elezione. E i governi europei, anche loro alle prese con questioni di minor respiro, si ritrovano a gestire un problema di dimensioni più che continentali con risorse e strumenti nazionali. Se al potere politico manca la comunità di intenti, rischia di mancare proprio quella chiarezza di visione di insieme che consentirebbe agli interventi pubblici di risolvere la crisi dei mercati. (la Stampa)

martedì 30 settembre 2008

Veltroni mobilita, mobilita, mobilita...e non sa perché. Carlo Panella

Le ultime apparizioni televisive e giornalistiche di Walter Veltroni lasciano allibiti. Non una proposta, non una sfida, solo insulti al governo e demenziali analisi sull’Italia ormai simile alla Russia di Putin (Leoluca Orlando rilancia e paragona con l’Argentina). La ragione di questa follia verbali sta è presto detta: tutto l’agire del leader del Pd è ormai finalizzato alla “storica” manifestazione del 25 ottobre e dunque, per mobilitare la piazza si ha da urlare, agitare, creare spauracchi, mostri, demoni, fare gli agit prop, insomma.
Nulla da stupirsi: è la vecchia logica del Pci, di Togliatti, Longo, Berlinguer, tanto bravi a demonizzare la Dc –e soprattutto il riformismo del Psi- quanto totalmente incapaci di proposte riformiste di governo.
Stupisce, però, che questa volta questo inutile delirio agitatorio avvenga in un clima di sbranamento totale –sembra quasi definitivo- dentro il Pd. Il mite Tonini è giunto ad affermare che il decisionismo putiniano di Berlusconi è nato con l’indecisionismo cronico e patologico del governo dell’Unione di Romano Prodi. Analisi acuta, ma che ha ovviamente creato un vero e proprio casino dentro il partito più incasinato d’Europa.
Il fatto è che il governo Berlusconi ha messo in un angolo tutte le componenti del Pd: ha eliminato l’Ici, ha ripulito la monnezza di Napoli e ora si prepara a fare quella gara tra Lufthansa e Air France per un’Alitalia da loro considerata ghiotto boccone –ma per una quota di minoranza- che Prodi per ragioni poco chiare –e forse poco pulite- non volle fare, quando avrebbe dovuto farla per cedere il controllo completo della società.
Non solo, il prudente e informato pessimismo di Tremonti, ha sinora tenuto al riparo l’Italia dai contraccolpi della crisi internazionale e questo mentre Velroni e Bersani avevano invece irresponsabilmente impostato la loro campagna elettorale promettendo un impossibile “miracolo italiano”.
Contro questi dati di fatto, Veltroni avrebbe davanti a sé due strade: sfidare Berlusconi sul terreno del governo, imponendogli un’agenda di riforme e di gestione della crisi economica che premino gli strati popolari e ammodernino effettivamente il paese; oppure, fare propaganda demonizzante.Il dramma è che Veltroni sceglie la seconda strada, perché non ha la minima idea di come percorrere la prima.

lunedì 22 settembre 2008

Fini assomiglia a De Gaulle, parola di neoconservatore. Giorgio Stracquadanio

«Fini non è assolutamente un fascista, né un neofascista. È un gaullista». A dirlo, qualche anno fa, è stato Michael Arthur Ledeen, uno degli animatori dell’American Enterprise Institute, il laboratorio dei neoconservatori washingtoniani e, soprattutto, autore, nel 1975, quando aveva trentacinque anni ed era professore di Storia, di quella Intervista sul fascismo a Renzo De Felice che aprì la prima vera riflessione profonda e non ideologica sul ventennio mussoliniano.
Non so se quel giudizio lusinghiero su Gianfranco Fini possa essere ripetuto oggi. Sicuramente non si può estendere a quanti si sono esibiti nelle polemiche sul fascismo, continuando a baloccarsi con il “grado di assolutezza del male” o con l’onore da rendere ai militari della divisione Nembo della Repubblica Sociale Italiana.
A più di trent’anni dallo splendido libro di Ledeen pubblicato da Laterza, le polemiche su fascismo e antifascismo tra destra e sinistra e nella stessa destra politica italiana dimostrano che, purtroppo, la lezione di De Felice non è penetrata nelle coscienze dei protagonisti della politica.

