mercoledì 31 marzo 2010

Complimenti Italia è un voto perfetto. Marcello Veneziani

Il voto perfetto. È stato un voto perfetto. Non lo dico per partito preso o perché mi piace l’esito di queste elezioni. Ma è stato un voto equilibrato, maturo, saggio perfino nell’astensionismo. Italiani, complimenti. Parlo del corpo elettorale come un corpo unico, come se l’Italia fosse una persona. Si possono non condividere e biasimare le singole intenzioni di voto, ma la somma è davvero meritevole di congratulazioni. Per cominciare, l’Italia ha deciso di non scegliere il buio ma di tenersi stretto il governo in carica. Non sarà entusiasta della situazione generale, ma con saggio realismo sa che sarebbe stato un salto nel buio bocciare Berlusconi. Non c’era una prospettiva decente, credibile e praticabile all’orizzonte, né fuori né dentro il centrodestra. E l’Italia non ha seguito il sarkoma o mal francese. Subito dopo va detto che l’Italia ha smesso saggiamente di dar peso politico alla grancassa di magistrati, giornali e tribuni della plebe, che speravano con la grottesca vicenda di Trani e poi con tutto il resto scoppiato a pochi giorni dalle urne, di ribaltare il risultato elettorale. Non ci sono riusciti, per fortuna.
Il cittadino si è tenuto stretto la sovranità popolare, non ha abdicato in favore delle oligarchie, anche sotto specie di avvoltoi. E il grado di diffidenza verso le inchieste della magistratura, o comunque la dissociazione tra la ragion politica e le responsabilità penali di taluni, ha salvato pure Vendola che aveva guidato una giunta finita nei guai con la giustizia per abusi e mazzette, donne e sanità. Se ne facciano una ragione i magistrati d’assalto: non si butta giù il governo Berlusconi con le intercettazioni, le inchieste a orologeria, i clamori pre-elettorali. Il popolo italiano è scafato. Va poi notato che la saggezza dell’elettorato ha corretto la follia burocratica, giudiziaria e politica che non era riuscita a trovare un decente rimedio per riammettere la lista del Pdl a Roma e provincia. Era un voto dimezzato, listato a lutto, per incapacità diffusa. Un’esclusione che ha pesato, eccome, ma l’elettorato laziale alla fine ha superato anche questa ingiusta esclusione, ascoltando tra l’altro anche l’anima cattolica e non dimenticando la brutta esperienza di Marrazzo. Complimenti, dove non sono riusciti tribunali e istituzioni, partiti, parlamento e governo, c’è riuscito l’elettore.
Poi, per continuare, l’Italia alle urne ha lanciato un bel segnale con l’astensionismo. Si può deprecare la scelta del singolo elettore di non andare a votare, ma il segnale complessivo è stato giusto, misurato, intelligente. È un segnale trasversale, che ha colpito a destra e a sinistra, passando per il centro e per la periferia. Indica la necessità di chiudere lo spettacolo indecente delle risse, l’inconcludenza dell’agire politico, e in positivo la necessità di avviare una stagione di concrete riforme per riconquistare la fiducia degli italiani. Non fate finta di niente.
Un bell’avvertimento l’elettorato lo ha lanciato anche a Di Pietro, dimostrando che se vuole buttarla sul voto giacobino, allora più brioso e divertente è il voto a Beppe Grillo piuttosto che ai sanculotti di Di Pietro. E la stessa rustica saggezza ha dimostrato l’Italia del nord premiando la Lega, sulle ali di Zaia e Cota, che come scrivevamo prima delle elezioni, si è dimostrata negli ultimi tempi il partito più saggio e più equilibrato, più vicino al territorio e più coerente.
Saggia è stata pure la risposta a quanti volevano bocciare il centrodestra a L’Aquila per dimostrare che la gestione del dopoterremoto è stato un disastro. E invece, il centrosinistra ha dovuto lasciare la provincia al centrodestra. Ma, a costo di scandalizzarvi, dirò che è utile pure la lezione pugliese. Il centrodestra, in particolare il leader regionale Fitto, sbagliò a non cercare un accordo con la Poli Bortone e l’Udc, incaponendosi a candidare il suo fidato Rocco Palese, bravo amministratore ma non adatto a fronteggiare Nichi; e per la seconda volta si è fatto fregare da Vendola. Che questa volta aveva già fregato la faina D’Alema e il Pd, e ha vinto nonostante la sinistra, la destra, il centro e i magistrati. Non sono un vendoliano, per carità, disto anni luce dal suo «omunismo» (comunismo omosessuale, o per dirla con i beceri, del suo frociocomunismo); ma per dire un’eresia a mezza voce, non mi dispiace che gli elettori abbiano sconfitto gli apparati, e che il popolo abbia premiato un venditore di sogni politici, in forma di poesia civile. Un leader populista che ha smerciato, in piena epoca cinica, la politica come parola, come avventura, come ideale. Una piccola utopia, che smentisce la natura levantina della mia regione.
Poca attenzione l’elettorato poi ha rivolto alla Partitocrazia in servizio e ai suoi leader e partiti rimasti in seconda fila. Dico Casini, Fini, la sinistra intera. Il voto è andato a prescindere da loro, il consenso e dissenso è stato espresso su considerazioni di natura locale, personale circa i candidati, o su responsabili valutazioni generali e nazionali, ma non sulla base delle indicazioni dei Partitocrati, che non hanno contato granché. Per questo dico che il voto è stato perfetto, equilibrato, in linea con la storia del nostro Paese. Per una volta, diciamo: Brava Italia, ti sei comportata meglio della tua classe dirigente. (il Giornale)

martedì 30 marzo 2010

Berlusconi ha vinto. Punto e a capo. Milton

Aveva chiesto una scelta di campo e gli elettori lo hanno ancora strascelto. Giudici fans del Che lo hanno costretto a scendere in campo e in due settimane, come al solito, si è portato a casa il successo.

Ha vinto Berlusconi. Punto e a capo.

Ci sono tuttavia molti sassolini che bisogna togliersi e che ci permettono di fare alcune dediche all’indomani di questo successo elettorale.

Dedicato innanzitutto al Cav., che in ordine di tempo negli ultimi dodici mesi è stato: pedofilo reticente, puttaniere domestico, mafioso e ideatore di stragi e, in un crescendo oxfordiano, piduista fascista e sodomizzatore degli italiani (senza contare Bertolaso, la nuova Tangentopoli e altre simili panzane). La forza della leadership, o come direbbero alcuni che avrebbero l’ambizione sostituirlo, la forza del cesarismo. Evviva il cesarismo!

Dedicato al PdL, quel PdL che era a Piazza San Giovanni, a quel popolo e al suo capo popolo e soprattutto a chi non c’era, ammantato di pavidità istituzionale (a proposito Presidente Fini, la Sua carica istituzionale, Le ha consentito di andare a votare?). Dedicato a quel partito senza democrazia interna, senza dialogo, becero e pieno di veline, che porta in carrozza la Polverini alla vittoria senza avere il proprio simbolo nella Capitale del Paese, che stravince (anche senza contare l’UDC in Calabria e Campania) e che, non fa mai male ricordarlo, è ancora il primo partito nel Nord in Piemonte, Lombardia, Friuli e sta davanti alla Lega anche in Liguria. Un partito insomma, che dice, senza equivoci a chi non si sente a suo agio al suo interno, di accomodarsi alla porta.

Dedicato agli ossessionati di Repubblica e alle loro 10 noiosissime domande. Dedicato al popolo viola che ora può tornare a elucubrare di democrazia sulla rete che ha sostituito, nel loro immaginario, Capalbio. Dedicato anche al popolo delle carriole (la Provincia dell’Aquila è tornata al PdL) ricettacolo telecomandato di sezioni partito.

