martedì 30 settembre 2008

Veltroni mobilita, mobilita, mobilita...e non sa perché. Carlo Panella

Le ultime apparizioni televisive e giornalistiche di Walter Veltroni lasciano allibiti. Non una proposta, non una sfida, solo insulti al governo e demenziali analisi sull’Italia ormai simile alla Russia di Putin (Leoluca Orlando rilancia e paragona con l’Argentina). La ragione di questa follia verbali sta è presto detta: tutto l’agire del leader del Pd è ormai finalizzato alla “storica” manifestazione del 25 ottobre e dunque, per mobilitare la piazza si ha da urlare, agitare, creare spauracchi, mostri, demoni, fare gli agit prop, insomma.
Nulla da stupirsi: è la vecchia logica del Pci, di Togliatti, Longo, Berlinguer, tanto bravi a demonizzare la Dc –e soprattutto il riformismo del Psi- quanto totalmente incapaci di proposte riformiste di governo.
Stupisce, però, che questa volta questo inutile delirio agitatorio avvenga in un clima di sbranamento totale –sembra quasi definitivo- dentro il Pd. Il mite Tonini è giunto ad affermare che il decisionismo putiniano di Berlusconi è nato con l’indecisionismo cronico e patologico del governo dell’Unione di Romano Prodi. Analisi acuta, ma che ha ovviamente creato un vero e proprio casino dentro il partito più incasinato d’Europa.
Il fatto è che il governo Berlusconi ha messo in un angolo tutte le componenti del Pd: ha eliminato l’Ici, ha ripulito la monnezza di Napoli e ora si prepara a fare quella gara tra Lufthansa e Air France per un’Alitalia da loro considerata ghiotto boccone –ma per una quota di minoranza- che Prodi per ragioni poco chiare –e forse poco pulite- non volle fare, quando avrebbe dovuto farla per cedere il controllo completo della società.
Non solo, il prudente e informato pessimismo di Tremonti, ha sinora tenuto al riparo l’Italia dai contraccolpi della crisi internazionale e questo mentre Velroni e Bersani avevano invece irresponsabilmente impostato la loro campagna elettorale promettendo un impossibile “miracolo italiano”.
Contro questi dati di fatto, Veltroni avrebbe davanti a sé due strade: sfidare Berlusconi sul terreno del governo, imponendogli un’agenda di riforme e di gestione della crisi economica che premino gli strati popolari e ammodernino effettivamente il paese; oppure, fare propaganda demonizzante.Il dramma è che Veltroni sceglie la seconda strada, perché non ha la minima idea di come percorrere la prima.

lunedì 22 settembre 2008

Fini assomiglia a De Gaulle, parola di neoconservatore. Giorgio Stracquadanio

«Fini non è assolutamente un fascista, né un neofascista. È un gaullista». A dirlo, qualche anno fa, è stato Michael Arthur Ledeen, uno degli animatori dell’American Enterprise Institute, il laboratorio dei neoconservatori washingtoniani e, soprattutto, autore, nel 1975, quando aveva trentacinque anni ed era professore di Storia, di quella Intervista sul fascismo a Renzo De Felice che aprì la prima vera riflessione profonda e non ideologica sul ventennio mussoliniano.
Non so se quel giudizio lusinghiero su Gianfranco Fini possa essere ripetuto oggi. Sicuramente non si può estendere a quanti si sono esibiti nelle polemiche sul fascismo, continuando a baloccarsi con il “grado di assolutezza del male” o con l’onore da rendere ai militari della divisione Nembo della Repubblica Sociale Italiana.
A più di trent’anni dallo splendido libro di Ledeen pubblicato da Laterza, le polemiche su fascismo e antifascismo tra destra e sinistra e nella stessa destra politica italiana dimostrano che, purtroppo, la lezione di De Felice non è penetrata nelle coscienze dei protagonisti della politica.

