sabato 30 gennaio 2010

I dieci punti del piano straordinario antimafia.

Istituzione di un'Agenzia per la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalita' organizzata; un nuovo codice delle leggi antimafia; nuovi strumenti di aggressione ai patrimoni mafiosi. Sono queste le principali novita' introdotte dal governo con il Piano straordinario contro le mafie approvato dal Consiglio dei ministri a Reggio Calabria. Il piano e' composto da nove punti che prevedono anche, tra l'altro, una mappa informatica delle organizzazioni criminali, il potenziamento dell'azione antimafia nel settore degli appalti, nuove iniziative sul piano internazionale per contrastare la criminalita' transnazionale. Il piano contempla anche altre norme di contrasto alla criminalita' organizzata come segnale, ha spiegato il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nel corso di una conferenza stampa, "del fatto che la lotta a 'ndrangheta, camorra e mafia e' la priorita' del governo".

Il piano del Governo contro le mafie contiene i seguenti punti:

1. agenzia per la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata;
2. codice delle leggi antimafia;
3. nuovi strumenti di aggressione ai patrimoni mafiosi;
5. nuove misure a sostegno delle vittime del racket e dell'usura;
6. mappa informatica delle organizzazioni criminali;
7. potenziamento dell'azione antimafia nel settore degli appalti;
8. nuove iniziative sul piano internazionale per contrastare la criminalità transnazionale;
9. altre norme di contrasto alla criminalità organizzata;
10. lotta al lavoro nero

Agenzia per la gestione dei benif confiscati sarà in Calabria

L'Agenzia per la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalita' organizzata avra' la sua sede principale a Reggio Calabria e sara' il segnale dell'attenzione che il governo intende riservare all'estrema regione peninsulare. "Nei venti mesi di governo Berlusconi - ha sottolineato il ministro dell'Interno, Roberto Maroni - sono stati sequestrati alla criminalita' organizzata oltre 12 mila beni, per un valore di circa 7 miliardi di euro, e confiscati circa tremila beni per un valore di 2 miliardi di euro. A questi - ha proseguito - si aggiungono i beni sequestrati e confiscati negli anni precedenti. L'aggressione ai patrimoni mafiosi e' diventata lo strumento piu efficace di lotta alle mafie e per questo necessita di un nuovo strumento che sia immediatamente operativo". L'Agenzia per la gestione dei beni sequestrati e confiscati avra', tra i suoi compiti, quello di procedere al censimento dei beni sequestrati e confiscati ai clan oltre che quello di provvedere alla loro amministrazione, alla custodia e alla destinazione.

Il testo unico dei principali interventi antimafia

L'altro punto qualificante del piano messo a punto dal governo e' stato evidenziato dallo stesso presidente Berlusconi che lo ha indicato nel Testo unico dei principali interventi legislativi antimafia emanati dal 1965 ad oggi. "Si tratta - ha detto Berlusconi - di un provvedimento del quale sentivamo il bisogno e che aiutera' coloro i quali hanno il compito di combattere la criminalita' organizzata a lavorare meglio con strumenti piu' efficaci". Per quanto riguarda i nuovi strumenti di aggressione ai patrimoni mafiosi, il ministro dell'Interno Roberto Maroni ha evidenziato l'estensione a tutto il territorio nazionale dei 'Desk interforze provinciali'. "Il sistema - ha detto Maroni - prevede un tavolo Dda-forze di polizia-Dia per integrare le informazioni ed individuare i patrimoni da colpire. Questa organizzazione - ha aggiunto - tiene conto delle specificita' territoriali. L'avevamo gia' adottata in Campania, dove ha funzionato, ed intendiamo estenderla". Il piano del governo prevede anche la modifica della disciplina per l'applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali attraverso una procedura accelerata e la riduzione del limite temporale massimo per il procedimento in appello, oltre che l'estensione dell'utilizzazione immediata dei beni mobili registrati a tutti i beni mobili.

Immigrazione

Il premier ha chiarito che l'Italia chiederà all'Unione europea di "farsi carico" dei costi sostenuti dalla Libia e dagli altri "Paesi rivieraschi" del nord Africa che si sono impegnati a svolgere un'azione di "vigilanza" per contrastare i flussi di immigrazione clandestina verso l'Europa. "Svolgerò un'azione molto forte verso l'Ue – ha spiegato il capo del governo - che deve caricarsi il costo di questa vigilanza che la Libia e altri Paesi rivieraschi sopportano per fare questo lavoro di vigilanza". (GovernoBerlusconi.it)

venerdì 29 gennaio 2010

Cosa aspetta Vendola a entrare nel Pd? Lodovico Festa

"Cosa aspetta Vendola a entrare nel Pd?".
Dice Luigi Manconi sull’Unità (29 gennaio).
Vendola, mi pare, che nel Pd sia già entrato: un po’ al modo del vecchio Breznev e dei suoi “carri” a Praga nel ‘68. (l'Occidentale)

giovedì 28 gennaio 2010

Primi risultati. Christian Rocca

Poco meno di un anno fa è iniziata la campagna scandalistica di Repubblica sulle donne di Berlusconi e sul giro di ragazze gestite da un imprenditore pugliese. Ecco i primi risultati della via gossipara al socialismo:
a) dimissioni del governatore Pd nel Lazio
b) dimissioni del sindaco Pd di Bologna
c) arresti, caos, spaccatura nel Pd in Puglia. (Camillo blog)

venerdì 22 gennaio 2010

Quelle analogie tra Bettino e il Cav. Paolo Pillitteri

Verrebbe da ridere, dopo il primo ok al processo breve, se,invece, la giustizia non facesse piangere, e, soprattutto,pensare. Intanto, alzi la mano o taccia per sempre chi non vuole il processo breve che peraltro, fu brevissimo solo per Bettino Craxi condannato dalla giustizia modello speedy Gonzales in meno di tre anni, dal primo grado all’ultimo. Ha fatto bene il Cavaliere a dare un’accelerata alle scelte sul comparto retto dal ministro Alfano, il quale ha finalmente snocciolato in Senato cifre, fatti, dati e responsabilità della catastrofe giudiziaria. Ai giustizialisti e al loro partito bisognerebbe sempre rispondere con dati inconfutabili, visto che per loro contano gli avvisi di garanzia, le accuse e le sentenze passate in giudicato, queste ultime assunte come verità storica, come oro colato. Oro falso, in non pochi casi. Tant’è vero che il Presidente della Repubblica ha invitato il recidivo Donadi (Idv) a rileggere quanto sancito a Strasburgo contro una delle due sentenze finali contro Craxi. Ma tant’è. C’è tuttavia un’altra questione che fa pensare e che, vista retrospettivamente, denota l’ennesima inquietante anomalia della giustizia all’italiana. Che, tra l’altro, accomuna Craxi e Berlusconi. In una sua intervista ad Hammamet, credo del 1996, con Bruno Vespa, il leader del Psi, già da allora, faceva notare come prima del 1992 non fosse mai stata elevata da nessun magistrato italiano l’imputazione di violazione del finanziamento pubblico che, al contrario, fu comminata successivamente a migliaia di soggetti. Il lungo silenzio della giustizia su un dato di fatto diffuso, noto al Parlamento per la falsità dei bilanci dei partiti, invasivo della economia, e che durava indisturbato dal 1945, la dice lunga sull’intero sistema Italia, attribuendo anche alla magistratura un ruolo se non di copertura certamente di silenzio e di indifferenza rispetto ad un reato che, non prima, ma dopo il 1992, divenne il paradigma della colpevolizzazione, demonizzazione e annientamento della Prima Repubblica.

Ma c’è un altro silenzio, non meno assordante, da parte dei giudici. E riguarda, come si accennava sopra, Silvio Berlusconi. Non si hanno notizie di alcuna informazione di garanzia, di nessun avviso di reato, di nessuna violazione di legge nei suoi confronti prima del 1994, prima cioè della sua discesa in campo, della sua scelta di darsi alla politica. La caccia giudiziaria al Cavaliere ha inizio dopo quella data e, fatto da non trascurare, un avviso di garanzia del Pool e di Di Pietro contro l’allora Premier viene sbattuto in prima pagina durante una conferenza mondiale a Napoli, provocando la crisi del primo governo Berlusconi. Anni e anni dopo il Cavaliere veniva prosciolto da quel reato. Poco tempo dopo quell’ingiusto avviso, Di Pietro lasciava la toga, diventava ministro in un governo Prodi, poco dopo, senatore Pds nel Mugello. Dal fatale 1994, quando Silvio sconfisse la gioiosa macchina da guerra, non si conteranno più le perquisizioni a centinaia contro le sue aziende, gli avvisi di reato nei suoi confronti, le imputazioni, le chiamate in tribunale ecc. Notiamo, en passant, che con un altro avviso di garanzia nel 2008 fu colpito e affondato il governo Prodi nella persona del ministro Mastella. Qualche anno dopo fu prosciolto anche Clemente da quel reato. Nel frattempo, il Pm De Magistris che l’aveva accusato, abbandonava la toga diventando deputato europeo per il partito di Di Pietro. E ho detto tutto... (l'Opinione)

martedì 19 gennaio 2010

Puglie, alle primarie del centrosinistra i colleghi di Emiliano hanno già votato. Lodovico Festa

"Il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, è indagato per concussione".
Dice Carmine Festa sulla Stampa (19 gennaio).
I colleghi di Emiliano hanno espresso anche il loro voto per le primarie del centrosinistra pugliese. (l'Occidentale)

lunedì 18 gennaio 2010

Ordine o potere? Raffaele Iannuzzi


E’ notte. Non mi capita spesso di non avere voglia di gettarmi tra le coltri. E' raro. Ma qualche volta capita. Come stanotte. Allora, capita di seguire la bella trasmissione di Gianluigi Paragone, che appare alquanto tonico, e si parla di giustizia.