Dedicato a Bersani e alla Bindi, rispettivamente segretario e Presidente della Lega degli Appennini, ex-Partito Democratico, ormai capaci di vincere solo dove il sistema di potere è così marcio e costituito, ancora sospesi tra il giustizialismo Di Pietro e la vecchia cara nostalgia comunista.

Dedicato all’ANM, ormai la vera opposizione del Paese, che da anni vuole imporre le regole oltre che applicarle, che detta i tempi della politica intervenendo puntualmente in ogni campagna elettorale… che tornassero a fare i giudici passando meno tempo in TV e sui giornali.

Dedicato ai sacerdoti e alle prèfiche della costituzione, agli ossessionati dal conflitto d’interessi, al soviet della Federazione Nazionale della Stampa, ai fotografi di villa Certosa e al povero appuntato costretto a passare la giornata ad intercettare il Presidente del Consiglio.

Berlusconi ha vinto. Punto e a capo. (l'Occidentale)

domenica 28 marzo 2010

Rispetto. Jena

Disperato appello di Bersani al rispetto della par condicio: "Qualcuno mi spedisca un proiettile...". (la Stampa)

Il silenzio dei paladini della libertà. Luigi Mascheroni

I princìpi morali e il grado di democrazia di un popolo sono direttamente proporzionali al numero dei suoi giornali e alla qualità dei suoi giornalisti. Più giornali e migliori giornalisti ci sono, maggiore è il numero di notizie, idee e opinioni che circolano. E più alto è il livello civile e politico del Paese. Ecco perché ogni volta che a un giornalista è impedito di fare il proprio mestiere, a perderci non è quel giornalista ma il Paese. Che non ha bisogno di eroi, grazie a Dio, ma solo di buoni professionisti. E meglio ancora se scomodi.
L’Ordine dei giornalisti venerdì ha sospeso lo scomodo direttore di questo giornale per le vicende legate al caso Boffo. Proibendogli per sei mesi di lavorare. Cioè di portare notizie, idee, opinioni. Più che una punizione, un’intimidazione a non fare l’unica cosa per cui i giornalisti esistono e per cui sono pagati: scrivere. E intanto, tutt’intorno, si ode solo silenzio. Il silenzio dei paladini della libertà di informazione.
Ehi, paladini della libertà: dove siete? C’è un giornalista che è stato messo a tacere, e voi che fate? Non dite niente? Non scendete in piazza? La democrazia e la libertà di espressione sono di nuovo in pericolo. Dove siete finiti, voi sempre pronti a manifestare a difesa della stampa minacciata dal Potere?
Lo scorso ottobre siete accorsi in trecentomila per protestare contro chi «voleva zittire Repubblica e l’Unità». Allora sbrigatevi, preparate bandiere e striscioni, c’è una nuova emergenza. Il bavaglio lo vogliono mettere a un altro giornale. Ci sarete ancora tutti, vero? Ci sarai, vero, Roberto Saviano, ci sarete emeriti presidenti della Corte costituzionale, ci sarete Sabrina Ferilli e Neri Marcorè? Ma certo che ci saranno. Come ci sarà Reporter sans Frontieres, quelli che ripetono che l’Italia è a rischio regime, come ci sarà la Cgil, la Fim-Cisl, le Acli, Libera, Legambiente e l’Arci che verrà con le bandiere listate a lutto «Per la morte della libertà d’informazione», come ha fatto l’ultima volta, quando si minacciava Repubblica. E poi ci saranno le Associazioni partigiane, la Società Pannunzio per la libera informazione, e la satira militante come Vauro, Sabina Guzzanti, Paola Cortellesi e le redazioni di Report, Ballarò, Annozero, L’infedele e persino quelli di Caterpillar che organizzeranno un grande concerto per concludere in bellezza una giornata dedicata alla libertà. La loro.
E la nostra, chi la difende? Perché le vestali della democrazia non s’indignano questa volta? Perché non urlano il loro sdegno? Dicono che il Giornale ha commesso un errore: nel caso Boffo ha attribuito valore ufficiale a un’informativa che ufficiale non era (anche se - attenzione - la notizia era e resta vera). E quindi gli errori è giusto che si paghino, dicono. Invece Repubblica... Invece Repubblica commette gli stessi errori, o peggio. Ma tutto tace. La settimana scorsa il Presidente della Repubblica Napolitano ha dovuto smentire per ben due volte con una nota ufficiale il quotidiano di Ezio Mauro che prima gli attribuiva la volontà di non firmare il decreto sull’articolo 18, e poi sosteneva che avesse interrotto una cena durante il suo viaggio di Stato in Siria per via dei commenti di Berlusconi sull’inchiesta di Trani. E questi sono errori, non opinioni. Del resto risale a qualche giorno fa il mea culpa di Repubblica per un’inchiesta - con «notizie errate e non riscontrate» come ha dovuto ammettere il quotidiano - in cui si dava per vero che l’oligarca Roman Abramovich avesse perso a poker uno yacht, compromettendo anche il rapporto con la sua compagna. «Siamo spiacenti per qualsiasi disagio o imbarazzo causato da tale articolo», si sono scusati i colleghi di Repubblica. I quali, invece, sono stati zitti, tre settimane fa, quando Luca Ricolfi sulla Stampa ha sonoramente smentito Eugenio Scalfari il quale, in un editoriale, l’aveva accusato di essersi venduto al potere berlusconiano perché critico con il sistema delle intercettazioni. Ricolfi ha fatto notare che il fondatore di Repubblica gli ha attribuito - mettendole fra virgolette! - frasi che lui non ha mai scritto, chiedendosi: «Scalfari inventa di sana pianta. Sono senza parole. È questa la professione giornalistica?».
È questa la professione giornalistica, ci chiediamo, quando Giuseppe D’Avanzo ripete per ben due volte, nonostante una pubblica smentita, false e infamanti informazioni su Luisa Todini, alla guida di una società che opera nel settore delle grandi infrastrutture. Ed è questa la professione giornalistica, ci chiediamo, quando vediamo Repubblica anticipare, sfruttando una fuga di notizie, la sentenza di sospensione comminata a Feltri aggiungendoci, in sovrapprezzo, anche una sanzione inesistente: quella per gli articoli «a luci rosse» su Gianfranco Fini. Domande inutili. È il «metodo Scalfari». Ossia: la libertà di far finta di niente, o di inventarsi le cose.Per fortuna ci sono i paladini della libertà d’informazione. (il Giornale)

martedì 23 marzo 2010

La sorte della Bonino. Orso Di Pietra

Emma Bonino si è irritata per la tendenza degli alleati a Roma e nel Lazio ad ignorare la presenza nella competizione elettorale della lista Bonino-Pannella e ad evidenziare solo il ruolo del Partito Democratico e delle altre forze della sinistra. Ma Emma può irritarsi quanto vuole. Perchè difficilmente riuscirà a cambiare la situazione in cui si è cacciata accettando di diventare la candidata alla successione di Piero Marrazzo dell’intera galassia del centro sinistra laziale. Quella secondo cui se vincerà la battaglia della Pisana il merito sarà del Pd che l’ha sostenuta e se perderà la colpa sarà sua e di Marco Pannella. D’altro canto chi per questi mari va, questi pesci prende! (l'Opinione)

lunedì 22 marzo 2010

Piazza politica. Davide Giacalone

Il vuoto programmatico messo in scena dagli avversari, il loro aver convocato una manifestazione nazionale ed averla sprecata solo per attaccare il capo della maggioranza, è un vantaggio politico che Silvio Berlusconi non s’è lasciato sfuggire. Anzi, come un pugile determinato a vincere, che non concepisce altro modo per uscire dal ring, ha continuato a picchiare sulle debolezze altrui, senza dare respiro.