Tre acquisizioni

Qual è la sostanza del giudizio storico che diede Renzo De Felice del fascismo. Secondo Leeden sono tre le acquisizioni fondamentali del grande storico:
la prima è la distinzione tra Fascismo regime e Fascismo movimento: il primo con funzioni conservatrici, il secondo con forti aspirazioni di modernizzazione;
la seconda è la condivisione della radice ideologica tra fascismo e comunismo, l’esser entrambi figli di ideologie nemiche della libertà e del liberalismo. «Renzo – spiegò Leeden in un’intervista succesiva – ebbe il coraggio di dire, per la prima volta, che comunismo e fascismo in un certo senso avevano lo stesso codice genetico: erano figli della rivoluzione francese. E questa, che oggi tutti riconoscono una banale verità, era un’affermazione tremenda per la sinistra».

Un’affermazione che oggi diventa tremenda per una parte della destra che, evidentemente, fatica ad approdare alla cultura del liberalismo e al ripudio della sua matrice giacobina;
la terza acquisizione della lezione di De Felice è infine il consenso che il fascismo ebbe nel ventennio: «vorrei non fosse vero – è sempre Leeden a parlare – ma è la cosa più terribile del fascismo: è stato molto popolare». Un fatto che l’Italia intera dovrebbe riconoscere, comprendendo come la democrazia e la libertà non sono beni acquisiti per sempre. E che talvolta, per essere riconquistati, richiedono l’uso della forza, la guerra. Come quella degli anglo-americani a cui dobbiamo la nostra libertà. Senza di loro gli antifascisti non sarebbero andati da nessuna parte.
Purtroppo nulla di tutto questo si è sentito in questi giorni. Sicuramente non da Alemanno né da La Russa. Ma nemmeno da Fini. Tutti sembrano essersi formati alla storiografia retorica dell’antifascismo dell’Anpi. Sembra paradossale, ma è la destra italiana ad aver sepolto lo storico che ha posto le basi culturali per la sua legittimazione democratica. (il Domenicale)

domenica 21 settembre 2008

La vendetta della realtà. Massimo De Manzoni

Dopo essersi inventati tutto l’inventabile, pur di accusare il governo di razzismo hanno arruolato anche la camorra. Il difficile confine, davanti al quale persino l’Unità, Liberazione e il manifesto si sono (a malincuore e con qualche inciampo) arrestati, l’ha attraversato con assoluta disinvoltura la Repubblica, che su questo terreno ormai ha scavalcato a sinistra lo stesso Caruso. Così, la mattanza di Castelvolturno, diventa prima una «strage degli innocenti condannati dal colore della loro pelle» per poi assurgere rapidamente a simbolo, «una vendetta della realtà contro le semplificazioni del format di governo». «La realtà», leggiamo, «ci racconta che il nero non è il nemico: è la vittima innocente, l’assassino non è l’immigrato ma l’italiano». Di qui la logica conseguenza: «Vengono alla luce l’inconsistenza, i trucchi, il furbo conformismo di una politica che sa soltanto eccitare e inseguire le paure». Fino al lapidario: «E allora perché meravigliarsi se i Casalesi possono pensare di fare una strage di neri solo per ammazzarne uno?».Ricapitoliamo: una banda di feroci camorristi, già autori di decine e decine di omicidi, spara davanti a una sartoria e uccide sei immigrati africani. Forse è un regolamento di conti nel mondo dello spaccio di droga, forse la «punizione» per il mancato pagamento del pizzo. Sul movente le indagini sono in corso, ma i cantori delle procure quando gli fa comodo delle procure se ne fanno un baffo e quindi: «vittime innocenti». E, intendiamoci, è possibilissimo che sia così. Ma allora «vittima innocente» anche l’italiano, proprietario di una sala giochi, che era stato ucciso venti minuti prima dalla stessa banda, no? Non si sa, per Repubblica non esiste: avrebbe un po’ guastato la tesi.Già, perché non bisogna dimenticare che la strage è stata compiuta per il colore della pelle ed è maturata nel clima xenofobo creato dal governo: insomma, quei feroci criminali, lo capite, mai e poi mai si sarebbero azzardati ad aprire il fuoco senza il consenso di Maroni. Lo avevano già fatto in passato? Non contro gli immigrati. Certo, avevano sparato tra la folla, uccidendo «per sbaglio» anche persone che non erano direttamente loro bersagli, ma erano italiani. Vero, avevano colpito anche donne incinte: per esempio due giovani napoletane. Sì, tra gli ammazzati di mafia e camorra ci sono stati anche ragazzini che passavano di lì per caso, ma si chiamavano Stella (12 anni), Annalisa (14), Gaetano (16). Sicuro, tra le loro vittime senz’altro innocenti si annoverano anche bambini di due o tre anni. Ma non importa, questa volta è diverso. Il premier è Berlusconi, quindi vai col razzismo, vai con la «vendetta della realtà contro il governo». E pazienza se nell’azione resta ucciso anche il buon senso.La realtà, quella vera, racconta altre cose. Per esempio, per bocca del vescovo di Capua, Bruno Schettino, parla di «settemila africani su trentamila abitanti in 27 chilometri di terra di nessuno». La realtà suggerisce che sul litorale domizio c’è il problema dei nigeriani: «Gente intelligente ma dedita alla droga e alla prostituzione».
La realtà ti sbatte in faccia che «spesso ci sono frizioni con la popolazione, il processo di integrazione è molto lento e difficile, coniugare solidarietà e accoglienza è complicato». La realtà urla di «un’emergenza sociale e morale ed ecologica», della necessità di «ricreare un tessuto umano ridotto a brandelli».
Ecco, anziché narrare la favoletta dei clan sensibili agli umori della maggioranza, forse è il caso di ripartire da qui: da un degrado che in queste zone pare inarrestabile qualunque sia il governo in carica e sul quale la criminalità organizzata gioca come sempre le sue carte di morte senza guardare in faccia nessuno. Il vero problema è questo. Ed è più che probabile che neppure Berlusconi sarà in grado di risolverlo. Può essere un limite, persino una colpa. Ma non è razzismo. (il Giornale)