Ma se ne parla bene. Si parte da Fabrizio De André, che come pochi ha stroncato la violenza giudiziaria – la canzone “Il giudice”, recitata sommessamente da Paragone, parla più di molte chiacchiere di polemisti -, perché l’anarchico vero non vuole vedere manette e vessazioni da parte del potere, di qualsiasi potere. E la magistratura, in Italia, più che un ordine, è un potere. Bene. Alcuni testimoni parlano delle loro sciagure giudiziarie, gente innocente sbattuta in galera senza se e senza ma, una donna che scandisce, come il coro nella tragedia greca: “Non basta essere innocenti”…il solito caporione dell’associazione dei magistrati vattelappesca, ormai non le conto più e non mi interessa più la rubrica degli happening di lorsignori; il punto è un altro, anzi sono altri…alcune domande, banali se volete, da bambini, mi assaltano la mente (a proposito, mentre sto scrivendo, l’ennesimo cervellone se ne esce con questa genialata: “Bisognerebbe avere molta più fiducia nel diritto”, come dire: abbi fiducia nell’Umanità, non negli uomini…roba da matti…). Eccole, snocciolate, come vengono:
1. Perché io, cittadino semplice, normale, che paga le tasse e vive come molti altri, tra gli altri, nella pace, si spera, dovrei avere razionalmente – ripeto: razionalmente – fiducia nella magistratura? E poi: cosa significa avere fiducia in qualcosa di astratto, la Magistratura, al pari del Diritto? Come si può? Che valore razionale ha questo gesto? Si può avere fiducia nello Stato? Ma chi lo vede camminare per le strade lo Stato? E la magistratura chi l’ha vista soffrire, piangere, avere compassione? La storia passa e filtra nei cuori e nelle menti, si muove nel teatro di ogni giorno usando le gambe degli uomini, dunque, uomini che fanno i magistrati. Ma sono uomini come me e dunque sono fallibili, infatti falliscono, allora, come posso avere fiducia in loro a priori o a prescindere, come si usa dire tra noi cittadini di buon senso, normali, con famiglia a carico? Che c’entra tutto questo con la ragione normale e con il buon senso? Mai saputo e capito.
2. Io posso sbagliare e certamente, sbagliando, sarei sottoposto a censura, dovrei pagare, insomma ci sarebbero in ballo responsabilità vere, reali. Per i magistrati tutto questo non avviene. Stracitato il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, ma niente da fare, questi sbagliano, infilano nei gorghi più micidiali i cittadini, eppure niente. “Scusate, abbiamo sbagliato”. Anzi. Manco questo. Si marcia uniti e compatti: sì, siamo uomini, ma che c’entra? Giudicare è difficile. Appunto. Allora dovremmo avere più censure e inibizioni, invece, niet. Un regime linguistico, normativo, poliziesco. Capillare e deturpante. Il volto della democrazia, già solcato dalle rughe della storia, viene sottoposto ad ulteriore stress. L’ultimo, forse. Sì, la magistratura è anche un problema interno alla democrazia. O no?
3. Ultima domanda, la più sballata e straniante, se volete. Eccola. Ma perché i magistrati si devono associare tra di loro? Per quali finalità? Per ottenere cosa? Per favorire – come? – la giustizia? Ma non basta giudicare con giustizia e rettitudine, con imparzialità e criterio adeguato alle norme? No. Pullulano associazioni, sindacati, corporazioni di vario genere. No, non è una casta. E’ una rete di microfisica del potere. La Costituzione dice altro, parla di “ordine” e Cossiga li ha sempre definiti, i magistrati, come “vincitori di concorso”. Punto. Troppo poco? Appunto. Questo è il problema. Per “loro” è troppo poco. Ma non sarà troppo per la democrazia?. (il Predellino)

Segue il testo della canzone 'Un giudice' di Fabrizio De André (1976):

"Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura, ve lo rivelan gli occhi e le battute della gente, o la curiosità di una ragazza irriverente che si avvicina solo per un suo dubbio impertinente: vuole scoprir se è vero quanto si dice intorno ai nani, che siano i più forniti della virtù meno apparente, fra tutte le virtù la più indecente. Passano gli anni, i mesi, e se li conti anche i minuti, è triste trovarsi adulti senza essere cresciuti; la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo fino a dire che un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore toppo, troppo vicino al buco del culo. Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore che preparai gli esami. diventai procuratore per imboccar la strada che dalle panche d’una cattedrale porta alla sacrestia quindi alla cattedra d’un tribunale, giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male. E allora la mia statura non dispensò più buonumore a chi alla sbarra in piedi mi diceva Vostro Onore, e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio, prima di genuflettermi nell’ora dell’addio non conoscendo affatto la statura di Dio".

domenica 17 gennaio 2010

"Corruzione susseguente". il Foglio

Il 25 febbraio la Corte di Cassazione è chiamata a valutare il caso di David Mills, l'avvocato britannico condannato in Appello nell'omonimo processo milanese nel quale era coimputato con Silvio Berlusconi. La Corte dovrà esprimersi sul concetto di "corruzione susseguente", cioè l'invenzione giuridica che ha permesso l'estensione dei termini di prescrizione del reato. In sostanza la Corte di secondo grado, che ha comminato a Mills 4 anni e 6 mesi di carcere perché avrebbe ricevuto 600 mila dollari in cambio di testimonianze mendaci a vantaggio del Cav., ha stabilito che il reato di corruzione si sarebbe consumato nel 2000, data in cui Mills avrebbe avuto la disponibilità del denaro, anziché nel 1999, data della falsa testimonianza e della promessa di pagamento. Effetto? Il reato morto e prescritto viene mantenuto in vita fino al 2012, quanto basta a raggiungere il vero obiettivo: la sentenza in primo grado per il premier.
Come si è arrivati a questo? I togati di Milano devono aver pensato più o meno così: ci complicano le rogatorie, spuntano leggi retroattive, lodi, salvacondotti, legittimi impedimenti, immunità; dunque: a pirata, pirata e mezzo (ma è quello che pensa anche il Cavaliere). Convinti da un'intuizione fantasiosa del pubblico ministero, i giudici hanno reagito alla tattica corsara dell'onorevole e avvocato Niccolò Ghedini con simmetrico spirito ad personam: si sono inventati un reato che non c'è e che produce un paradosso: per i giudici, Mills è stato corrotto quando sua moglie ha ritirato i soldi in banca. Non regge all'evidenza. Per questo non sarebbe strano né scandaloso che Mills venga prosciolto. Quanto alla gauche giustizialista, dovrebbe ricordare che è solo il Parlamento a detenere il potere legislativo. Piaccia o non piaccia, è prerogativa dei rappresentanti eletti dal popolo quella di modificare le regole che invece i giudici devono applicare, talvolta interpretare, ma di sicuro non inventare.