Riempire una piazza è, prima di tutto, un problema e uno sforzo organizzativo, quindi anche economico. Farle raggiungere i livelli di partecipazione, anche corale, di ieri è, però, del tutto impossibile se non coinvolgendo persone e passioni vere. Una volta riempita e animata la piazza si deve essere capaci di darle un significato politico. La protesta per la protesta, o la testimonianza per la testimonianza, lasciano il tempo che trovano, sfumano sulla via del ritorno. Berlusconi, invece, ha fatto politica, ha parlato del dopo, ha spiegato a cosa, dal suo punto di vista, la manifestazione è servita.

Il punto programmatico più rilevante è senza dubbio la riproposizione della Repubblica presidenziale. Avevamo visto giusto, segnalando che quello è lo snodo, per la seconda e ultima parte della legislatura. Berlusconi, per la verità, ha parlato di elezione diretta del capo del governo o del capo dello Stato, dimostrando che la tela istituzionale è ancora da tessere, ma l’orientamento politico è chiaro: si deve porre fine alla lunga stagione dei governi deboli. Un tema che non può essere liquidato come propagandistico, perché presente nella riflessione di scuole diverse, purché abitate da gente assennata.

Porre quel tema, inoltre, immiserisce la scena pubblica come fin qui s’è dipanata, tutta alle prese con origliamenti e spiate, per giunta privi di serietà investigativa. Se quella roba fosse rimasta sullo sfondo, se la sinistra fosse stata capace di parlare al futuro e non dipendere dai mattinali di polizia, il rumore di fondo delle inchieste avrebbe indebolito il centro destra, senza offrire l’opportunità per mostrarne la strumentalità. Cosa che, invece, è puntualmente avvenuta. Se a sinistra, anziché consolarsi leggendo solo se stessi, per confermarsi d’essere i migliori e i più bravi, avessero la buona creanza di leggere anche chi pensa e scrive liberamente, avrebbero potuto trarre vantaggio dalle mille volte in cui l’abbiamo ripetuto: il giustizialismo, che è teoria e pratica di marca fascistoide, condanna la sinistra a tenere a galla il peggio di sé. Inutile dire che Berlusconi ne ha approfittato.

Sempre giovandosi di un’opposizione che sembra cresciuta apposta per fare il controcanto alle canzoncine propagandistiche del Pdl (da una parte “meno male che Silvio c’è”, dall’altra eguale apertura mentale, ma condita da maledizione), ha potuto impostare l’ultima settimana di campagna elettorale indicando quattro temi programmatici. Poi, presentando i candidati uno ad uno, ne ha più volte approfittato per fissare obiettivi specifici, relativi a quella precisa regione. Il tutto pompando il valore della squadra, proponendo un’immagine coesa, rafforzata dal quadretto improvvisato con Umberto Bossi.

Insomma, non solo Berlusconi non intende mollare niente, ma, ancora una volta, lascia indietro l’insieme del mondo politico rivolgendosi direttamente agli elettori, e a questi non racconta le storie dei partiti, non li intrattiene parlando di regolamenti dei conti, non chiama a sé candidati non graditi stringendo i denti e ghignando sotto ai baffi, come capita a sinistra, ma si butta avanti e propone la squadra come un valore in sé. Rischia in prima persona e lo fa senza risparmiarsi.

Nei prossimi giorni, statene certi, si parlerà delle cose che ha detto, consegnandogli l’ennesima vittoria mediatica. Poi si voterà. Fra un mese sarà tutto alle spalle. Come fa la sinistra a non capire che, a questo gioco, perde anche quando vince? Come si fa a non vedere che le regole della democrazia impongono di fare i conti con un fenomeno politico solido, radicato, reale, che muove cittadini veri, imponendo di abbandonare ogni tentazione giudiziaria? Le debolezze del sistema, come quelle del governo, restano tutte, e sono quelle di cui scriviamo ogni giorno. Ma Silvio c’è, come dice la canzone e come è del tutto evidente, il resto del mondo politico dovrebbe, ad un certo punto, interrompere la lunga e deprimente vacanza mentale.

venerdì 19 marzo 2010

Professionismo dalemiano. Orso Di Pietra

Massimo D’Alema si è augurato che le elezioni regionali italiane finiscano con una grande astensione, come quelle francesi. Perché in questo modo, ha rilevato l’esponente diessino, verrà premiata la sinistra e le regioni avranno delle buone amministrazioni. Come quelle di Loiero in Calabria, Bassolino in Campania. Marrazzo nel Lazio e Niki Vendola, affiancato dal vice Presidente Sandro Frisullo proprio ieri arrestato nel quadro delle indagini sullo scandalo della sanità, in Puglia. Faccia di bronzo o, come si dice a Roma con linguaggio colorito, una faccia come il culo? Niente di tutto questo. Solo grande professionismo politico ispirato alla regola aurea imparata alla scuola di partito secondo cui le bugie vanno ripetute più volte e senza battere ciglio. Perché qualche fesso che abbocca si trova sempre! (l'Opinione)

lunedì 15 marzo 2010

Prima la forma o la sostanza? Dipende cosa fa più male al Cav. Giancarlo Loquenzi

Per un paio di settimane il centro sinistra è divenuto maestro di regole. D’un tratto erano tutti fan del normativismo di Kelsen e non è passato giorno senza che qualche esponente d’opposizione filosofeggiasse sulla natura della democrazia, la forma che viene prima della sostanza, le regole che sono l’impalcatura del vivere civile, eccetera, eccetera…

Il centro destra si è difeso come ha potuto perché, seppure con una certa spocchia di troppo, le argomentazioni non erano certo peregrine. Così nella maggioranza si è tentato di dimostrare che le regole sono una cosa e i cavilli un’altra, che tra un timbro sbagliato (forma) e il diritto dei cittadini a esprimere il loro voto (sostanza), il buon senso faceva propendere per la sostanza. E la discussione è andata avanti per un po’ su questo tenore.

Tale è stato l’innamoramento dell’opposizione per le regole da averci addirittura messo in piedi una manifestazione: il “regole day” di sabato a Piazza del Popolo. Niente da dire: il combinato disposto della figuraccia nel presentare le liste e gli affannati e contraddittori tentativi di porvi rimedio (vedi l’inservibile e inservito decreto salva liste) hanno dato qualche buon punto polemico al centro sinistra e i sondaggi lo dimostrano.

Poi è partita l’inchiesta di Trani sulle “pressioni” contro Anno Zero. E sulle regole che il giorno prima venivano innalzate nel radioso empireo della democrazia è stato tirato lo sciacquone.

Improvvisamente formalismi, garanzie, norme e timbri sono divenuti nemici della verità. A occhio, e senza immergersi nei codici, l’inchiesta di Trani pone infatti un bel po’ di questioni: perché a Trani si indaga sull’American Express? Perché Innocenzi (Agcom) viene interrogato come testimone mentre era già indagato? Perché in un'inchiesta su tassi usurai incappa il presidente del Consiglio? Perché le intercettazioni non autorizzate a un parlamentare (Berlusconi) vengono trascritte e allegate ad un’inchiesta che non ha nulla a che fare con l’origine delle indagini? E’ accettabile la condotta di intercettare amici e referenti di un parlamentare per aggirare il divieto di tenere sotto controllo il suo telefono e nella speranza di trovare “qualcosa che scotta”? Quale è il rilevo penale delle intercettazioni? Perché le intercettazioni sfuggono da Trani e finiscono sui giornali?