venerdì 19 settembre 2008

Il capitalismo e la politica. Piero Ostellino

Dalla comparsa del Manifesto del Partito comunista di Karl Marx (1848) a oggi, il capitalismo ha attraversato una decina di crisi, le più gravi delle quali sono state quella del 1929 e la crisi odierna. A ogni crisi, i nemici del capitalismo ne hanno annunciato la fine e ne hanno attribuito la causa al mercato.

Che, poi, vuol dire all'avidità dei capitalisti. Si sono invocati maggiori interventi dello Stato nell'economia, regole più stringenti al mercato. Che, poi, vuol dire più potere a chi governa, sia sul processo di accumulazione sia nell'allocazione delle risorse. Con misure congiunturali — tanto, secondo il detto di John Maynard Keynes, «alla lunga saremo tutti morti »— le falle, nel '29, erano state temporaneamente chiuse. Ma poiché, nel frattempo, non tutti erano morti, a quelli che sono rimasti vivi — che, poi, voleva dire l'economia soffocata dagli eccessi di spesa pubblica (deficit spending) e da troppe regole— hanno di nuovo dovuto provvedere il capitalismo e il libero mercato, con le deregolamentazioni e le privatizzazioni di Ronald Reagan, di Margaret Thatcher e persino di Tony Blair.

Il capitalismo non è crollato, mentre sono crollati, o si sono a esso convertiti, i sistemi negatori del mercato e a direzione politicamente centralizzata dell'economia. Poiché una buona regola — anche quando si parla di economia e persino di politica — dovrebbe essere quella di attenersi rigorosamente ai fatti, questo è il primo fatto di cui sarebbe bene tenere conto anche oggi. Il capitalismo e il mercato rimangono il «modo» migliore per produrre (e consumare) ricchezza. Tutti gli altri sono falliti. Ma è anche un fatto che la crisi del 1929 e quella attuale del sistema finanziario americano siano dovute al mercato e all' avidità dei capitalisti? La vulgata corrente, sui media come fra la classe politica, è che lo siano. Invece, come ha scritto Angelo Panebianco ieri sul Corriere, se ci si attiene ancora una volta ai fatti non è così.