Tre acquisizioni

Qual è la sostanza del giudizio storico che diede Renzo De Felice del fascismo. Secondo Leeden sono tre le acquisizioni fondamentali del grande storico:
la prima è la distinzione tra Fascismo regime e Fascismo movimento: il primo con funzioni conservatrici, il secondo con forti aspirazioni di modernizzazione;
la seconda è la condivisione della radice ideologica tra fascismo e comunismo, l’esser entrambi figli di ideologie nemiche della libertà e del liberalismo. «Renzo – spiegò Leeden in un’intervista succesiva – ebbe il coraggio di dire, per la prima volta, che comunismo e fascismo in un certo senso avevano lo stesso codice genetico: erano figli della rivoluzione francese. E questa, che oggi tutti riconoscono una banale verità, era un’affermazione tremenda per la sinistra».

Un’affermazione che oggi diventa tremenda per una parte della destra che, evidentemente, fatica ad approdare alla cultura del liberalismo e al ripudio della sua matrice giacobina;
la terza acquisizione della lezione di De Felice è infine il consenso che il fascismo ebbe nel ventennio: «vorrei non fosse vero – è sempre Leeden a parlare – ma è la cosa più terribile del fascismo: è stato molto popolare». Un fatto che l’Italia intera dovrebbe riconoscere, comprendendo come la democrazia e la libertà non sono beni acquisiti per sempre. E che talvolta, per essere riconquistati, richiedono l’uso della forza, la guerra. Come quella degli anglo-americani a cui dobbiamo la nostra libertà. Senza di loro gli antifascisti non sarebbero andati da nessuna parte.
Purtroppo nulla di tutto questo si è sentito in questi giorni. Sicuramente non da Alemanno né da La Russa. Ma nemmeno da Fini. Tutti sembrano essersi formati alla storiografia retorica dell’antifascismo dell’Anpi. Sembra paradossale, ma è la destra italiana ad aver sepolto lo storico che ha posto le basi culturali per la sua legittimazione democratica. (il Domenicale)