sabato 16 gennaio 2010

Ciancimino e le milletrecento pagine dei verbali. Lino Jannuzzi

Le milletrecento pagine dei verbali degli interrogatori che da quasi due anni il figlio di Vito Ciancimino sta rendendo a tre e quattro procure ricordano e in effetti riprendono puntualmente le novecentosettantatrè pagine di un librone pubblicato nel mese di aprile del 1995, quattordici anni fa, e intitolato “La vera storia d’Italia: interrogatori,testimonianze, riscontri, analisi. Giancarlo Caselli e i suoi sostituti ricostruiscono gli ultimi vent’anni di storia d’Italia”, in pratica l’atto d’accusa che doveva servire a processare Giulio Andreotti e che è finito al macero già da molto tempo, molto prima che Andreotti brindasse, come ha fatto l’altro ieri, ai suoi 91 anni sibilando: ”Ce l’ho fatta”. In effetti i titoli dei giornali che ne hanno dato notizia sono gli stessi di quattordici anni fa, con il nome di Massimo Ciancimino al posto di quelli di Caselli e dei suoi sostituti: ”Ciancimino jr riscrive la storia d’Italia...Nei verbali depositati al processo Mori c’è di tutto: la cattura di Riina, l’omicidio Mattarella e persino la strage di Ustica... Nel covo di Riina carte da far crollare l’Italia... I verbali di Ciancimino... Ciancimino jr. rivela ai pm di Palermo... Dalle carte di Ciancimino jr. nuove accuse... I 22 verbali del figlio dell’ex sindaco ripercorrono i delitti degli anni ‘80 e arrivano a Moro...Il ruolo dei servizi segreti...”. Il figlio finge di riportare parole e opinioni e carte del padre,cerca di farsi ventriloquo del padre morto, che di lui non si fidava e niente gli diceva e lo legava con una catena sul letto, in effetti si fa ventriloquo dei pm delle procure, non fa che rispondere alle loro domande,dicendo sempre di “sì”. ”Questo documento fu fatto avere da Dell’Utri a Provenzano e Provenzano lo fece avere a suo padre?”, gli domanda il pubblico ministero. E il giovane conferma: ”Sì”.
La storia dei rapporti tra le procure e il figlio di Vito Ciancimino è un classico dell’agenda dei professionisti dell’antimafia. Vito Ciancimino, il “corleonese”, l’ex sindaco del sacco di Palermo, il primo democristiano finito in galera per mafia, muore di morte naturale nel suo letto, nella sua bella casa romana di via San Sebastianello alle pendici di Trinità dei Monti, tra il Pincio e Piazza di Spagna, il 19 novembre del 2002. Quello stesso giorno, il cadavere ancora caldo del padre, la procura di Palermo notifica al figlio Massimo l’avviso di reato per associazione mafiosa e gli chiede conto del “tesoro” del padre. Che Vito Ciancimino avesse messo da parte un bel po’ di “piccioli” guadagnati malamente e “ammucciati” con destrezza,anche all’estero, era scontato, e anche se nemmeno Giovanni Falcone,che lo aveva arrestato, era riuscito a metterci sopra le mani, Vito Ciancimino non ne faceva mistero, e anzi se ne vantava e persino davanti ai giudici: ”Signor pubblico ministero -disse in una famosa udienza del suo processo - nell’arco della mia vita ho guadagnato somme più del doppio di quelle che mi sono state sequestrate. Se ho conti all’estero mi chiede? Ma perché dovrei rispondere,per farmi sequestrare il resto?”.
Era il 1991, e dopo di allora nessuno ha più chiesto conto a Vito Ciancimino del suo tesoro. Dal 1991 al novembre del 2002, quando è morto, per più di dieci anni (ma era stato già arrestato nel 1980,ventidue anni prima di morire) Vito Ciancimino aveva vissuto prima in galera,poi al soggiorno obbligato, poi di nuovo in galera, infine a casa sua, e sempre sorvegliato speciale, e interrogato di continuo e chiamato a rispondere di tutto e di niente,ma dei piccioli non gli aveva più chiesto conto nessuno. Per cercare il suo tesoro,i professionisti dell’antimafia hanno aspettato che Vito Ciancimino morisse,e un attimo dopo hanno incriminato il figlio: “Non mi hanno nemmeno dato il tempo di seppellirlo - protestò Massimo Ciancimino - gli hanno fatto l’autopsia e me lo hanno restituito cucito in un sacco di juta. L’ho accompagnato al cimitero che aveva già l’avviso di reato in tasca”.
Nonostante che avessero in mano da anni dichiarazioni di “pentiti”che lo coinvolgevano negli affari di suo padre, hanno aspettato che suo padre morisse per contestargli le accuse e per incriminarlo. Perché? Perché Vito Ciancimino era “ingombrante” e custodiva ben altri segreti, ma di quelli che i professionisti dell’antimafia non volevano sentire, non ne tennero il minimo conto Caselli e i pm che lo interrogarono in carcere,non lo vollero nemmeno sentire quelli della commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante: ”C’è un movente occulto nell’omicidio di Salvo Lima - ha lasciato scritto Vito Ciancimino - un movente più prettamente politico che trascende gli interessi di Cosa Nostra e converge con essi. Sono certo che vi era qualcuno particolarmente ostile alla candidatura di Giulio Andreotti alla Presidenza della Repubblica, si tratta di colui che io penso potrebbe essere stato un ‘architetto’ del disegno politico che tramite l’omicidio di Salvo Lima e soprattutto le modalità eclatanti dell’uccisione di Giovanni Falcone aveva come obiettivo di far tremare l’Italia e di sconvolgere il Parlamento e di sbarrare la strada a Andreotti per poi processarlo. Io ho in testa il nome di questo architetto...”.
Per dieci anni nessuno a fatto niente per far parlare Vito Ciancimino e fargli pronunciare quel nome. E parallelamente nessuno gli ha più chiesto conto del suo “tesoro”, come se avessero voluto dirgli:goditi i tuoi piccioli e dimenticati dei tuoi segreti. E Vito Ciancimino si è tenuto i piccioli e i segreti,il suo vero tesoro. Finché è morto. Solo a quel punto,e immediatamente,ne hanno chiesto conto al figlio. Ma con uno scopo ben preciso,che tutto è meno che quello di incriminarlo seriamente e di portargli via i piccioli ereditati dal padre. Lo dimostra,se non altro, il fatto che il reato contestato a Massimo Ciancimino è stato mano a mano derubricato, hanno cominciato con il contestargli il 416 bis e l’associazione mafiosa,poi l’hanno derubricata nell’accusa di riciclaggio, sono discesi passo passo ad accusarlo di “reimpiego di soldi sospetti” e alla fine solo di “fittizia intestazione di beni”. Dopo tutta una serie di intercettazioni, perquisizioni e sequestri, hanno trovato un testamento di tre righe del padre che non dice niente del dove e del quanto dei piccioli e una scrittura privata, gli hanno sequestrato un appartamentino a Roma, un’automobile sportiva e una barca. Lo hanno arrestato soltanto nel giugno del 2006,quasi quattro anni dopo la morte del padre e il primo avviso di reato,lo hanno processato e condannato nel marzo del 2007 a 5 anni e otto mesi in primo grado,hanno cominciato a verbalizzare gli interrogatori del “testimonio-quasi pentito” nell’aprile del 2008, gli hanno ridotto la pena in appello nel dicembre scorso a tre anni e quattro mesi, dopo che Massimo Ciancimino ha “rivelato” non i veri segreti del padre, quelli che il padre aveva cercato invano di rivelare finché era rimasto in vita,ma ha soltanto riciclato, attribuendoli alle confidenze del padre, i teoremi della “vera storia d’Italia” scritta da Caselli e dai suoi sostituti, trasferendone la responsabilità da Andreotti e Lima a Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Con una sola novità: non c’è più Andreotti che va a Palermo a baciare Totò Riina, anche perché Riina è ormai in galera, ma c’è Marcello Dell’Utri che per conto di Silvio Berlusconi bacia Bernardo Provenzano. (il Velino)

La vendetta di Marco. Orso Di Pietra

Chi ha un po’ di memoria storica non dimentica quando Marco Pannella si recò intabarrato da un enorme loden scuro che sembrava il mantello di Dracula ad un congresso del Pci che si celebrava al palazzo dello Sport di Roma ed incassò una fischiata solenne da parte dell’intera platea imbufalita. E già che ci si trova non può neppure dimenticare di quando lo stesso Pannella bussò al portone della storia sede del Pci di via delle Botteghe Oscure e si beccò dal compagno portiere un sonoro sganassone. Chi ha questa memoria può meglio comprendere il vero significato della brillante operazione che ha costretto gli eredi dei fischiatori e del manesco portiere del Bottegone a fare propria la candidatura di Emma Bonino alla Regione Lazio. A Marco la vendetta piace fredda. Come le virtù (piatto tipico teramano) ! (l'Opinione)

giovedì 14 gennaio 2010

La Coop sono loro. Davide Giacalone

La Coop spia i dipendenti, che dovrebbero essere soci. Non me ne stupisco più di tanto, si tratta di una conferma: le cooperative non sono affatto cooperative, ma solo un travestimento per fare più soldi e pagare meno tasse. Che gli spioni siano pagati dai compagni amministratori non è stupefacente, visto che c’è una lunga tradizione di sfiducia reciproca, fra gli sventolanti la bandiera rossa. Significativo, però, che i compagni datori di lavoro spiino anche una sindacalista, dopo avere passato decenni a denunciare i “padroni”, rei, talora veramente, di chiedere informazioni sugli operai. Altro che informazioni, questi entravano direttamente nelle mutande.

Quel che Gianluigi Nuzzi ha descritto passa ora, per competenza, alla procura della Repubblica. Gli spioni del carrello, se si dimostreranno realmente tali (siamo inguaribili garantisti, mica come loro), avrebbero commesso un bel mazzo di reati. Magari sentiremo anche l’opinione del garante della privacy, dotato di una bussola particolare, di cui m’è sempre sfuggito il magnetismo. Ma quel che si accerterà in sede giudiziaria non cambierà in nulla la realtà che abbiamo davanti agli occhi: le cooperative non sono cooperative, ma società affaristiche fiscalmente camuffate.

E non basta. Vi propongo un esercizio: prendete la cartina d’Italia ed evidenziate le zone tradizionalmente amministrate dalla sinistra, che un tempo era comunista, quando ne erano orgogliosi e non s’offendevano a sentirselo dire; poi prendete un’altra cartina d’Italia, evidenziando le zone dove è più alta la concentrazione di quei supermercati che si definiscono, falsamente, delle cooperative; sovrapponetele, et voilà, il miracolo: coincidono. Ve ne propongo anche uno più complicato: prendete la prima cartina e sovrapponetela ad una seconda, questa volta evidenziando le zone dove le altre catene di supermercati sono meno presenti. Lo stesso miracolo: coincidono. Siccome non credo ai miracoli, spiego l’arcano: le amministrazioni compiacenti davano i permessi alle coop e li negavano agli altri, garantendo grandi profitti ad un’organizzazione guidata dai funzionari del proprio partito, che la consegnarono ai Consorte ed ai Sacchetti: quelli che “abbiamo una banca”, quelli che “siamo soci dei bresciani che scalano Telecom Italia”, quelli che “abbiamo cinquanta milioni all’estero, segretamente, ma ce li siamo guadagnati”. Oh yes.