A domande di questo genere esponenti, giornalisti e direttori di centro sinistra rispondono più o meno così: “Quello che le intercettazioni svelano (la sostanza) è così orribile e indecoroso (es. a Berlusconi non piace Santoro) che anche se ci fosse qualche violazione (la forma) sarebbe giustificata dalla gravità dei fatti”. Oppure: “Noi siamo giornalisti e pubblichiamo tutte le notizie. Il diritto dei lettori a sapere le brutture del regime (la sostanza) è più importante del modo in cui certe notizie ci arrivano (la forma)”.

Il “popolo” di sinistra, i “viola”, i “gialli” della Bonino, i dipietristi, erano ancora in piazza a gridare “Regole, regole!”, mentre queste già venivano travolte dall’inchiesta di Trani con grande soddisfazione e compiacimento di tutti.

D’altronde a sinistra i gioco è semplice: le regole valgono per tutelare i sinceri e bravi democratici, le persone per bene, i cittadini onesti e responsabili: insomma quelli che se lo meritano. Contro il dittatore, golpista, corruttore, B. e i suoi impresentabili sudditi, cosa volete che conti infrangere qualche regola? (l'Occidentale)

sabato 13 marzo 2010

Immigrati, solo per i "buonisti" la Cassazione è stata spietata. Antonio Mambrino

La sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha respinto la richiesta di un immigrato clandestino di sospensione del decreto di espulsione in relazione alla necessità di consentire ai propri figli il regolare completamento del ciclo scolastico ha determinato la prevedibile reazione dei seguaci del pensiero politicamente corretto, inclusivo e multiculturale che hanno denunciato la mancanza di pietà della Suprema Corte, l’attentato ai diritti universali dell’uomo.

Ma la decisione contiene almeno tre buone cose sulle quali è opportuno riflettere: una prettamente politica, una di metodo ed una di merito. Quanto alla politica, la sentenza dimostra come è perfettamente legittimo ed anche auspicabile che le decisioni dei giudici siano oggetto di confronto ed anche di polemica politica. Dopo mesi di insopportabile retorica sul fatto che le sentenze si rispettano, dopo mesi di grida al colpo di Stato ogni qualvolta un esponente del centrodestra si permetteva di polemizzare con un pronunciamento dei giudici, finalmente anche l’intellighenzia della sinistra si accorge criticare le sentenza fa parte del normale dibattito politico democratico.

Non sappiamo ancora se anche in quest’occasione l’onorevole Di Pietro troverà il modo di smarcarsi dal PD e lo costringerà ad un affannoso recupero. Ma certo le violente accuse lanciate dai giornali della sinistra (l’Unità in testa) fanno ben sperare. Non proviamo certo nostalgia per l’ortodossia comunista secondo la quale la magistratura nel suo complesso era strumento al servizio del nemico di classe. Né arriviamo a rimpiangere Palmiro Togliatti quando da Ministro della Giustizia, nell’immediato dopoguerra, riuscì con un decreto a far entrare in magistratura senza concorso circa 300 persone (i cosiddetti "togliattini") con il preciso obiettivo di riequilibrare politicamente l’ordine giudiziario. Ma certo un bagno di sano realismo e di laicità liberale è benvenuto nella fase attuale nella quale la sinistra sembra essere sempre più vittima del giustizialismo, del formalismo giuridico e del buonismo democraticistico.

Importante è anche il profilo di metodo. Con la sentenza n. 5886 la Cassazione sembra affermare un principio banale, ma del quale avevamo perso le tracce. Compito dei giudici non è quello di scrivere le leggi, e neanche quello di ricavare le regole, semmai partendo da generici “principi fondamentali”. Compito dei giudici è quello di applicare le leggi al caso concreto sottoposto al loro esame. In una democrazia, la valutazione e la ponderazione degli interessi che entrano in gioco in ciascun caso della vita è in via generale rimessa all’organo rappresentativo del popolo e l’ordine giudiziario è indipendente dal potere politico ma è sottoposto all’autorità della legge. Nel nostro sistema, salvo casi eccezionali, i giudici non possono e non devono pronunciarsi secondo giustizia o secondo equità. Devono puramente e semplicemente applicare le leggi votate dal Parlamento. E se è vero che in ogni attività di applicazione del diritto vi sono ampi margini di interpretazione discrezionale, è anche vero che tali margini non possono in alcun modo legittimare spericolate operazioni ermeneutiche che finiscono per creare nuovo diritto (si pensi alla sentenza sul caso Eluana) o peggio contraddire frontalmente il diritto, come risultante - al di là di ogni ragionevole dubbio dalle leggi vigenti.

Quanto infine al merito della questione occorre essere chiari. E’ del tutto ovvio che l’interesse pubblico alla lotta contro l’immigrazione clandestina deve sempre essere contemperato con altri interessi in gioco. E’ del tutto evidente che i principi di umanità e di rispetto della persona sono universali e che pertanto debbono prevalere sugli altri valori dell’ordinamento. Ma tutto ciò premesso è anche chiaro che se dilatiamo oltre il ragionevole tali principi rischiamo di svuotarli di contenuto e di farne dei meri alibi che minano alla base il principio di responsabilità individuale che rappresenta l’architrave della civiltà giuridica.

La questione è in realtà semplice. Si prenda ad esempio la situazione dell’immigrato irregolare che abbia bisogno di cure mediche. In tal caso ci si trova di fronte ad un bisogno urgente, transitorio e (normalmente) non dovuto ad una scelta o ad un comportamento consapevole del soggetto. Un bisogno che riguarda direttamente il bene fondamentale della vita umana. E sarebbe pertanto inconcepibile negare tali cure semplicemente a causa della situazione di clandestinità del soggetto. Nel caso della frequenza scolastica dei figli ci troviamo di fronte ad un bisogno sicuramente meno nobile ed in ogni caso non urgente, non transitorio (visto che la formazione scolastica dura come minimo dieci anni) e causato da una scelta volontaria dell’interessato (essersi fatto seguire dai propri figli in Italia nonostante non avesse un valido permesso di soggiorno). Considerare tale situazione come sufficiente ad impedire l’applicazione di un decreto di espulsione sarebbe del tutto irragionevole. Non solo. In questo modo si determinerebbe una grave disparità con l’immigrato regolare che alla scadenza del proprio permesso decida di ritornare nel paese di provenienza e semmai di far proseguire lì gli studi ai propri figli. E si produrrebbe anche un perverso incentivo agli immigrati irregolari ad “usare” i propri figli come scorciatoia per ottenere in via di fatto quel permesso di soggiorno che non sono riusciti ad avere in via di diritto.

Ma di tutto ciò i cantori della solidarietà, dell’umanità e dell’accoglienza si guardano bene dall’occuparsi. Impegnati solo a rimirare il proprio ombelico, non si accorgono che la bontà se scissa da altrettanta intelligenza finisce per determinare solo ingiustizie. (l'Occidentale)

Piazze piene e idee vuote. Sergio Romano

La piazza e le grandi manifestazioni popolari appartengono alla democrazia e ne dimostrano la vitalità. Ma siamo davvero sicuri che la elezione di buoni amministratori regionali in un Paese desideroso di essere federale esiga due grandi raduni di massa a una settimana di distanza? Abbiamo creato le Regioni perché volevamo accorciare la distanza fra i cittadini e i loro rappresentanti.

Abbiamo modificato il titolo V della Costituzione perché volevamo che le Regioni avessero maggiori competenze. Abbiamo approvato il principio del federalismo fiscale perché vogliamo che ogni Regione sia responsabile delle proprie spese e gli elettori apprendano a scegliere rappresentanti onesti, capaci, attenti all’uso del pubblico denaro. Se queste riforme hanno un senso, le campagne elettorali dovrebbero concernere i cittadini delle singole regioni e offrire all’intero Paese un quadro aggiornato del modo in cui ciascuna di esse affronta la crisi. Vorremmo sapere, ad esempio, perché le Regioni in cui la spesa sanitaria è minore sono spesso quelle in cui i cittadini sono meglio trattati. Vorremmo conoscere i motivi per cui a spese particolarmente elevate corrisponda una cronica mancanza di servizi essenziali.