domenica 21 settembre 2008

La vendetta della realtà. Massimo De Manzoni

Dopo essersi inventati tutto l’inventabile, pur di accusare il governo di razzismo hanno arruolato anche la camorra. Il difficile confine, davanti al quale persino l’Unità, Liberazione e il manifesto si sono (a malincuore e con qualche inciampo) arrestati, l’ha attraversato con assoluta disinvoltura la Repubblica, che su questo terreno ormai ha scavalcato a sinistra lo stesso Caruso. Così, la mattanza di Castelvolturno, diventa prima una «strage degli innocenti condannati dal colore della loro pelle» per poi assurgere rapidamente a simbolo, «una vendetta della realtà contro le semplificazioni del format di governo». «La realtà», leggiamo, «ci racconta che il nero non è il nemico: è la vittima innocente, l’assassino non è l’immigrato ma l’italiano». Di qui la logica conseguenza: «Vengono alla luce l’inconsistenza, i trucchi, il furbo conformismo di una politica che sa soltanto eccitare e inseguire le paure». Fino al lapidario: «E allora perché meravigliarsi se i Casalesi possono pensare di fare una strage di neri solo per ammazzarne uno?».Ricapitoliamo: una banda di feroci camorristi, già autori di decine e decine di omicidi, spara davanti a una sartoria e uccide sei immigrati africani. Forse è un regolamento di conti nel mondo dello spaccio di droga, forse la «punizione» per il mancato pagamento del pizzo. Sul movente le indagini sono in corso, ma i cantori delle procure quando gli fa comodo delle procure se ne fanno un baffo e quindi: «vittime innocenti». E, intendiamoci, è possibilissimo che sia così. Ma allora «vittima innocente» anche l’italiano, proprietario di una sala giochi, che era stato ucciso venti minuti prima dalla stessa banda, no? Non si sa, per Repubblica non esiste: avrebbe un po’ guastato la tesi.Già, perché non bisogna dimenticare che la strage è stata compiuta per il colore della pelle ed è maturata nel clima xenofobo creato dal governo: insomma, quei feroci criminali, lo capite, mai e poi mai si sarebbero azzardati ad aprire il fuoco senza il consenso di Maroni. Lo avevano già fatto in passato? Non contro gli immigrati. Certo, avevano sparato tra la folla, uccidendo «per sbaglio» anche persone che non erano direttamente loro bersagli, ma erano italiani. Vero, avevano colpito anche donne incinte: per esempio due giovani napoletane. Sì, tra gli ammazzati di mafia e camorra ci sono stati anche ragazzini che passavano di lì per caso, ma si chiamavano Stella (12 anni), Annalisa (14), Gaetano (16). Sicuro, tra le loro vittime senz’altro innocenti si annoverano anche bambini di due o tre anni. Ma non importa, questa volta è diverso. Il premier è Berlusconi, quindi vai col razzismo, vai con la «vendetta della realtà contro il governo». E pazienza se nell’azione resta ucciso anche il buon senso.La realtà, quella vera, racconta altre cose. Per esempio, per bocca del vescovo di Capua, Bruno Schettino, parla di «settemila africani su trentamila abitanti in 27 chilometri di terra di nessuno». La realtà suggerisce che sul litorale domizio c’è il problema dei nigeriani: «Gente intelligente ma dedita alla droga e alla prostituzione».
La realtà ti sbatte in faccia che «spesso ci sono frizioni con la popolazione, il processo di integrazione è molto lento e difficile, coniugare solidarietà e accoglienza è complicato». La realtà urla di «un’emergenza sociale e morale ed ecologica», della necessità di «ricreare un tessuto umano ridotto a brandelli».
Ecco, anziché narrare la favoletta dei clan sensibili agli umori della maggioranza, forse è il caso di ripartire da qui: da un degrado che in queste zone pare inarrestabile qualunque sia il governo in carica e sul quale la criminalità organizzata gioca come sempre le sue carte di morte senza guardare in faccia nessuno. Il vero problema è questo. Ed è più che probabile che neppure Berlusconi sarà in grado di risolverlo. Può essere un limite, persino una colpa. Ma non è razzismo. (il Giornale)

venerdì 19 settembre 2008

Il capitalismo e la politica. Piero Ostellino

Dalla comparsa del Manifesto del Partito comunista di Karl Marx (1848) a oggi, il capitalismo ha attraversato una decina di crisi, le più gravi delle quali sono state quella del 1929 e la crisi odierna. A ogni crisi, i nemici del capitalismo ne hanno annunciato la fine e ne hanno attribuito la causa al mercato.

Che, poi, vuol dire all'avidità dei capitalisti. Si sono invocati maggiori interventi dello Stato nell'economia, regole più stringenti al mercato. Che, poi, vuol dire più potere a chi governa, sia sul processo di accumulazione sia nell'allocazione delle risorse. Con misure congiunturali — tanto, secondo il detto di John Maynard Keynes, «alla lunga saremo tutti morti »— le falle, nel '29, erano state temporaneamente chiuse. Ma poiché, nel frattempo, non tutti erano morti, a quelli che sono rimasti vivi — che, poi, voleva dire l'economia soffocata dagli eccessi di spesa pubblica (deficit spending) e da troppe regole— hanno di nuovo dovuto provvedere il capitalismo e il libero mercato, con le deregolamentazioni e le privatizzazioni di Ronald Reagan, di Margaret Thatcher e persino di Tony Blair.