E pensare che Palmiro Togliatti era contrarissimo alle cooperative, di cui irrideva gli ideali. “Capitale e lavoro nelle stesse mani”, roba da mazziniani romantici. Il tempo gli ha dato ragione: il capitale lo hanno usato per le scalate e il lavoro lo hanno spiato. Togliatti era contrario perché, giustamente, vedeva che l’ideale cooperativo e quello comunista non erano diversi, erano opposti. Eppure, nella Costituzione, si trova l’articolo 45, voluto dalle correnti del solidarismo cattolico, del socialismo umanitario e del repubblicanesimo operaio. Dice: “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata”. C’è un solo italiano, anche se di fede compagnarda, disposto a sostenere che la catena delle coop risponda a questi requisiti?

Se ci sono ancora dei dubbi, guardate la Unipol. Perché si chiama così? Perché nasce dall’idea di raccogliere tutte le polize assicurative stipulate dalle singole cooperative, che nel tempo si erano naturalmente rivolte a compagnie diverse, e di riportarle sotto un unico cappello, con un’Unica Polizza. Unipol, appunto. Ragionamento corretto, ma quell’unicità non serviva a potere avere condizioni migliori, bensì a far incassare i premi ad una società che potesse essere direttamente controllata dalle cooperative, e già questo era meno corretto. La mostruosità arriva con la quotazione in Borsa, quando si sollecitano i risparmiatori ad investire soldi propri portando ricchezza alla proprietà, che per oltre il cinquanta per cento, quindi in condizioni di controllo assoluto, è in capo ad una finanziaria che si chiama Finsoe, la quale, a sua volta, è posseduta per il 71% da Holmo, vale a dire da una società composta da cooperative, e per il rimanente 29 dal Monte dei Paschi di Siena, banca anch’essa contigua all’intreccio di potere finanziario e locale che fa capo al mondo che fu comunista. In questo modo, le mostruosità sono due: a. si chiama cooperativo un mondo che non lo è neanche a cannonate; b. si finanziarizza e quota un gruppo eterodiretto politicamente.

E questa grande forza deriva dalle cooperative di costruttori, attivissime nel settore degli appalti pubblici, da quelle dei produttori, chiamate a fornire i supermercati, e da questi ultimi, che rastrellano denaro con casse sempre attive. Che lo si faccia per solidarietà e senza fini di speculazione è una favola cui non credono neanche quelli che la raccontano. Ora sappiamo che lo si fa anche spiando i dipendenti, colpevoli, forse, di non apprezzare abbastanza gli ideali egualitaristici di chi si prende cura di loro, fin ascoltandoli ansimare al telefono.

mercoledì 13 gennaio 2010

Le opposte retoriche. Orso Di Pietra

Una volta si parlava di distensione realizzata a colpi di disarmo bilaterale. Cioè Krusciov rinunciava ai missili a Cuba e Kennedy toglieva quelli americani in Turchia. Poi gli Usa riducevano le testate nucleari e l’Urss faceva altrettanto e via di seguito. Con risultati che non saranno stati perfetti ma che sono serviti a mantenere la pace per alcune decine di anni. Alla base della distensione c’era la logica del bilanciamento delle rinunce. L’Impero del bene rinunciava a qualcosa a patto che l’Impero del Male facesse altrettanto e viceversa. Per questo è da accogliere con entusiasmo la proposta fatta da Pierluigi Battista a Vittorio Feltri a rinunciare a definire i neri con l’epiteto di negro. A patto, però, che Gian Antonio Stella la smetta di romperci le balle con la faccenda che gli emigranti italiani sono stati i negri dei secoli passati. Non se ne può più delle opposte retoriche! (l'Opinione)

E' la storia a vendicare Bettino. Giampaolo Pansa

Vedo che non poche eccellenze dell’ex Pci intervengono nel dibattito sul decennale della morte di Bettino Craxi. Sono due i motivi che li spingono. Il primo è la convinzione che la vicenda politica di Craxi sia anche la loro: una biografia che diventa autobiografia. Il secondo è la sensazione che la storia stia vendicando Bettino, con la rovina di quanti lo hanno combattuto.

Craxi è stato avversato dai comunisti subito dopo essere diventato leader del Psi, nel luglio 1976. Alle Botteghe Oscure sopportavano un solo tipo di socialisti: i subalterni al Partitone Rosso. Bettino non apparteneva a quella razza. Per questo finì all’istante sul libro dei nemici. Anche perché aveva una pretesa insopportabile per il Bottegone: rompere la diarchia tra Dc e Pci che paralizzava la politica italiana.

Nel 1978, durante il sequestro di Aldo Moro, lo scontro si fece brutale. Bettino voleva trattare con le Brigate rosse per salvare il presidente democristiano. Il Pci e la Dc scelsero la strada opposta. Craxi divenne la bestia nera dei comunisti. Ricordo che alle Botteghe Oscure lo giudicavano un bandito, un avventuriero politico, un individuo spregevole.

Nel luglio 1979, Sandro Pertini, da un anno al Quirinale, affidò a Craxi l’incarico di formare il governo. Ma il Pci disse subito di no. La Dc strillò che Pertini voleva fare un colpo di Stato. Persino i repubblicani, per bocca di Bruno Visentini, bocciarono il tentativo. Bettino fu costretto a ritirarsi.All’interno della Dc uno dei più ostili a Craxi si rivelò Ciriaco De Mita, leader della Base, corrente di sinistra. Prima ancora di diventare segretario, spiegò che il protagonismo socialista rischiava di “mettere in discussione la conservazione del regime democratico in Italia”.

De Mita fu eletto segretario della Dc nel maggio 1982. L’anno successivo, la Balena Bianca ebbe un tracollo elettorale. E in agosto Craxi riuscì a entrare a Palazzo Chigi. Guidava un pentapartito, ma l’alleato più potente, la Dc, seguitava a flirtare con il Pci. Tuttavia Bettino era un premier coriaceo. E nel febbraio 1984 varò il decreto sulla scala mobile, per ridurre il costo del lavoro e frenare un’inflazione galoppante.
Ancora una volta il Pci gli dichiarò guerra. Fu una stagione bestiale per la sinistra. La campagna contro di lui, guidata da Enrico Berlinguer, raggiunse vertici mai toccati. Il leader comunista disse alla Camera che l’ostinazione di Bettino rasentava gli “atti osceni in luogo pubblico”.

Nel giugno 1984, Berlinguer morì. Repubblica mi mandò ai funerali in piazza San Giovanni per chiedere alla base comunista chi voleva come successore di re Enrico. Dal sondaggio emerse un nome solo: Achille Occhetto. Il motivo? Tra i papabili, era il più antisocialista. La base indicava lui per la sua collaudata e viscerale avversione al Garofano.

La nomenklatura del Pci gli preferì Alessandro Natta. Anche “Capannelle” era un antisocialista di ferro. E coniò un’immagine razzista: la mutazione genetica di Craxi e dei suoi compagni. Diventati un’altra cosa rispetto alla sinistra, degli alieni impresentabili. Natta si dimise a metà del 1988 e il 21 giugno Occhetto diventò segretario del Pci. Senza attenuare la lotta continua contro Bettino, un politico dedito a “un gioco perverso”.

L’anno successivo, la storia cominciò a vendicare Craxi. Nell’autunno 1989 cadde il Muro di Berlino e l’Unione Sovietica andò gambe all’aria. Occhetto pensò di salvare il partito cambiandogli il nome. Ma emersero forti resistenze interne, insieme all’ostilità di Max D’Alema. Nel gennaio 1991, a Rimini, Occhetto vinse per un pelo il ventesimo e ultimo congresso del Pci, diventato Pds. E perse una quota importante del partito. Quella guidata da Armando Cossutta che diede vita a Rifondazione comunista.

Un anno dopo, era il febbraio 1992, cominciò il terremoto di Mani Pulite. Il Psi e la Dc vennero distrutti dall’inchiesta del pool giudiziario milanese sulla corruzione. La parrocchia di Occhetto, anch’essa gonfia di tangenti e di finanziamenti illeciti, si salvò per il rotto della cuffia. Ma la storia vendicò un’altra volta Bettino. Nel marzo 1994 Occhetto perse le elezioni contro Silvio Berlusconi. E fu costretto a lasciare le Botteghe Oscure, sostituito da D’Alema.

Due anni dopo, era il 1996, il Pds riuscì ad andare al governo, ma sotto il comando di un democristiano, Romano Prodi. Il Bottegone, ormai sulla via di diventare un Botteghino, fu costretto ad accettare come ministro dei Lavori Pubblici il magistrato che aveva guidato Mani Pulite: Antonio Di Pietro.

Tonino non possedeva ancora un partito, ma incuteva paura perché conosceva tutti i segreti di Tangentopoli. Per questo, nel novembre 1997, il Pds lo fece eleggere senatore dell’Ulivo nel collegio rosso del Mugello, in Toscana. Senza prevedere di portarsi in casa un nemico mortale. Destinato a rivelarsi tale con la fondazione di un partito personale, l’Italia dei valori.