Vorremmo ascoltare la voce di candidati che spiegano ai loro elettori quale programma intendano applicare se saranno eletti. Avremo invece una grande manifestazione di centro-sinistra oggi a Roma e una grande manifestazione di centro-destra domenica prossima a Milano. Queste due manifestazioni nazionali hanno già avuto alcuni effetti perniciosi. In primo luogo hanno interamente oscurato il dibattito pre-elettorale sui contenuti delle diverse candidature. Si parla di tutto, fuorché di ciò che le Regioni hanno il diritto e il dovere di fare in materia di salute, sicurezza, occupazione, pubblica istruzione. In secondo luogo hanno rimesso indietro l’orologio della politica italiana. Il centro-sinistra scende in piazza con una formazione simile a quella dell’Unione: un cartello delle contraddizioni in cui chi rispetta e apprezza il ruolo moderatore del presidente della Repubblica sfila insieme a chi ne vorrebbe l’impeachment.

La sinistra sembra avere dimenticato che questa alleanza di comodo fra partiti profondamente diversi fu il principale motivo della caduta del governo Prodi nel 2008. Un avversario comune non basta a creare un programma comune. Il centro-destra, dal canto suo, soffre di una stessa malattia. Mentre la sinistra si mobilita contro Berlusconi, il leader del Pdl chiama a raccolta il suo popolo contro i comunisti, i magistrati faziosi, gli occulti registi di un complotto anti-governativo. Siamo alle solite. Invece di essere invitati a scegliere fra amministratori e programmi, siamo chiamati a scegliere fra il Bene e il Male, fra la dittatura strisciante della destra e l’incurabile comunismo della sinistra. Viene naturale chiedersi se i partiti si occupino di queste cose perché non sanno occuparsi d’altro. Dicono di parlare a cittadini democratici e consapevoli, ma non chiedono un voto: chiedono un atto di fede. Anche le astensioni, in questo caso, avranno un significato. (Corriere della Sera)

venerdì 12 marzo 2010

Oak Fund. Davide Giacalone

Seguite la storia dell’Oak Fund e dei forzieri che Massimo D’Alema ha collocato all’estero. Così, prima vi fate quattro risate, poi vi rattristate pensando a quanto certo mondo sia refrattario alla serietà. Infine, tirate le somme, e prendete atto che in questo Paese scarseggia la giustizia e la classe dirigente, mentre le trame degli spioni somigliano a scenette d’avanspettacolo.

La faccenda è tornata agli onori della cronaca perché, a Milano, è in corso una specie di farsa giudiziaria, con al centro gli spioni che lavoravano per Telecom Italia. Il dilemma giudiziario, giunti a questo punto, è esattamente lo stesso che si conosceva fin dal primo giorno (sette anni fa): agivano per conto proprio o in ragione d’incarichi ricevuti dai vertici aziendali? Domanda talmente oziosa che, se fosse rivolta seriamente, rasenterebbe l’essere offensiva. In questo tira e molla sull’ovvio e lo scontato, Marco Tronchetti Provera è stato chiamato a deporre, nel pieno dell’udienza preliminare. Fra le altre cose, ha detto che Giuliano Tavaroli, capo della security, prima in Pirelli poi in Telecom, gli aveva parlato del misterioso Oak Fund, che gestiva quattrini riconducibili a D’Alema. Lui, Tronchetti Provera, dice di avere dato una risposta ineccepibile: si rivolga alla procura della Repubblica. Bello, giusto ed esemplare. Solo che nessuno lo fece e nessuno controllò. Se si fossero rivolti alla procura, però, ci avrebbero rimediato una bella denuncia per calunnia, visto che il problema di quel fondo non è manco per niente quello di contenere soldi di D’Alema.

Un passo indietro, visto che credo di avere giocato un ruolo, in questa faccenda. Siamo nel 1999, Massimo D’Alema è presidente del consiglio e, proprio all’inizio dell’anno, sponsorizza Roberto Colaninno, che lancia un’opa ostile contro Telecom Italia (guidata, anche allora, da Franco Bernabè). Guido Rossi, che di Telecom era stato presidente, uomo vicino alla sinistra, che lo aveva anche eletto senatore, usa parole feroci e contrarie, giugnendo a dire che Palazzo Chigi era l’unica merchant bank nella quale non si parla l’inglese. Li definisce affaristi, insomma. Scrissi: Rossi ha ragione, perché se parlassero l’inglese si sarebbero accorti che fra gli scalatori c’è un soggetto denominato Oak Fund, vale a dire “Fondo Quercia”, il che è singolare, visto che il capo del governo è anche il capo del partito della quercia. Non solo non scrissi che in quel fondo c’erano i soldi di quel partito, o di quel leader, ma neanche l’ho mai pensato. Se non altro perché c’è un limite alla cretineria. Da allora, invece, la cosa è data quasi per scontata, salvo non potere in nessun modo essere provata, anche perché gli intestatari di quel conto sono noti, e non coincidenti con la tesi che si ripete a pappagallo. La tesi, insomma, che Tavaroli riferiva al suo principale (dopo avere illecitamente sottratto, dal mio computer, il testo del libro che, in materia, stavo scrivendo, e, probabilmente, dopo averlo letto senza essere in rado di capire).

Dunque, uno scandalo inventato? No, lo scandalo c’è, ma è quello che denunciai del tutto inutilmente, con le autorità di mercato che dormivano il sonno degli appagati: si consentì, in violazione delle regole, la scalata ad una multinazionale italiana, portata da una cordata i cui soggetti erano e sono rimasti ignoti, perché radicati in Lussemburgo, e da qui dispersi nei paradisi fiscali. Quello è il problema e quella è, per come la vedo io, la responsabilità dell’allora presidente del Consiglio. Ma, come al solito, in un Paese senza giustizia si pretende di far pagare delle presunte responsabilità penali, mentre si dimenticano quelle politiche. Ecco, allora, che la leggenda del Fondo Quercia prende forma, finendo nella carte di spioni che sono stati tanto pericolosi e inquinanti quanto peracottari (su di me montarono un dossier ove si sotiene che sono parente di Bernardo Provenzano, che è una galattica minchioneria, condita con pedinamenti e intercettazioni).

Alla leggenda abboccano tanti oppositori della sinistra, con la stessa voluttuosa stupidità con cui abboccarono al conte Igor e ai suoi presunti conti correnti di Cicogna, Rospo e Mortadella. Con la quale boiata s’oscurò, anche lì, lo scandalo vero: avere comprato Telekom Serbia da un genocida, pagandolo in contanti.

Tiriamo le somme: a. una multinazionale italiana è stata scalata e spolpata; b. il frutto della scorribanda è andato all’estero, per la semplice ragione che gli scalatori erano esteri; c. lo scandalo evidente è stato occultato, ma, in compenso, ne sono stati inventati di ridicoli; d. Tronchetti Provera comprò Telecom all’estero, e la fece tornare italiana, non riuscendo, però, a tenerla in equilibrio, quindi ulteriormente provvedendo a impoverirla; e. la società, creata con i soldi degli italiani, è oggi ridotta in macerie; f. per giunta, i suoi soldi sono serviti anche a pagare un gruppo di voraci spioni; e. con la ciliegina sulla torta: il processo relativo finirà in burletta.