Il capitalismo non è crollato, mentre sono crollati, o si sono a esso convertiti, i sistemi negatori del mercato e a direzione politicamente centralizzata dell'economia. Poiché una buona regola — anche quando si parla di economia e persino di politica — dovrebbe essere quella di attenersi rigorosamente ai fatti, questo è il primo fatto di cui sarebbe bene tenere conto anche oggi. Il capitalismo e il mercato rimangono il «modo» migliore per produrre (e consumare) ricchezza. Tutti gli altri sono falliti. Ma è anche un fatto che la crisi del 1929 e quella attuale del sistema finanziario americano siano dovute al mercato e all' avidità dei capitalisti? La vulgata corrente, sui media come fra la classe politica, è che lo siano. Invece, come ha scritto Angelo Panebianco ieri sul Corriere, se ci si attiene ancora una volta ai fatti non è così.

La crisi del 1929 e quella attuale si assomigliano almeno in una cosa: che a produrre entrambe è stata la Federal Reserve, cioè la massima autorità finanziaria pubblica. Nel '29, con una politica monetaria troppo restrittiva; oggi, con una politica monetaria opposta, troppo espansiva. In entrambi i casi, in base a un pregiudizio culturale e a un interesse politico. Il pregiudizio: che la politica monetaria sia una variabile politica, mentre a determinare il tasso di interesse (il costo del denaro) non dovrebbe essere, a proprio piacimento, un'autorità pubblica «esterna» (la Federal Reserve), ma dovrebbero essere le preferenze «interne» dei cittadini, che è, poi, la spontanea dinamica della domanda e dell'offerta di denaro (il mercato).

L'interesse: tassi di interesse troppo alti o troppo bassi, e tenuti tali troppo a lungo, sono rispettivamente lo strumento attraverso il quale una moneta nazionale (il dollaro ieri) cerca di imporre la propria forza nel mondo e uno Stato indebitato (gli Usa oggi) riduce il servizio del debito. Che, infine, un eccesso di liquidità abbia finito (anche) col dare alla testa agli speculatori è un altro fatto incontrovertibile, come lo sarebbe rinchiudere in una cantina ben fornita di vino un bevitore di professione. (Corriere della Sera)