La crisi del 1929 e quella attuale si assomigliano almeno in una cosa: che a produrre entrambe è stata la Federal Reserve, cioè la massima autorità finanziaria pubblica. Nel '29, con una politica monetaria troppo restrittiva; oggi, con una politica monetaria opposta, troppo espansiva. In entrambi i casi, in base a un pregiudizio culturale e a un interesse politico. Il pregiudizio: che la politica monetaria sia una variabile politica, mentre a determinare il tasso di interesse (il costo del denaro) non dovrebbe essere, a proprio piacimento, un'autorità pubblica «esterna» (la Federal Reserve), ma dovrebbero essere le preferenze «interne» dei cittadini, che è, poi, la spontanea dinamica della domanda e dell'offerta di denaro (il mercato).

L'interesse: tassi di interesse troppo alti o troppo bassi, e tenuti tali troppo a lungo, sono rispettivamente lo strumento attraverso il quale una moneta nazionale (il dollaro ieri) cerca di imporre la propria forza nel mondo e uno Stato indebitato (gli Usa oggi) riduce il servizio del debito. Che, infine, un eccesso di liquidità abbia finito (anche) col dare alla testa agli speculatori è un altro fatto incontrovertibile, come lo sarebbe rinchiudere in una cantina ben fornita di vino un bevitore di professione. (Corriere della Sera)

mercoledì 17 settembre 2008

Quelli che con uno di destra non si mangia. Michele Brambilla

Il giornalista del manifesto Alberto Piccinini sabato scorso ha passato una bella serata. Potrebbe non fregarcene di meno se non fosse stato egli stesso a rendere pubblico l’evento con un articolo uscito ieri sul suo giornale; e se il motivo del suo godimento non fosse sintomatico dell’aria che tira.
Piccinini era andato in trattoria con la sua compagna Valentina, e a un certo punto sono entrati - anche loro per mangiare: mica per altro - alcuni ragazzi di Azione Giovani, appena usciti dalla lì vicina festa di Atreju. «Valentina si è alzata», racconta Piccinini, «e ha fatto la mossa di andarsene. Sapete come sono le ragazze: una volta non gli va bene il tavolo, l’altra volta hanno il mal di pancia. Stavolta no: mi sono alzato anch’io, ho pagato il mezzo conto e via. Fuori abbiamo preso un acquazzone da fine del mondo. Però che bella serata».
Ma sì: meglio tornare a casa bagnati fradici e a digiuno piuttosto che cenare non dico alla stessa tavola, ma nello stesso ristorante, non dico con dei fascisti, ma con dei ragazzi, insomma, di destra.
L’episodio ne ricorda un altro, celeberrimo e sicuramente ancora impresso nella memoria di molti nostri lettori. È lo stesso Piccinini a fare il collegamento: «Ai primi di giugno del 1971, Giorgio Almirante si fermò all’autogrill Cantagallo, sull’A1. Al grido di “né un panino né una goccia di benzina”, camerieri e benzinai lo fecero ripartire a bocca asciutta e serbatoio vuoto». Fece tanto clamore, quel fatto, da essere immortalato da due canzoni: una, di Piero Nissim, attaccava così: «L’altro giorno sull’autostrada/ sul versante che porta a Bologna/ viaggiava un topo di fogna/ affamato voleva mangiar»; l’altra, del Canzoniere delle Lame, rivelava il seguito: «... fu così che schiumante di rabbia/ se ne andò la squadraccia missina».
Sarà un caso, ma l’orgogliosa replica dell’eroico incrociar le braccia del Cantagallo segue di pochi giorni un’altra replica: quella di Adriano Sofri sul delitto Calabresi. Così come Sofri ripete oggi quel che aveva scritto nel 1972, e cioè che uccidere Calabresi fu un atto di giustizia, il manifesto scrive che i topi di fogna non andavano serviti allora all’autogrill e non vanno tollerati oggi sotto lo stesso tetto. Anche se non portano più la camicia nera, anche se il loro leader ha appena fatto l’elogio dell’antifascismo.
È strano: Sofri e il manifesto avevano dismesso da anni certi toni, ma ora c’è una parte della sinistra che sembra subire una sorta di regressione. Una sinistra come ad esempio quella di Caruso che parla di gambizzazioni, una sinistra che rispolvera il tristo linguaggio degli anni di piombo: la giustizia proletaria, il terrorismo di Stato, i fascisti che non devono parlare e neppure mangiare.Però a volte nei giornali la grafica gioca brutti scherzi. La rubrica di Piccinini stava proprio sopra un articolo contro il razzismo. Essere antirazzisti vuol dire saper accettare il diverso, ed è difficile immaginare che chi accetta il diverso per colore della pelle non accetti il diverso per idee. Ma oggi «non si vive più come persone, in questo Paese, non più come individui, ma come appartenenti a sottocategorie (...) si sta facendo strada una catastrofica tendenza alla semplificazione. Non solo il concetto democratico di cittadino, ma anche quello cristiano di persona vanno sbiadendo, perché richiedono la faticosa elaborazione di un giudizio caso per caso, di un rapporto umano che sappia distinguere e sappia scegliere. Sappia guardare negli occhi, un paio di occhi per volta e solo quelli. Il giudizio all’ingrosso è più comodo e rapido, leva di mezzo l’incombenza di rapportarsi al prossimo, cancella scrupoli etici e fatiche umane». Sapete chi ha scritto queste parole? Michele Serra, ieri su Repubblica. Le ha scritte contro i razzisti. Ma sono buone, buonissime, anche per chi preferisce un acquazzone a un piatto di fettuccine con vista sul nemico politico. (il Giornale)