Questa storia, sia chiaro, la conoscono tutti quelli che contano, nel mondo, e la conoscono nei termini che ho riassunto, e cui ho dedicato un paio di libri. La conoscono al punto che sanno ben valutare la nostra presunta classe dirigente (politica, industriale e finanziaria), e non ne hanno un concetto lusinghiero. La conoscono meno i cittadini italiani, perché da noi ci si eccita solo per la tangente, la mazzetta, li sordi e, da ultimo, per qualche malafemmina o qualche corista, si scrive e si schiamazza sul niente, sul poco, sul misero, nel mentre la ricchezza fugge sotto al naso degli scemi (tanti) e dei conniventi (selezionati). Forse, per ragioni d’educazione civica, è una storia che varrebbe la pena insegnare nelle scuole.

giovedì 11 marzo 2010

Liste, gli errori di Berlusconi e le contraddizioni del Pd. Biagio Marzo

Adesso si aspetta il giudizio del Consiglio di stato. E sia. Sarebbe meglio che Berlusconi si mettesse l’animo in pace e non rincorresse il destino della lista del Lazio. Piuttosto governi, per recuperare il tempo perduto. Di fronte al calo di popolarità (meno dieci punti rispetto al mese passato), il Presidente del Consiglio dovrebbe cambiare passo per non andare dritto alla sconfitta. E comunque dovrebbe considerare che non può fare tutto da sé ma nemmeno lasciare il Pdl nelle mani dei responsabili del disastro laziale. E’ finito il partito di papà. Il partito a cui ci si poteva rivolgere sapendo di trovare la porta aperta. Ad essere in crisi è il partito carismatico, quello di uomo solo al comando. Ed è in crisi da poche settimane, dal caos liste in Lazio e in Lombardia. La vicenda delle liste non può passare sotto silenzio, perché ha evidenziato che le elezioni non sono concepite come strumento democratico per selezionare una nuova classe di governanti ma piuttosto come una resa dei conti nei confronti dell’avversario. Anche se il metodo della cooptazione viene sempre più rifiutato da parte di coloro che lo vedono applicato per favorire i soliti raccomandati. Un episodio significativo del cambiamento di clima è il caso Santanché: al suo primo ingresso alla Camera nelle vesti di sottosegretaria, la Santanché è stata accolta da fischi e “buu”. Che non partivano dai banchi dell’opposizione, bensì dalla maggioranza. Insomma, Daniela si trova al governo perché l’ha voluta Berlusconi seguendo logiche di familismo che nulla hanno a che fare con la politica. A occhio nudo, si è vista la frattura tra teoria e prassi, tra politica e organizzazione. Senza l’una, si cade nell’organizzazione fine a se stessa, senza l’altra, nel puro politicismo. Alla prova dei fatti, il decreto interpretativo non è servito a un fico secco, anzi: ha ridicolizzato i promotori ai quali va anche il demerito di aver creato una situazione di forte disagio all’interno delle istituzioni.

Quindi, alla larga dei consiglieri giuridici di Palazzo Chigi: ne hanno fatte più di Carlo in Francia. A ben vedere la responsabilità è politica e ricade sul Pdl che si rivolge a costoro per sciogliere i nodi politici. Anche se non si è capito perché Maroni sia salito fin sul Colle, nonostante al Viminale i suoi collaboratori lo avessero avvertito dell’inutilità del decreto. Vero è che il ricorso alla giustizia è una malattia che non risparmia proprio nessuno. Anche Bersani si è infettato. Nella battaglia anti decreto ha messo in campo i suoi avvocati. Bersani, nella vicenda delle liste, si è comportato in modo contraddittorio, dimostrando limiti politici enormi, che per sua fortuna sono rimasti nascosti grazie al pasticciaccio del Pdl. Prima ha dato la propria disponibilità a far partecipare la lista del Pdl alla competizione elettorale, poi si è attivato nell’impedire la presentazione. Dimostrando così un deficit di cultura liberale, la cui forza sta nel garantire a tutti la partecipazione al voto in una situazione di uguaglianza. Nel cahier de doléances, c’è una sfilza di errori e di nomi che hanno causato il calo di gradimento del premier. Nemmeno un terremoto avrebbe creato tante macerie e nemmeno – si fa per dire - Bertolaso riuscirebbe a cavare un ragno dal buco. Ragion per cui bisogna ritornare alla politica con la P maiuscola e al buongoverno. Con la piazza non si fa politica e non si fa il bene del Paese. Con due piazze che si confronteranno tra di loro sul numero dei partecipanti, siamo alla follia. Quale delle due piazze, quella di sinistra o quella di destra, vincerà la sfida? Rassegniamoci, di questo saremo costretti a discutere nell’ultima settimana di campagna elettorale. (l'Opinione)

lunedì 8 marzo 2010

Ridateci il partito-caserma basta che a decidere è Berlusconi. Milton

Ci ha dovuto pensare come al solito lui, battendo i pugni sul tavolo nell’incontro al Quirinale (ma perché non lo fa più a spesso anche al Consiglio dei Ministri?), mettendoci come sempre la faccia. Gli elettori del PdL della Provincia di Roma avranno la possibilità di esprimere il proprio voto, cosa quanto mai ovvia in una democrazia, nonostante il pasticciaccio combinato da qualche incapace (a proposito, con calma, dopo le Regionali, qualcuno avrà la dignità di farsi da parte?).

Ci ha dovuto pensare come al solito lui. Quelli che schiamazzano, borbottando di cesarismo ed altre amenità, erano evidentemente impegnati in altre faccende, magari intenti a pensare a costruire una destra moderna contrapposta a quella becera e berlusconiana, oppure a stimolare il dialogo interno al PdL, che “così com'è non va proprio bene”.

Ci ha dovuto pensare come al solito lui, nonostante quelli che blaterano di regole cambiate in corso. Ma quali regole e quali arbitri, in un Paese dove un segretario di partito può tranquillamente ed impunemente chiedere “abbiamo una banca?", mentre allo stesso modo un poveraccio che vuole curarsi un mal di schiena, si ritrova alla berlina e con un avviso di garanzia.
Ma quali regole, se siamo in un Paese in cui si devono aspettare 17 anni per essere assolti, per non aver commesso il fatto, da reati tanto infami quanto peregrini, quali il concorso esterno in associazione mafiosa. Ma quali regole, se gli arbitri ormai da anni vogliono ribaltare l'Italia come un calzino, se gli arbitri ogni giorno rilasciano interviste parzialissime sulla loro presunta imparzialità, se gli arbitri scendono in politica sfidando i loro stessi indagati. Ma per favore!

Ma quali regole: mi sapete per esempio spiegare perché Silvio Scaglia sta in carcerazione preventiva. Non c'è pericolo di fuga, è tornato dall'estero di suo sponte, non c'è pericolo di reiterazione del reato, non ha infatti più cariche all'interno di Fastweb ormai da anni, non può inquinare le prove, è indagato già dal 2007. Un mistero, ma qualcosa mi dice che rimarrà in carcere a lungo, la speranza è che non faccia la fine di Gabriele Cagliari e molti altri.

Ed ancora ci ha dovuto pensare come al solito lui, a sistemare le ronde elettorali di questi vetero-libertari da codicilli, annoianti digiunatori a singhiozzo, che per decenni hanno sbandierato le canne libere e gli aborti rivoluzionari fuori legge, difeso terroristi e speso soldi pubblici per mandare in onda improperi e logorroiche elocubrazioni del loro leader, sempre più simile ormai al Crono divoratore dei propri figli, tra un cappuccino e un altro. Questo lo ricordi anche la CEI, quando parla di regole cambiate, in una nota domenicale all'uscita dalla Messa (ma la domenica non era il giorno del Signore!?).