Siamo ai giorni nostri. Il Partito Democratico, guidato dall’onesto cireneo Bersani, sta nella tempesta. Sconvolto dalla rissa per le candidature regionali. Minato dal correntone Veltroni-Franceschini-Bindi. Ricattato dal partito di Di Pietro. Il Pd non ha la forza di rompere con l’ex pm. Anche se ha il timore che Tonino possa rivelarsi il suo boia. Pronto a completare il lavoro lasciato in sospeso come inquisitore giudiziario.

Insomma, la storia continua a vendicare Craxi. Sino a che punto arriverà la vendetta? Questa è davvero una domanda troppo grande per il piccolo Bestiario. (il Riformista)

martedì 12 gennaio 2010

Ecco perché chiamiamo negri gli africani (e abbiamo ragione). Vittorio Feltri

Caro Pierluigi Battista, mi rimproveri garbatamente sul Corriere della Sera di ieri di aver ostentato per ben due volte il sostantivo negro in altrettanti titoli di prima pagina. L`ho fatto apposta. Volevo verificare le reazioni di quelli che rispettano i negri a parole - venite venite, siamo vostri amici e vi ospiteremo volentieri - ma non muovono un dito se poi gli immigrati sono ridotti in schiavitù, sottopagati, maltrattati e costretti a vivere come insetti. Ciò che sospettavo potesse avvenire è puntualmente avvenuto. Hanno criticato il vocabolo (convinti erroneamente sia offensivo) e, quasi fosse trascurabile, sorvolato sulla realtà che ho descritto assumendo una posizione netta: la colpa dei disordini a Rosarno non è dei clandestini ma di chi li ha chiamati qui apposta per sfruttarli, cioè i mafiosi con l`acquiescenza della popolazione. A parte questo, le argomentazioni che usi per condannare all`indice «negro» sono deboli. Non lo dico io, per carità, bensì Manlio e Michele Cortelazzo curatori del nuovo Dizionario Etimologico di Zanichelli, da cui fedelmente riporto: «Di recente negro "di razza nera" è stato proscritto, come denigratorio, ma senza un obiettivo fondamento come faceva notare il Vademecum di giornalismo a cura di Sergio Lepri ed altri, stampato nel 1992 per l`Agenzia Ansa». Andiamo a leggere cosa dice il Vademecum di Lepri: «Fino a qualche tempo fa la parola negro non aveva nessuna connotazione dispregiativa; poi, per influenza dell`inglese (che preferisce black a nigger) e del francese (che usa noire e non nègre) anche in Italia c`è chi sostiene che negro non sia un`espressione simpatica e che debba essere sostituito da nero (nonostante che nero sia servito e serva ancora a indicare l`estremista di destra): in attesa che l`uso risolva il problema, si potrebbe suggerire di usare negro come sostantivo e nero come aggettivo». Se mi consenti, poiché non mi garba di assoggettarmi alle mode anglofone e ai tic del politicamente corretto, continuerò a scrivere e dire negro (sostantivo) adottando i consigli di Lepri che tutto mi sembra tranne che negriero, come d`altronde non hanno fama di negrieri Manlio e Michele Cortelazzo. Anche perché se negli Stati Uniti è giustificato un senso di colpa nei confronti dei negri, e si sente la necessità di risarcirli a buon mercato chiamandoli neri (che sforzo), in Italia non abbiamo la coda di paglia ed è ridicolo tentare di importarla come fai tu e molti altri miei censori. Quindi, rassicuro te e i lettori del Giornale che seguiterò a stare coi negri e non coi neri, i quali, essendo estremisti di destra, mi sono antipatici. Una annotazione che dovrebbe tranquillizzarti. Se ti capitasse fra le mani La luna e i falò di Cesare Pavese, vai al secondo capitolo: «... La confusione e il baccano della piazza avrebbero mimetizzato anche un negro...». Giuro, è scritto proprio negro. E Pavese non era uno sporco reazionario. Infine vorrei sapere il tuo giudizio su Ragazzo negro, romanzo edito da Einaudi negli anni Sessanta, e scritto da Richard Wright, negro pure lui. Credimi, ci sono più negri in letteratura di quanti ce ne fossero a Rosarno. E non calcolo la geografia: il fiume Niger e la Nigeria sono da cancellare? E neppure tengo conto della politica: che ne facciamo di Toni Negri? E nemmeno della storia: come lo chiamiamo Costantino Nigra? (il Giornale)

lunedì 11 gennaio 2010

Fateci essere razzisti almeno allo stadio! l'Occidentale

Se ci avesse pensato un attimo, se – dopo quanto accaduto a Rosarno – non si fosse sentito di dovere di tirar fuori dal cilindro una chiara presa di posizione anti-razzista, forse il ministro Maroni avrebbe capito subito che la proposta di sospendere le partite nei campi di calcio dai cui spalti si levano corri razzisti è una proposta tanto inattuabile quanto assurda, nonostante il plauso immediato e generalizzato che ha ricevuto.

Inattuabile in primo luogo perché aprirebbe una serie di complicazioni, che nel corso dello svolgimento di una partita di calcio, non si possono tecnicamente sostenere. Come e a che punto può un arbitro decidere di sospendere una partita? Come può verificare se trattasi di cori razzisti e non di semplici provocazioni indirizzate a tutt’altro giocatore? E non basterebbe forse un uh-uh-uh diretto al calciatore di turno al momento opportuno per sospendere il risultato di una partita che appare del tutto compromessa?

Ma c’è un motivo in più che – da tifosi più che da commentatori– ci porta a ritenere un po’ fuori luogo queste prese di posizione. Lo sfottò, la presa in giro, persino l’insulto sono connaturati con qualcosa che non ha certo a che fare col fair play sportivo ma ha certamente a che fare con il tifo. Il tifo è come uno stato febbrile, che talvolta colpisce con una tale violenza da portare addirittura alla demenza. Che ci sia di mezzo un pallone oppure no. E allora, premesso che è fenomeno deprecabile quanto stupido qualsiasi manifestazione di razzismo, forse in questo caso vale la pena ripensare un po’ a tutta la questione.

Soprattutto perché il razzismo è un fenomeno che non può manifestarsi a corrente alternata. Se indirizzo ad un giocatore di colore di una squadra che non è la mia un coro discriminatorio ma lo risparmio al mio paladino di turno, non si tratta di razzismo, certo. Al più si tratta di un tifo antisportivo, quando non di stupidità generalizzata.

Per lo stesso principio, perché allora dagli spalti è possibile insultare le mamme o le mogli dei giocatori, bianchi o neri che siano? E non sarebbe forse il caso di sospendere partite in cui tutta la curva si alza in piedi levando cori del tipo:

“Genova puzza di pesce, c'avete il mare inquinato, bastardo blucerchiato, bastardo blucerchiato”, o “le toscane...puttane puttane puttane, e loro figli, conigli conigli conigli” o ancora “di lunedì che gioia grossa, pulisci il culo con la sciarpa giallorossa, oh africano che stai a guardare tu questa curva te la puoi solo sognareeeeeeeee...o lecce merda lecce lecce merda”, o la sempre cantata: “Napoli merda, Napoli colera, sei la vergogna dell’Italia intera”, e coro dicendo?

E allora sarebbe meglio adottare il buon senso come metro di giudizio.

Sarebbe il caso, ad esempio, colpire i colpevoli laddove di più sentono il colpo, magari adottando misure precauzionali, come interire l’ingresso allo stadio alle tifoserie razziste per un certo numero di partite. Scommettiamo – incassi a parte – che si raggiungerebbe in un solo turno di campionato molto più dell’effetto sperato dalla sospensione delle partiti.

E – sempre in base al principio di buon senso di cui sopra – risponderebbe ancora di più al raggiungimento dell’obiettivo la capacità non alzare troppo il livello della provocazione, come ha recentemente dimostrato di non saper fare una promessa del nostro calcio nazionale.

Meglio dimostrare sul campo le proprie capacità sportive e fuori dal campo quelle intellettive. E salvare almeno il calcio dal politicamente corretto.

venerdì 8 gennaio 2010

Ladri del tempo. A.C.