venerdì 12 settembre 2008

Una notizia per Giannini. Orso Di Pietra

Nessuno ama dare una cattiva notizia ad un altro. Se uno non è un sadico e non ha motivi particolari per colpire o ferire, evita sempre di comunicare a chiunque notizie che possono causare dolore. Ci sono dei casi, però, in cui si deve avere il coraggio di fare piangere. E questo è uno di questi. Per cui è con profondo dispiacere che comunichiamo a Massimo Giannini, brillante editorialista e vicedirettore de “La Repubblica”, che se si mettono insieme il “il pezzo di destra berlusconiana”, il “pezzo di destra post-fascista” ed “il pezzo di destra leghista” non si riproduce una situazione balcanica ma si forma la maggioranza degli elettori italiani. E’ la democrazia, caro Giannini, e non ci puoi fare niente. Tranne che fartene una ragione! (l'Opinione)

lunedì 8 settembre 2008

Con Fannie e Freddie l'Alitalia non c'entra. Alberto Bisin

Ieri è stato annunciato il piano delle autorità finanziarie statunitensi per portare sotto il controllo del governo federale due importanti società finanziarie, conosciute come Fannie Mae e Freddie Mac. Il piano configura un intervento senza precedenti per dimensione e rilevanza. Queste società infatti posseggono o garantiscono quasi metà del mercato dei mutui negli Stati Uniti, un enorme mercato di circa 12 bilioni di dollari. Si stima che l’operazione costerà ai contribuenti alcune decine di miliardi di dollari.

Anticipando l’intervendo del governo degli Stati Uniti, nei giorni scorsi molti commentatori in Italia non hanno lesinato commenti del tipo: mentre gli Stati Uniti, patria del liberismo, salvano dal fallimento Fannie Mae e Freddie Mac, in Italia ci si lamenta per il salvataggio di Alitalia. Oppure: il libero mercato è insostenibile, prova ne sia che anche gli Stati Uniti... e via di seguito.

Il parallelo tra il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac e quello di Alitalia, per quanto forse superficialmente naturale, è a ben vedere inconsistente.
Più in generale, la crisi di Fannie Mae e Freddie Mac non adduce certo munizioni ai paladini dell’intervento dello Stato nell’economia. Proviamo a fare chiarezza.

Prima di tutto, la crisi del mercato finanziario ed immobiliare negli Stati Uniti ha reso purtroppo inevitabile il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac. Il loro fallimento avrebbe con ogni probabilità significato una riduzione dell’offerta di credito e un crollo dei valori immobiliari senza precedenti, con un associato grave inasprimento della recessione. In contrasto, Alitalia è fallita senza gravi ripercussioni macroeconomiche. Il governo italiano in effetti non ha operato alcun «salvataggio», ma ha piuttosto garantito ad una nuova compagnia privata condizioni di monopolio sulle rotte interne che sarebbero altrimenti state coperte da altre compagnie in condizioni di concorrenza.