Ma fortunatamente ha vinto il partito-caserma, un partito con un leader che batte i pugni sul tavolo e (finalmente) dice “qui si fa come dico io”, un partito che tuttavia, da domani, deve cominciare ad accompagnare alla porta i congiurati (il gruppo misto esiste per questo!) ed accantonare i cortigiani incapaci. Il partito, al contrario, ha bisogno di opliti preparati e solide falangi, senza colonnelli né generali, di un leader che comanda. Ha bisogno di poco dialogo interno e nessun confronto, piuttosto servono decisioni veloci su un programma già scritto e soprattutto votato da milioni di elettori; mancano tre anni alla fine della legislatura e l'auspicata rivoluzione liberale, dopo quindici anni, deve purtroppo ancora cominciare.

Non è più l'ora dei distinguo e dei moniti, e se Di Pietro e il fedele servitore Bersani chiamano a raccolta la piazza, dovranno avere pane per i loro denti. (l'Occidentale)

venerdì 5 marzo 2010

Lasciate fare ai tribunali. Lodovico Festa

“Lasciate fare ai tribunali”.
Dice il Pd al Manifesto (5 marzo).
E’ la frase che per i postcomunisti ha sostituito l’antico: Tutto il potere ai Soviet! (l'Occidentale)

mercoledì 3 marzo 2010

Capolinea. Davide Giacalone

Il centro destra consegna le elezioni nelle mani della magistratura. Sembra uno scherzo, invece è il risultato di un’allucinazione, dell’idea che si possa fare politica senza i partiti, o, che è la stessa cosa, del considerare i partiti quali mero contenitore organizzativo, destinato a promuovere portatori d’acqua e a selezionare i più acritici. Una degenerazione che non riguarda solo il Popolo delle Libertà, che ha coinvolto anche il Partito Democratico, ma che consegna alla maggioranza il non invidiabile record di avere a lungo resistito agli assalti della magistratura penale, per poi rotolare nelle mani di quella amministrativa.

Un errore può capitare, due sono un brutto segno, ma oltre si oscilla fra la farsa e la tragedia. Prima escono dall’ufficio elettorale per manipolare ancora, a pochi minuti dall’esaurirsi del tempo massimo, la lista dei candidati. Poi si dimenticano dei timbri. Quindi si accorgono che mancano delle firme. Fino alla cosa più grave, in Campania, dove il candidato presidente disconosce una lista che lo appoggia, modificata nella notte, a sua insaputa, infilandoci un Tale che sarà anche una gran brava persona, ma la sinistra se n’era liberata e un tribunale lo ha già condannato (in primo grado, quindi vale la presunzione d’innocenza) per fatti di camorra. Tutto questo non è neanche pensabile se non in un’organizzazione che ha espulso la politica e s’è divisa in correnti personali.

Gianfranco Fini dice che non gli piace, il partito che ha cofondato meno di due anni fa. Ma non siamo mica in una commedia di Eduardo De Filippo, e il Pdl, come presepio, lascia assai a desiderare. Solo che noi abbiamo continuato a battere il tasto dei contenuti e delle riforme, mentre lui ha passato due anni a praticare il radicalshock, supponendo che l’Italia avesse l’urgente bisogno di far sposare gli omosessuali, abortire alla svelta le fanciulle e staccare il respiratore ai terminali. Tutti temi che digerimmo in gioventù, con ragionevole dissacrazione, e che altri hanno scoperto in vecchiaia, con il consueto, irragionevole ardore. Il tema, insomma, non è segnalarsi per la successione, facendo l’occhiolino agli avversari. Qui manca il trono.

Il baratro è trasversale, e lo avevamo visto per tempo, quando segnalammo l’emblematico caso pugliese, dove i due grandi partiti unici, dotati di potere mediatico, con capi a chiacchiere indiscussi, capaci di occupare interamente la scena, non erano riusciti, nessuno dei due, a far prevalere il candidato desiderato, dovendosi piegare alle pressioni e alle cordate locali. Era la campana a morto. Ma, oramai, si parla al vento, perché ciascuno è chino a perdersi nel proprio ombelico.

Ne volete una prova? Enrico Letta è una persona seria e, da oppositore, ha fatto rilievi al disegno di legge anti corruzione, varato dal Consiglio dei ministri, non dissimili da quelli che qui avevamo mosso. Poi gli fanno osservare: però, voi, candidate De Luca in Campania. E lui: ha ricevuto anche il viatico di Di Pietro e non era giusto privare gli elettori del diritto di votarlo. Ma che razza di risposta è? Allora vale per tutti, a parte il benestare dei giustizialisti manettari, che per la sinistra è divenuto un valore, mentre a me sembra un disvalore. Tali illogicità sono possibili, e si trovano tali e quali nel centro destra, perché ciascuno pensa solo agli equilibri interni al proprio gruppo, senza più avere neanche tesi serie per argomentare all’esterno.

E che volete argomentare, del resto? Nel Lazio, se la magistratura la salverà, gli elettori di destra potranno votare una sindacalista, mentre quelli di sinistra una paladina dei diritti borghesi. Chi crede in meno tasse e più libertà del mercato dovrebbe votare per chi chiede più soldi ai dipendenti pubblici, e a chi ha votato gli amministratori locali del giubileo, con tanto di bacio alla pantofola papale, toccherà votare un’anticlericale. Tutte e due unite, però, nel dire no all’energia nucleare. Trasformismo e demagogia in una botta sola, superbo. La campagna sarà ricondotta nei binari da Berlusconi, che la imposterà nell’unico modo che funziona: o con me o contro di me. E tanti saluti ai temi regionali, dimostrando che in lista puoi mettere anche gente a paragone della quale il senatore di Caligola è un pericoloso intellettuale.

Non può durare, il sistema è al capolinea. In entrambe gli schieramenti c’è gente vera, militanti che ci credono e si fanno in quattro. Ad entrambe gli schieramenti si dirigono i voti di cittadini mossi da convinzioni. Stiano attenti, perché gli uni più gli altri sono il mastice che tiene insieme il Paese. Non si può umiliarli oltre un certo limite, senza che qualche cosa si sfasci.

martedì 2 marzo 2010

Adesso il Cavaliere dia una sveglia al Pdl. Paolo Del Debbio

Avete presente uno che perde l’incontro della sua vita perché si è dimenticato di mettere la sveglia? Ecco il Pdl a queste elezioni. Ma vi sembra mai possibile che il primo partito italiano, tra l’altro al governo del Paese, rischi di non poter presentare le liste nelle due capitali d’Italia, Roma e Milano? Ma vi pare mai pensabile che mettiamo in forse due candidati come Roberto Formigoni e Renata Polverini, come se potessimo perdere candidature di questo livello? Non sappiamo perché sia successo e non vogliamo assolutamente pensare il peggio: guerre tra faide interne, perché qui più che tra faide si tratterebbe di una ben più volgare guerricciola tra straccioni. E se il motivo è l’inefficienza dell’organizzazione, sempre di straccioni si tratta.

Sarà bene che il Cavaliere, se possibile una volta per tutte, dopo queste elezioni regionali, metta mano a questo fantomatico partito. La questione è molto semplice: evidentemente in molti non hanno capito di che patrimonio stiamo parlando. Lo ricordiamo brevemente.
Primo. Sfugge a costoro che il programma del centrodestra italiano è, ad oggi, in Italia, l’unico programma di riformismo possibile. È chiaro o no? Certo, ci saranno sbavature, smagliature ma il cuore del programma rappresenta un unicum. E, a nostro modesto avviso, sbaglia chi pensa che quel programma vada rivisto perché ha paura che sia poco chic o, peggio ancora, non adeguato ai tempi. Non è così a partire dall’immigrazione per arrivare alla riforma fiscale. Il problema non è cambiarlo, è attuarlo.