La clessidra di ognuno si svuota, ogni giorno, un granello alla volta.E’ la vita, non c’è niente da fare. Ma ci sono delle persone che ci possono togliere dalla nostra clessidra, intere palate di sabbia, svuotando la nostra vita, spesso senza motivo.
Sono i magistrati, che spesso agiscono da veri e propri ladri di tempo. “Adesso gli sequestriamo il cantiere per un paio d’anni, così impara”. Con questa semplice frase, pronunciata in una procura italiana, un rappresentante della casta dei giudici, può rovinare la vita di una persona.
Come? Rubandogli il tempo che gli resta da vivere.
Questa frase rappresenta infatti la vera pena che è nelle mani di certi giudici. Si, perché, il bene che i giudici gestiscono è proprio il tempo, il tempo che a ognuno di noi, a prescindere dalla sua età, resta da vivere. E lo fanno in due modi, sia con le condanne (e qui nulla da dire) sia, in modo più subdolo e insidioso, con la lunghezza dei processi. E qui da dire c’è tanto. Perché, occorre rimarcarlo senza falsa ipocrisia, la lunghezza del processo è l’arma migliore in mano ai giudici, l’arma cui devono tutto il loro potere. Ridurre la lunghezza dei processi ridurrebbe la giustizia a una delle componenti ordinarie della macchina dello stato. Senza i processi lunghi, i giudici sarebbero come Sansone senza capelli lunghi, ovvero privi forza, senza una importante forma di ricatto e di potere. Immaginate un processo veloce. Uno fa la denuncia, l’altro si difende, il giudice decide. Se a uno dei due la sentenza non va bene, ricorre.
Immaginate che tutto questo avvenga in un paio di mesi. In una condizione del genere a chi importerebbe niente del giudice? Invece oggi, con la minaccia dei tempi lunghi cui il cittadino è costretto, con i tribunali che lavorano solo al mattino, e nemmeno tutti i giorni, il giudice assume il ruolo di sacro sacerdote, colui che controlla il tempo della vita degli altri.Quando un pubblico ministero manda uno a processo, per lui non cambia niente. Quello è il suo posto di lavoro. Per lui è come dare un appuntamento in ufficio. Tanto il pm ci deve andare tutti i giorni (quelli, almeno, in cui lavora). Per la sua vittima, invece vuol dire lasciare il suo lavoro, spesso i suoi cari, sicuramente la sua vita.
Prendiamo il caso De Magistris, che ha costruito la sua carriera – prima mediatica, poi politica – su inchieste rivelatesi poi completamente prive di ogni fondamento. Per lui non cambiava niente, anzi ci ha guadagnato, nel frattempo, ha infangato il nome delle persone, le ha distolte dalle sue attività, gli ha rubato il loro tempo. E nessuno glielo può ridare. Nemmeno la Cassazione, quando non è impegnata nella redazione delle sue astruse sentenze. (il Predellino)

Crollano le accuse a Del Turco. Fabio Martini

Quel pomeriggio di metà luglio il Procuratore capo di Pescara Nicola Trifuoggi sembrò a tutti sinceramente convinto e convincente nel motivare la richiesta di arresto del presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco, di assessori e funzionari della sua Giunta: «Stavano distruggendo la sanità in Abruzzo», gli indagati sono «schiacciati da una valanga di prove», è dimostrato il pagamento di tangenti, «una barca di soldi, circa 30 miliardi di vecchie lire».

Grande fu l’effetto di quel tintinnar di manette: l’immediato infarto della giunta di centrosinistra e cinque mesi più tardi la vittoria del centrodestra alle elezioni anticipate. Sull’inchiesta si spensero i riflettori: le parole di Trifuoggi sembravano preludere ad un processo così ben istruito da poter essere rapidamente archiviato. E invece dal giorno degli arresti - era il 14 luglio 2008 - la Procura si è avvalsa per due volte della facoltà di chiedere una proroga delle indagini. In un anno e mezzo sono state disposte circa un centinaio di rogatorie internazionali alla ricerca di conti esteri o di società off-shore. Ma non un soldo è stato trovato e il pilastro dell’accusa resta, essenzialmente, la parola del «collaboratore» Vincenzo Angelini, il patron delle cliniche abruzzesi che dopo aver goduto per anni di trasferimenti miliardari da parte della Regione, ad un certo punto raccontò ai magistrati di essersi stancato dei ricatti dei politici.

Ma nel frattempo dalle carte del processo sono spuntate alcune sorprese: la Procura - nel richiedere il rinvio a giudizio degli imputati per reati gravi come la concussione e l’assocazione per delinquere - contestualmente ha dovuto depositare gli atti via via acquisiti. E sono emersi tre rapporti - uno dei Carabinieri, uno della Guardia di Finanza e due della Banca d’Italia - che fino ad oggi non potevano essere conosciuti dalle parti e che sembrano andare in una direzione diversa da quella dell’accusa. In un rapporto riservato i Carabinieri avevano chiesto l’arresto di Angelini e di sua moglie e quanto alla giunta Del Turco si dimostrava che non aveva favorito le cliniche private, ma avviato invece un drastico taglio alle richieste illegittime del loro patron.

E così, dopo un anno e mezzo, da qualche giorno a Pescara il vento è girato. A cominciare dal Pd, che finora mai aveva difeso la “sua” Giunta. Per il capogruppo consiliare Marco Alessandrini, figlio di Emilio, il procuratore ucciso da Prima linea, «il rapporto dei Carabinieri offre un punto di vista diametralmente opposto a quello cristallizzato negli arresti» e persino il prudentissimo Franco Marini, oggi in un’intervista al “Centro”, esce allo scoperto: «Dai documenti oramai pubblici è inconfutabile come la giunta Del Turco abbia agito con coraggio rispetto ai costi della sanità privata e che l’accusa si basi soltanto sulle dichiarazioni di Angelini».

Il citatissimo rapporto dei Carabinieri del Nas documenta una serie di truffe ai danni della Regione consumate all’interno delle cliniche convenzionate di Angelini, reati così gravi da indurre l’Arma a consigliare la reclusione del patron. E’ importante la data del rapporto: 16 giugno 2008. Un mese più tardi infatti scattano gli arresti: non per Angelini però, ma per Del Turco e per i suoi collaboratori. Cosa è accaduto per invertire il destinatario delle manette? Ancora poche settimane prima Angelini aveva dichiarato ai magistrati di non aver mai dato un soldo ai politici e, anzi, di essere stato massacrato dalla giunta Del Turco.

Poi, intuìto forse che per lui l’aria si stava facendo pesante, ha cambiato versione. Ha detto la verità? Oppure è vero il contrario? Lo stabilirà il processo e in quella sede gli imputati faranno valere anche un altro dato emerso dal rapporto dei Carabinieri: negli anni tra il 2005 e il 2007 la giunta di centrosinistra aveva tagliato drasticamente i fondi destinati alle cliniche di Angelini, sospettate di una gestione troppo “allegra”, con una decurtazione di circa 43 milioni di euro, quadrupla rispetto ad analoghi tagli disposti dalla precedente giunta di centro destra. Tra gli atti depositati dalla Procura, ci sono anche due rapporti prodotti dalla Banca d’Italia (tra agosto e ottobre del 2008) e dalla Guardia di Finanza (settembre 2008) che segnalavano movimentazioni di denaro «sospette», estero su estero, in particolare una con la quale Angelini pescò, non si è capito da dove, 3 milioni di euro per pagare gli stipendi dei propri dipendenti. (la Stampa)

giovedì 7 gennaio 2010

Di Pietro inizia la discesa. Aldo Torchiaro

Italia dei Vapori, potrebbero chiamarla. Già, perché non passa una settimana senza che ne vada in fumo una parte. Scissioni locali, abbandoni parlamentari, singoli addii: la lista dei fuoriusciti dalla lotta dipietresca si allunga continuamente. E sulle regionali, tra i tanti partiti nel caos, finisce per pesare sempre più l’incognita IdV. Il movimento di Di Pietro, che aveva visto lievitare le preferenze dal 4,4 per cento delle politiche del 2008 all’8 per cento del 2009, legge in controluce i segnali di una crisi imminente, che le divisioni interne amplificano e rimarcano. La crisi è però oggettiva, scritta nero su bianco in un sondaggio Crespi che riserva amare sorprese per l’ex pm di Mani Pulite: la flessione elettorale si accompagna ad uno sfarinamento generale, ad una libera uscita dei simpatizzanti verso altre formazioni, persino in campo avverso. Possibile? Pare di sì. Ha un bel dire, Di Pietro, che va tutto a gonfie vele. “L’Italia dei Valori non sta vivendo nessuna scissione, ne’ è affetta da ’correntismo’, per quanto ci sperino i giornali ed i nostri avversari. E’ invece vero che è finita la ’fase fluida’ dove ognuno, nonostante il pensiero del partito fosse più che noto, votava ora per l’acqua pubblica ora per quella privata”, ha dichiarato il Tonino nazionale. Tra tante acque il mulino è uno solo, par di capire, ed il mugnaio sempre lo stesso: lui in persona. Le seconde file non ci stanno e la guerra l’hanno dichiarata da un pezzo. Ma anche la prima fila traballa da un po’. Il caso di Pino Pisicchio, che ha abbandonato Idv per andare con Rutelli, non è che uno tra i più eclatanti, ma la serie è lunga. Il senatore Astore ha lasciato il Gabbiano per iscriversi al gruppo misto, a Palazzo Madama. Una “pupilla” del leader di Idv, la candidata alle europee Erminia Gatti, ha sbattuto la porta del partito in faccia al suo dominus con queste parole: “Se l’Idv è nata per combattere un certo modo di fare politica, arrivistico, opportunistico, clientelare, autoreferenziale, e poi giubilando apre le porte ai più illustri esponenti di quel tipo di politica che abbiamo avversato, io non ho il coraggio di tornare tra la gente e raccontare che cambieremo l’Italia”. Il diretto interessato, manco a dirlo, fa spallucce. “Ora il partito ha un programma chiaro che traccia una linea di demarcazione tra chi vuole seguire un pensiero politico e chi cerca una ’casacca per coltivare il proprio orticello”, si limita a dire. Ma la fotografia a colori di quel partito - che di ’colore’ ne produce sempre, e molto - mostra almeno quattro anime: una cabina di regia centrale, in mano a Di Pietro e quindi a Silvana Mura e Massimo Donadi.