mercoledì 17 settembre 2008

Quelli che con uno di destra non si mangia. Michele Brambilla

Il giornalista del manifesto Alberto Piccinini sabato scorso ha passato una bella serata. Potrebbe non fregarcene di meno se non fosse stato egli stesso a rendere pubblico l’evento con un articolo uscito ieri sul suo giornale; e se il motivo del suo godimento non fosse sintomatico dell’aria che tira.
Piccinini era andato in trattoria con la sua compagna Valentina, e a un certo punto sono entrati - anche loro per mangiare: mica per altro - alcuni ragazzi di Azione Giovani, appena usciti dalla lì vicina festa di Atreju. «Valentina si è alzata», racconta Piccinini, «e ha fatto la mossa di andarsene. Sapete come sono le ragazze: una volta non gli va bene il tavolo, l’altra volta hanno il mal di pancia. Stavolta no: mi sono alzato anch’io, ho pagato il mezzo conto e via. Fuori abbiamo preso un acquazzone da fine del mondo. Però che bella serata».
Ma sì: meglio tornare a casa bagnati fradici e a digiuno piuttosto che cenare non dico alla stessa tavola, ma nello stesso ristorante, non dico con dei fascisti, ma con dei ragazzi, insomma, di destra.
L’episodio ne ricorda un altro, celeberrimo e sicuramente ancora impresso nella memoria di molti nostri lettori. È lo stesso Piccinini a fare il collegamento: «Ai primi di giugno del 1971, Giorgio Almirante si fermò all’autogrill Cantagallo, sull’A1. Al grido di “né un panino né una goccia di benzina”, camerieri e benzinai lo fecero ripartire a bocca asciutta e serbatoio vuoto». Fece tanto clamore, quel fatto, da essere immortalato da due canzoni: una, di Piero Nissim, attaccava così: «L’altro giorno sull’autostrada/ sul versante che porta a Bologna/ viaggiava un topo di fogna/ affamato voleva mangiar»; l’altra, del Canzoniere delle Lame, rivelava il seguito: «... fu così che schiumante di rabbia/ se ne andò la squadraccia missina».
Sarà un caso, ma l’orgogliosa replica dell’eroico incrociar le braccia del Cantagallo segue di pochi giorni un’altra replica: quella di Adriano Sofri sul delitto Calabresi. Così come Sofri ripete oggi quel che aveva scritto nel 1972, e cioè che uccidere Calabresi fu un atto di giustizia, il manifesto scrive che i topi di fogna non andavano serviti allora all’autogrill e non vanno tollerati oggi sotto lo stesso tetto. Anche se non portano più la camicia nera, anche se il loro leader ha appena fatto l’elogio dell’antifascismo.
È strano: Sofri e il manifesto avevano dismesso da anni certi toni, ma ora c’è una parte della sinistra che sembra subire una sorta di regressione. Una sinistra come ad esempio quella di Caruso che parla di gambizzazioni, una sinistra che rispolvera il tristo linguaggio degli anni di piombo: la giustizia proletaria, il terrorismo di Stato, i fascisti che non devono parlare e neppure mangiare.Però a volte nei giornali la grafica gioca brutti scherzi. La rubrica di Piccinini stava proprio sopra un articolo contro il razzismo. Essere antirazzisti vuol dire saper accettare il diverso, ed è difficile immaginare che chi accetta il diverso per colore della pelle non accetti il diverso per idee. Ma oggi «non si vive più come persone, in questo Paese, non più come individui, ma come appartenenti a sottocategorie (...) si sta facendo strada una catastrofica tendenza alla semplificazione. Non solo il concetto democratico di cittadino, ma anche quello cristiano di persona vanno sbiadendo, perché richiedono la faticosa elaborazione di un giudizio caso per caso, di un rapporto umano che sappia distinguere e sappia scegliere. Sappia guardare negli occhi, un paio di occhi per volta e solo quelli. Il giudizio all’ingrosso è più comodo e rapido, leva di mezzo l’incombenza di rapportarsi al prossimo, cancella scrupoli etici e fatiche umane». Sapete chi ha scritto queste parole? Michele Serra, ieri su Repubblica. Le ha scritte contro i razzisti. Ma sono buone, buonissime, anche per chi preferisce un acquazzone a un piatto di fettuccine con vista sul nemico politico. (il Giornale)

venerdì 12 settembre 2008

Una notizia per Giannini. Orso Di Pietra

Nessuno ama dare una cattiva notizia ad un altro. Se uno non è un sadico e non ha motivi particolari per colpire o ferire, evita sempre di comunicare a chiunque notizie che possono causare dolore. Ci sono dei casi, però, in cui si deve avere il coraggio di fare piangere. E questo è uno di questi. Per cui è con profondo dispiacere che comunichiamo a Massimo Giannini, brillante editorialista e vicedirettore de “La Repubblica”, che se si mettono insieme il “il pezzo di destra berlusconiana”, il “pezzo di destra post-fascista” ed “il pezzo di destra leghista” non si riproduce una situazione balcanica ma si forma la maggioranza degli elettori italiani. E’ la democrazia, caro Giannini, e non ci puoi fare niente. Tranne che fartene una ragione! (l'Opinione)

lunedì 8 settembre 2008

Con Fannie e Freddie l'Alitalia non c'entra. Alberto Bisin

Ieri è stato annunciato il piano delle autorità finanziarie statunitensi per portare sotto il controllo del governo federale due importanti società finanziarie, conosciute come Fannie Mae e Freddie Mac. Il piano configura un intervento senza precedenti per dimensione e rilevanza. Queste società infatti posseggono o garantiscono quasi metà del mercato dei mutui negli Stati Uniti, un enorme mercato di circa 12 bilioni di dollari. Si stima che l’operazione costerà ai contribuenti alcune decine di miliardi di dollari.

Anticipando l’intervendo del governo degli Stati Uniti, nei giorni scorsi molti commentatori in Italia non hanno lesinato commenti del tipo: mentre gli Stati Uniti, patria del liberismo, salvano dal fallimento Fannie Mae e Freddie Mac, in Italia ci si lamenta per il salvataggio di Alitalia. Oppure: il libero mercato è insostenibile, prova ne sia che anche gli Stati Uniti... e via di seguito.