Secondo. Ciò che il centrodestra si è dato come programma politico è ciò che la maggioranza degli italiani, ben al di là della rappresentanza politica, vuole, desidera: ciò di cui ha bisogno da anni. Di fronte a farse come quelle di questi giorni, per non considerare le baruffe dei mesi scorsi, il popolo di centrodestra non volta le spalle al programma ma a chi indegnamente lo rappresenta.
Terzo. Nel centrodestra italiano, checché ne dicano vari, non esiste qualcosa di simile a ciò che la sinistra antagonista rappresenta nel centrosinistra. Anche in questo caso la coalizione guidata da Silvio Berlusconi non è indenne da intemperanze di vario tipo da parte di qualcuno: passi in avanti, sparate varie ma soprattutto uscite fatte solo per la propria base elettorale senza pensare agli interessi della coalizione.

Questo è, in sintesi, il grandioso patrimonio di cui dispone il centrodestra italiano. Vi pare poco? Vi pare che possa essere allegramente dissipato? Chi ricorda, in altre epoche storiche, un patrimonio politico di tale dimensioni e di tale radicamento? Chi ne ha potuto disporre? Ma veramente qualcuno, nella dirigenza alta del Pdl, pensa che la strada giusta sia quella di smembrare questo patrimonio? Per andare dove? Per farne cosa dei pezzetti che risulterebbero da questa scellerata operazione?

Ovviamente il caos fatto nella presentazione delle liste è solo la manifestazione di un malessere e chi pensa che si tratti di malessere organizzativo si sbaglia di grosso. L’organizzazione del Pdl fa acqua ma qui il problema è il pozzo che la contiene. Solo un cretino potrebbe fermarsi all’acqua e non interessarsi del pozzo. Se non se ne occupa nessuno è chiesto a Berlusconi di farlo. O lo fa lui o alla fine lo fanno gli italiani che non andranno più a votare piuttosto che dover scegliere tra chi a sinistra non li rappresenta e chi a destra ha deciso di buttare a mare un tesoro.

Per chi, nell’ultimo fine settimana, ha visto la cronaca politica in tv ha percepito Pierluigi Bersani come un mostro di capacità comunicative: poche parole, chiare, pungenti. Ovviamente questo non è dovuto a Bersani ma al vuoto pneumatico rappresentato dai suoi avversari di centrodestra che balbettavano, sembravano confusi, non si capiva cosa dicessero. Caro Presidente, qui bisogna serrare le file. Magari non è quello che le va di più di fare ma se non lo fa lei abbiamo l’impressione che non lo possa fare più nessuno. Nessuno. (il Giornale)

lunedì 1 marzo 2010

Vi racconto chi è il magistrato che perseguita Berlusconi. Vittorio Sgarbi

Alcuni ricorderanno, e io sono stato chiamato a risponderne con molta frequenza in incontri pubblici e polemiche, che io inveii contro certi magistrati chiamandoli: «assassini». Nel corso degli anni ho visto rimproverarmi questa invettiva come se l’avessi indirizzata ai due principali simboli dell’azione giudiziaria più determinata e, a mio avviso, spericolata: Di Pietro e Caselli. Loro stessi, credo, oltre al recidivo Travaglio (da me, in più occasioni, inutilmente querelato) si sono considerati innocenti destinatari e vittime della mia aggressione.

In verità delle tante querele che da loro mi sono venute nessuna poteva lamentare questa privilegiata considerazione giacché io, tra le tante critiche, non gli ho mai rivolto questa. Neppure nei momenti più difficili, e duri, come i suicidi di Raul Gardini e di Sergio Moroni, o di quello del povero giudice Lombardini. Fui critico, polemico ma, per quanto in contraddizione con il mio temperamento, prudente.
Dunque in quale occasione mi spinsi fino a quella estrema esclamazione? In un solo caso, terribile e drammatico: la morte di Gabriele Cagliari. Perfino Di Pietro la prese male e parlò di una «sconfitta della nobile e pura azione giudiziaria». Le circostanze di quella incresciosa e tremenda vicenda non possono essere ricondotte al semplice sconforto di chi è costretto in prigione e si vede umiliato per una conclamata colpa ma anche, e soprattutto, alla distanza e indifferenza del potere, discrezionale e incontrastabile, di un pubblico ministero che dispone della tua libertà e della tua vita.
Il pubblico ministero di Gabriele Cagliari si chiamava Fabio De Pasquale e trattenne in galera durante il mese di agosto il suo amministrato sulla base delle conclamate necessità (inquinamento delle prove, reiterazione del reato, pericolo di fuga) della carcerazione preventiva ma anche perché era in ferie.

Anche in questo caso De Pasquale mostrò una personale considerazione del tempo. Un mese in prigione è molto diverso da un mese in vacanza, e le giornate e le ore non passano nello stesso modo. Così De Pasquale ritornò riposato e Cagliari decise di togliersi la vita. Anche nelle recenti vicende del processo Mills, De Pasquale mostra di avere una personale idea del tempo. Così che se oggi il presidente del Consiglio non pare nelle condizioni psicologiche di suicidarsi, certamente nel posticipare i termini del reato attribuito a Berlusconi e a Mills ha ottenuto una condanna, poi annullata dalla Cassazione in questi giorni, che viene ribaltata contro il presidente del Consiglio, ancora non processato (ma già moralmente condannato) che dalla stampa di tutto il mondo viene trattato come un colpevole impunito che cerca di sfuggire alla giustizia.

Davanti alla quale, in virtù della particolarissima visione dell’azione giudiziaria e dei suoi tempi di De Pasquale, Berlusconi non è uguale agli altri cittadini ma è diverso. A lui tocca un trattamento speciale. Per paradosso lo sforzo del Parlamento e degli avvocati di Berlusconi dentro e fuori del Parlamento è di ottenere una sostanziale parità di trattamento. Quella, per esempio, che hanno avuto tutti gli imprenditori italiani da Agnelli a Romiti a De Benedetti, nel corso della loro attività che non è approdata alla politica. Proprio perché Berlusconi ha deciso di fare politica alcuni settori della magistratura hanno inteso contrastarlo con metodi e tempi non applicati a nessun altro cittadino. Da questo è derivata una criminalizzazione della sua attività politica, sostanzialmente diffamatoria e sostenuta con l’apparenza dell’obbligatorietà dell’azione penale, per altri evidentemente non è obbligatoria.

Ora per intendere lo squilibrio e la disparità di trattamento riservati a Berlusconi basta rileggere alcune parti dell’ultima lettera ai familiari di Gabriele Cagliari, che il 20 luglio 1993 si uccide per denunciare l’ingiustizia di cui è vittima, sotto l’apparenza di obbligatorietà dell’azione penale e di uguaglianza. Cagliari ha ben chiaro di essere stato individuato come un bersaglio per una punizione esemplare in cui è evidente, come nel caso di Berlusconi, la ragione moralistica prima che giudiziaria. Con ogni mezzo occorre individuare il «nemico» e colpirlo: «La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto... Come dicevo siamo cani in un canile dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la propria esercitazione e dimostrare che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima o alcune ore prima. Già oggi i processi e non solo a Milano, sono farse tragiche, allucinanti, con pene smisurate comminate da giudici che a malapena conoscono il caso... Quei pochi di noi caduti nelle mani di questa "giustizia" rischiano di essere capri espiatori della tragedia nazionale generata da questa rivoluzione... ».

Dopo queste parole Cagliari si uccide, sono passati 17 anni. Il pubblico ministero contro il quale Cagliari compie il suo gesto continua la sua rivoluzione. Con ogni mezzo anche in contrasto con la legge che la Cassazione richiama. Com’è possibile? (il Giornale)