Un’ala sinistra, egregiamente rappresentata da Barbato che dialoga con Beppe Grillo (a Bologna la sinistra di Italia dei Valori ha valutato, in un’assemblea pubblica, la separazione dal resto del partito); un’ala De Magistris in contiguità con Marco Travaglio e Michele Santoro, stilisticamente infastiditi da Di Pietro; infine un’ultima corrente di sottobosco, chiamiamola “provinciale”, che annovera esponenti locali finiti chissà perché in compagnia di Di Pietro, ex socialisti, ex leghisti, ex missini e democratici cristiani che hanno “colto l’attimo”, consci che gli attimi cambiano fulmineamente. Il loro elenco sarebbe lunghissimo, ma ai più sconosciuto. A confortare chi, tra i sondaggisti, prevede la destrutturazione completa del movimento giustizialista, un accurato rilevamento eseguito su un campione di elettori a Genova, che rivela vizi e virtù del popolo dipietrista non del tutto scontati. in un sondaggio curato dalla società di comunicazione “Ferrari Nasi & associati” emerge che per il 76,9 per cento degli elettori del partito “l’Italia dovrebbe impedire la costruzione di moschee, fino a quando non si potrà professare liberamente la religione cristiana anche nei paesi musulmani”. Nessuno dei dipietristi intervistati è indeciso, il restante 23,1 ritiene invece che bisognerebbe concedere comunque qualcosa agli islamici. Per avere percentuali leggermente più alte bisogna cercare tra i leghisti, per l’81,8 per cento dei quali il “no” deve essere secco in assenza di reciprocità. I dipietristi sono, ad esempio, sono ben più radicali degli elettori de “La Destra”, che solo per il 68,7 per cento non vorrebbero la moschea. Si scende al 60,5 per cento nel Pdl. E’ un dato marginale? E’ solo la provincia di Genova? Non consola: lo stesso Donadi ebbe a dichiarare di non poter iscrivere Italia dei Valori nel novero dei partiti di sinistra. E gli elettori, stando ai rilevamenti, uscirebbero infatti in direzioni diverse: andando a votare ora per La Destra, ora per la Lega, ora per i Radicali. Movimenti di protesta, si dirà, seppur distinti tra loro. E sia, ma non di elettori di sinistra si tratta. Forse ne è consapevole il senatore campano Giacinto Russo, che ha abbandonato Idv per transitare, via Rutelli, verso un futuribile approdo nel Popolo delle Libertà. (l'Opinione)

mercoledì 6 gennaio 2010

Gli imbroglioni di professione. Tiziana Maiolo

Gli “imbroglioni di mestiere” si stanno muovendo in questi giorni a lanciare allarmi sul fatto che a un boss mafioso di nome Giuseppe Graviano non sia stato rinnovato l’isolamento diurno allo scadere dei tre anni previsti dalla legge. E’ stato un premio al suo silenzio nel processo Dell’Utri, hanno gridato gli “imbroglioni di professione”.

Facendo finta di non sapere che:
1- La figura dell’isolamento diurno è una pena accessoria alla condanna ( l’ergastolo nel caso di Graviano ) e ha una durata massima di tre anni. Chi ne decide l’applicazione è solo la magistratura. Chi oggi strilla allo scandalo, sappia che sta attaccando i giudici, accusandoli di complicità, e nessun altro.

2- Si crea appositamente confusione con l’applicazione dell’articolo 41-bis del regolamento carcerario, un provvedimento deciso dal ministro di giustizia per detenuti particolarmente pericolosi e che ne limita i diritti nei rapporti con i familiari ( colloqui con i vetri eccetera ). Nel caso del boss Graviano l’articolo 41-bis rimane intatto nella sua applicazione.

Dove è dunque lo scandalo? Graviano era già ammesso alla socialità con gli altri detenuti, dopo tre anni di isolamento, fin dal mese di settembre. Essendo nel frattempo stato condannato ad altri due ergastoli, alcuni giudici ritenevano di applicargli nuovamente l’isolamento diurno. Altri giudici hanno deciso diversamente, applicandogli probabilmente l’istituto della “continuazione”. Normale dialettica processuale. E allora dove è lo scandalo? Si vuole insinuare che questi magistrati sono amici di Dell’Utri e di Berlusconi?
Il vero scandalo è che tra gli urlatori di questi giorni si distingua l’onorevole Antonio Di Pietro, leader dell’Italia dei valori. Questo è il vero scandalo. Si suppone infatti, avendo l’onorevole Di Pietro svolto a lungo l’attività di magistrato, che abbia appeso nel suo studio un bel diploma di laurea in giurisprudenza. Si suppone. (il Predellino)

martedì 5 gennaio 2010

Bettino dannato per sempre? Giampaolo Pansa

Nelle prime settimane del 2010 si parlerà a lungo di Bettino Craxi, per il decennale della scomparsa. Si è già cominciato a farlo e in due modi opposti. Il primo considera il leader del Psi soltanto un ladro e un latitante. Il secondo sostiene che il giudizio su di lui deve essere più ampio, non limitato alla sola vicenda di Tangentopoli. Anche perché, insieme al Psi, altri partiti vissero sul sistema delle mazzette o del finanziamento illecito. A cominciare dall’avversario più tenace di Craxi: il Pci, poi diventato Pds.
È innegabile che lo tsunami di Mani Pulite iniziò in casa socialista, il 17 febbraio 1992. Il primo politico arrestato fu Mario Chiesa, 47 anni, ingegnere, presidente del Pio Albergo Trivulzio, l’ospizio per vecchi a Milano. Al momento di essere pizzicato in ufficio, Chiesa teneva nel cassetto una mazzetta appena incassata: 7 milioni di lire in contanti. Una seconda tangente più robusta, 37 milioni, riuscì a gettarla nel water presidenziale.

Per il grande pubblico, Chiesa era uno sconosciuto. Pochi sapevano che era uno dei padroni del Psi ambrosiano. Controllava intere sezioni del Garofano e possedeva un pacchettone di tessere. Craxi commise l’errore di definirlo soltanto “un mariuolo”. Poi fece subito un altro passo falso. Parlando a Milano il 27 febbraio, disse: «Di fronte a episodi di corruzione come questo, mi viene un gran sconforto. Il fatto è grave, ma non può deturpare l’immagine socialista. A volte i partiti si trovano in difficoltà proprio come certe famiglie quando scoprono che c’è un ragazzo poco di buono».

Ma il pool dei magistrati non si fermò. A Milano cadde il Muro di Bettino, come lo chiamai sull’Espresso. La Sacra Famiglia Craxiana andò a gambe all’aria. E l’inchiesta si allargò ad altri partiti. Alla metà del giugno 1992 i politici indagati o arrestati nell’inchiesta milanese erano già trentanove, così suddivisi: 16 socialisti, 14 democristiani, 7 del Pds, 2 repubblicani. Di questi trentanove, i parlamentari in qualche modo coinvolti risultavano nove: 4 democristiani, 3 socialisti, uno del Pds e uno del Pri.
Il team giudiziario di Mani Pulite seguitò a marciare come un rullo compressore. Alla fine dell’agosto 1992, i politici arrestati o indagati erano diventati sessantuno. Ripartiti così: 26 democristiani, 23 socialisti, 8 del Pds, 2 del Pri e 2 del Psdi. Anche il numero dei parlamentari inguaiati crebbe a quattordici: 7 della Dc, 5 socialisti, uno del Pds e uno del Pri.

Già questi numeri ci ricordano quanto stava emergendo nella sola Milano, in un anno terribile segnato dagli omicidi di Lima, di Falcone e di Borsellino. Tangentopoli era il luogo della corruzione interpartitica. Alla fine, gli unici partiti estranei al sistema del finanziamento illecito risultarono il Msi e i radicali. Non certo il Partitone Rosso, ovvero il Pci-Pds, allora guidato da Achille Occhetto.
In seguito, per anni e anni, i dirigenti di quel partito, e i giornali che li sostenevano, si affannarono a convincerci che le Botteghe Oscure e le loro strutture periferiche erano più bianche del bianco. Ma non era vero. Il Pci aveva sempre vissuto anche di fondi neri. Non alludo soltanto ai continui finanziamenti dall’Unione Sovietica. Parlo di vere e proprie mazzette, spesso molto consistenti.
È un fatto storico che Enrico Mattei, il presidente dell’Eni, finanziasse anche il Pci. Lo stesso fece il suo successore, Eugenio Cefis. Per concludere con l’Urss una trattativa sulla fornitura all’Eni di gas siberiano, nel dicembre 1969 Cefis si accordò su una tangente per il Pci di 12 milioni di dollari. Dopo un versamento al Bottegone di un milione e 200 mila dollari, il resto fu pagato dall’Eni in rate annuali. Su un conto cifrato in Svizzera.