Il parallelo tra il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac e quello di Alitalia, per quanto forse superficialmente naturale, è a ben vedere inconsistente.
Più in generale, la crisi di Fannie Mae e Freddie Mac non adduce certo munizioni ai paladini dell’intervento dello Stato nell’economia. Proviamo a fare chiarezza.

Prima di tutto, la crisi del mercato finanziario ed immobiliare negli Stati Uniti ha reso purtroppo inevitabile il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac. Il loro fallimento avrebbe con ogni probabilità significato una riduzione dell’offerta di credito e un crollo dei valori immobiliari senza precedenti, con un associato grave inasprimento della recessione. In contrasto, Alitalia è fallita senza gravi ripercussioni macroeconomiche. Il governo italiano in effetti non ha operato alcun «salvataggio», ma ha piuttosto garantito ad una nuova compagnia privata condizioni di monopolio sulle rotte interne che sarebbero altrimenti state coperte da altre compagnie in condizioni di concorrenza.

Ma come si è arrivati alla crisi di Fannie Mae e Freddie Mac e di Alitalia? Qui sta l’unico possibile parallelo. Le perdite di Fannie Mae e Freddie Mac, come quelle di Alitalia, sono dovute alla protezione dalla concorrenza di mercato loro concessa dai rispettivi governi. La vicenda di Alitalia è tristemente nota: gestione il più possibile protetta dalla concorrenza, condizioni contrattuali sopra mercato per i dipendenti, e management dipendente dalla politica hanno significato continue ed ingenti perdite regolarmente socializzate.

Vale la pena di ripercorrere invece in qualche dettaglio quelle delle due società americane. Fannie Mae e Freddie Mac operavano fino a ieri come società private, quotate in Borsa. La loro origine è però pubblica. Fannie Mae è stata creata nel 1938 dal governo per rendere liquido il mercato secondario dei mutui. Ha operato in condizioni di monopolio fino alla fine degli Anni 60, quando è stata privatizzata e Freddie Mac è stata fondata dal Congresso per garantire una qualche forma di concorrenza nel mercato. Nonostante entrambe le società fossero private dagli Anni 70 in poi, la loro origine pubblica ha fatto sì che esse ricevessero notevoli vantaggi ed esenzioni fiscali, stimate in circa 6,5 miliardi di dollari l’anno. Ma soprattutto, l’origine pubblica delle due società ha fatto sì che esse godessero di una generalmente riconosciuta «implicita garanzia pubblica». Questa implicita garanzia si è manifestata nella loro capacità di indebitarsi ad interessi passivi vicini a quelli pagati dal governo federale americano sul debito pubblico; interessi quindi notevolmente inferiori a quelli pagati da qualunque altra società privata. Un esempio da manuale di quello che in Italia si chiama privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite.

Naturalmente, ogni società che operi in regime di socializzazione delle perdite tende a prendere rischi eccessivi e decisioni inefficienti purché avvantaggino l’azionariato di controllo e il management. Fannie Mae e Freddie Mac non sono eccezioni a questo proposito. Fino alla crisi dei mercati finanziari e immobiliari del 2007 (che non hanno saputo prevedere e che hanno sottovalutato), Fannie Mae e Freddie Mac si sono ingrandite indebitandosi enormemente, hanno arricchito un management fallimentare, hanno generosamente remunerato i propri azionisti, e hanno ripetutamente commesso falso in bilancio. Freddie Mac ha addirittura violato la legge sui finanziamento elettorale nel tentativo di guadagnarsi l’appoggio del Congresso.

Le vicende di Fannie Mae e Freddie Mac e di Alitalia dimostrano solo che società cui sia garantita la socializzazione delle perdite finiscono inevitabilmente per fare grosse perdite. Questo è vero negli Stati Uniti come in Italia. (la Stampa)