Ma come si è arrivati alla crisi di Fannie Mae e Freddie Mac e di Alitalia? Qui sta l’unico possibile parallelo. Le perdite di Fannie Mae e Freddie Mac, come quelle di Alitalia, sono dovute alla protezione dalla concorrenza di mercato loro concessa dai rispettivi governi. La vicenda di Alitalia è tristemente nota: gestione il più possibile protetta dalla concorrenza, condizioni contrattuali sopra mercato per i dipendenti, e management dipendente dalla politica hanno significato continue ed ingenti perdite regolarmente socializzate.

Vale la pena di ripercorrere invece in qualche dettaglio quelle delle due società americane. Fannie Mae e Freddie Mac operavano fino a ieri come società private, quotate in Borsa. La loro origine è però pubblica. Fannie Mae è stata creata nel 1938 dal governo per rendere liquido il mercato secondario dei mutui. Ha operato in condizioni di monopolio fino alla fine degli Anni 60, quando è stata privatizzata e Freddie Mac è stata fondata dal Congresso per garantire una qualche forma di concorrenza nel mercato. Nonostante entrambe le società fossero private dagli Anni 70 in poi, la loro origine pubblica ha fatto sì che esse ricevessero notevoli vantaggi ed esenzioni fiscali, stimate in circa 6,5 miliardi di dollari l’anno. Ma soprattutto, l’origine pubblica delle due società ha fatto sì che esse godessero di una generalmente riconosciuta «implicita garanzia pubblica». Questa implicita garanzia si è manifestata nella loro capacità di indebitarsi ad interessi passivi vicini a quelli pagati dal governo federale americano sul debito pubblico; interessi quindi notevolmente inferiori a quelli pagati da qualunque altra società privata. Un esempio da manuale di quello che in Italia si chiama privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite.

Naturalmente, ogni società che operi in regime di socializzazione delle perdite tende a prendere rischi eccessivi e decisioni inefficienti purché avvantaggino l’azionariato di controllo e il management. Fannie Mae e Freddie Mac non sono eccezioni a questo proposito. Fino alla crisi dei mercati finanziari e immobiliari del 2007 (che non hanno saputo prevedere e che hanno sottovalutato), Fannie Mae e Freddie Mac si sono ingrandite indebitandosi enormemente, hanno arricchito un management fallimentare, hanno generosamente remunerato i propri azionisti, e hanno ripetutamente commesso falso in bilancio. Freddie Mac ha addirittura violato la legge sui finanziamento elettorale nel tentativo di guadagnarsi l’appoggio del Congresso.

Le vicende di Fannie Mae e Freddie Mac e di Alitalia dimostrano solo che società cui sia garantita la socializzazione delle perdite finiscono inevitabilmente per fare grosse perdite. Questo è vero negli Stati Uniti come in Italia. (la Stampa)

domenica 7 settembre 2008

Perché pace fa rima con commercio. Carlo Stagnaro

L'insospettabile Massimo Nicolazzi se ne esce, sull'Occidentale, con un articolo di una semplicità disarmante, che tutti quelli che in queste settimane hanno scritto di Georgia, Ossezia, Russia, Europa e altra mercanzia del genere dovrebbero leggere e mandarsi a memoria come l'Ave Maria. Semplifico: ai russi i soldi piacciono e servono, non meno di quanto a noi piaccia e serva il gas. Finché questa equazione regge, il rischio di una guerra, fredda o calda, è marginale. E' la conseguenza della legge di Bastiat - dove passano le merci non passano i cannoni. Ne segue che, se vogliamo essere ragionevolmente certi che i cannoni se ne stiano dove sono, non dovremmo applicare politiche di sganciamento dal gas, perché in questo modo ridurremmo i costi della guerra (calda o fredda). Supero Nicolazzi a destra (o a sinistra): se questo è vero, e lo è, allora l'obiettivo della politica europea, e a maggior ragione della politica energetica nazionale per chi ce l'ha e se la può permettere, non dovrebbe essere salvarci dai missili russi, ma garantirci un mercato energetico efficiente e ben funzionante. Tutte le strade portano a liberalizzare. (Realismo energetico)