Come vedremo, la faccenda dei conti elvetici del Bottegone emergerà di nuovo con Mani Pulite. Ma prima vennero a galla le tangenti incassate dal Pds per la Metropolitana milanese, mazzette da centinaia di milioni. Poi quelle pagate dalla Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi per ottenere un appalto che riguardava l’Enel. Un miliardo e 250 milioni alla Dc e idem per il Psi. A quel punto anche il Pds pretese lo stesso bottino. E ricevette una prima rata di 621 milioni. Versata in Svizzera su un conto cifrato, con un nome in codice dal sapore domestico: “Gabbietta”.
Antonio Di Pietro chiese al capo della Calcestruzzi chi gli avesse indicato la banca e il conto cifrato. Lui rispose: Primo Greganti, già segretario amministrativo della federazione torinese del Pci e poi funzionario dell’amministrazione centrale del partito. Greganti, “il signor G”, venne arrestato, ma negò sempre: il conto Gabbietta era suo, non del Pds.

In seguito si scoprirono altri conti elvetici cifrati, maneggiati da dirigenti del Pci-Pds: il conto “Idea” e il conto “Sorgente”. Ma il Partitone Rosso fece orecchie da mercante. Nel febbraio 1993 Occhettò gridò: «Smentisco nel modo più categorico. Non abbiamo mai avuto conti in Svizzera!». Lo stesso sostenne Max D’Alema il 28 febbraio: «Niente conti in Svizzera. E non ci risulta in nessun modo che noi abbiamo chiesto o fatto chiedere tangenti ad alcuno o che ne abbiamo intascate». Poi D’Alema, per una volta fantasioso, parlò di provocazione e tirò in ballo i sempiterni servizi segreti nostrani.
Potrei continuare, ma il Bestiario ha uno spazio obbligato. Spero che le pochissime cose qui raccontate ci rammentino un vecchio detto: il più pulito ha la rogna. E ci aiutino a dare di Bettino Craxi un giudizio sereno. Non possiamo ritenerlo dannato per sempre. (il Riformista)

lunedì 4 gennaio 2010

Con lo scudo fiscale tre entreranno 1,4 miliardi necessari per le riforme. Giuliano Cazzola

E’ veramente difficile da comprendere l’ostilità, un po’ becera, con cui i partiti d’opposizione continuano a criticare lo scudo fiscale anche dopo che a tutti è evidente che l’operazione è riuscita ben oltre le aspettative.

Il rientro di 95 miliardi di euro consentiranno di avere a disposizione 4,7 miliardi di entrate (ovvero un gettito aggiuntivo maggiore di quello preso a riferimento nella legge finanziaria) da destinare – come prevede la legge stessa - alla riduzione della pressione fiscale nei confronti delle famiglie con figli e dei percettori di reddito medio-basso, con priorità per i lavoratori dipendenti e pensionati. Ulteriori entrate verranno dalla prima riapertura dello scudo (1° gennaio-28 febbraio 2010, con un’aliquota del 6%): è prevista un’emersione di 10 miliardi a cui corrispondono entrate fiscali per 600 milioni.

Con lo "scudo tre" (dal 1° marzo al 30 aprile, con aliquota del 7%) si ipotizza un’ulteriore emersione di 20 miliardi con ricadute fiscali di 1,4 miliardi.

Questi extragettiti potrebbero andare a sostegno delle imprese e di politiche attive del lavoro. Ovviamente non c’è da fare del trionfalismo: tutti sappiamo che si tratta di ingenti capitali esportati illegalmente. Giulio Tremonti è stato tanto onesto da evocare l’idea di un "male necessario". Ma il successo dell’operazione testimonia che l’intuizione era giusta. In nessun altro modo sarebbe stato possibile recuperare, in meno di un anno, risorse ingenti che serviranno a fornire liquidità alle banche (e quindi alla capitalizzazione delle aziende) e a rimpinguare le casse dell’erario, per finanziare, prioritariamente, quelle riforme che il presidente della Repubblica ha auspicato per il 2010 (a partire dal riordino degli ammortizzatori sociali).

Non è la prima volta che un Governo si è avvalso dello scudo per recuperare risorse senza fare ricorso al prelievo fiscale sui contribuenti onesti. Ma nessuna altra operazione ha mai conseguito il risultato di adesso.

Nel 2001 e nel 2003 (l’aliquota era del 2,5%) - con lo scudo uno e due - emersero 78 miliardi di euro e vi fu un extragettito per lo Stato di 2,4 miliardi. Va da sé che somme tanto ingenti non aspettano che torni al potere una maggioranza di centro destra per uscire dal Paese. Le responsabilità sono sicuramente bipatisan.

Il merito dell’attuale Governo è quello di riuscire a far rientrare questi capitali e non accontentarsi soltanto delle solite prediche contro l’evasione. Fenomeni tanto complessi non si possono contrastare facendo la "faccia feroce", minacciando a vuoto ritorsioni contro gli evasori o imponendo penali tanto poco convenienti da far fallire l’operazione in partenza. Non a caso le risorse recuperate costituiscono l’equivalente di quattro anni di lotta all’evasione. In proposito, occorre tener conto che non è sempre agevole recuperare quanto viene accertato dagli uffici. Ed è bene ricordare che il Governo è impegnato sullo scenario internazionale nel condurre una lotta ai paradisi fiscali.

Senza un’effettiva concertazione di iniziative e di obiettivi (in verità c’era maggiore impegno degli Stati quando ancora infuriava la crisi dei mercati finanziari) è difficile vincere questa battaglia. (l'Occidentale)

domenica 3 gennaio 2010

Guerra e simboli, colpire a Natale per colpire i cristiani. Stefano Zecchi

L’islam fondamentalista aggredisce i simboli della nostra civiltà, e noi ci allarmiamo ovviamente per l’attacco materiale mentre ci sfugge quello simbolico. L’attentato all’aereo per Detroit era stato programmato per il giorno di Natale: un aereo doveva saltare per aria nel nome di Allah. L’attentato è fallito; l’aggressione al fondamentale simbolo della cristianità rimane - anche se l’azione, cioè l’atto materiale, non ha raggiunto il suo scopo - come un gesto altamente significativo per quel mondo islamico che tanto ci odia.
Se noi volgiamo lo sguardo alle più clamorose iniziative terroristiche dell’islam (come a quelle apparentemente di minor rilievo) ci accorgiamo che innanzitutto l’attacco è rivolto a un simbolo dell’Occidente, a uno di quei simboli più detestati dal fondamentalismo islamico. Si pensi per esempio, alla distruzione delle Torri Gemelle newyorchesi, simboli della potenza economica americana, quella potenza che gli arabi considerano la prima ragione dell’imperialismo espansionistico occidentale.
Senza tanti giri di parole si è parlato di «guerra di civiltà»: la storia moderna ci insegna che una guerra non si ripete mai con le stesse modalità di quella precedentemente combattuta. Questa guerra di civiltà mette in campo un potenziale terroristico così ad ampio raggio che risulta difficilissimo da arginare. La politica degli occidentali non ama il concetto di «guerra di civiltà» perché non intende rinunciare alla mediazione, alla trattativa, alla ricerca dell’isolamento degli estremisti attraverso il sostegno dei moderati, sulla base di un principio essenziale: non è la nostra civiltà ad aggredire l’islam; sono le organizzazioni fondamentaliste islamiche ad attaccare l’Occidente.
E così noi porgiamo la mano nella comprensibile speranza di incontrare la pace. Siamo perfino disponibili a discutere se togliere o lasciare il crocefisso sulle pareti delle nostre scuole per non offendere il sentimento religioso degli islamici. Accettiamo la costruzione di moschee nelle nostre città, non ci turba il burqa; se un padre musulmano massacra di botte la figlia perché è innamorata di un cristiano siamo pronti a capirne le ragioni.
Siamo deferenti ai simboli della civiltà islamica, siamo indifferenti ai simboli che hanno costruito la nostra millenaria civiltà. A questo ci ha portato duecento anni di illuminismo con le sue idee di tolleranza e di uguaglianza. Un’idea fasulla di tolleranza ha minato le basi della nostra cultura, e in nome della fratellanza mondiale tra i popoli non siamo neppure riusciti a scrivere una Costituzione europea, perché la sola indicazione che la nostra civiltà sia fondata sulla tradizione giudaico-cristiana fa inorridire gli spiriti liberi, democratici ed egualitaristi.
Una civiltà tramonta non per le sue crisi economiche, ma perché distrugge e lascia distruggere i propri simboli. I simboli sono i riferimenti di significati intorno ai quali un popolo riconosce i propri valori. Se questi non vengono difesi, marciscono le radici da cui è cresciuto l’albero della civiltà. Oggi stentiamo perfino a riconoscere i simboli che hanno generato la nostra cultura, e riteniamo - per ben che vada - discutibile la loro difesa. Non amiamo la nostra tradizione, e per questo siamo vulnerabili. Crediamo che l’essere tolleranti, e quindi degni figli dell’illuminismo, ci renda superiori agli altri; in realtà ci rende passivi di fronte alle civiltà che credono nei propri simboli tradizionali.
Per noi, oggi, il Natale è una grande festa consumistica che affratella tutti nel nome del benessere. Per quel ragazzo islamico, che voleva far saltare per aria un aereo, il Natale è un simbolo cristiano che va annientato con il suo sangue e con quello di centinaia di innocenti. La giustizia occidentale dovrà essere tollerante? Non si scambi questa tolleranza con un segno di forza della nostra democrazia: la si consideri, piuttosto, una conseguenza delle fragili radici simboliche del nostro moderno Occidente. (il Giornale)