sabato 29 novembre 2008

Da Mumbai a Washington. Davide Giacalone

L’India è un gigante economico in rapida crescita. Al contrario della Cina, è una democrazia, sebbene con caratteristiche non certo europee. Quattro religioni sono nate qui: l’Induismo, il Buddismo, il Giainismo ed il Sikismo. Nessuna di queste è incompatibile con lo sviluppo capitalistico, hanno, insomma, meno problemi di noi, figli, a vario titolo, della Bibbia. Fino all’inizio degli anni novanta è stato il più grande Paese fra i “non allineati”, vale a dire che ha sviluppato l’arma atomica in positiva relazione con l’Unione Sovietica. Con la fine dei due blocchi, l’India si è concentra sulle riforme ed ha imboccato la via della ricchezza.Il Paese è martoriato dal terrorismo. Solo quest’anno, e prima dell’attacco a Mumbai, i morti erano già più di 200. Essendo quasi tutti indiani, dalle nostre parti ce la sbrigavamo con una foto della strage. L’impressione è che, adesso, stiano parlando con noi, o, meglio, stiano rivolgendosi a Washington. La risposta non la vogliono da Singh (premier indiano), ma da Obama. Due elementi depongono in tale senso. Primo: gli obiettivi sono stati scelti apposta per parlare al mondo, concentrandosi su alberghi e cittadini stranieri. Secondo: la quantità dei morti è in linea con la media passata e la qualità militare dell’attacco non è poi così raffinata. Sono in tanti, lanciano bombe e sparano con i mitra nei luoghi affollati, è un lavoro all’ingrosso, per niente sofisticato. Semmai è la reazione indiana ad essere inefficiente.
Visto che si firmano Mujahidin, quindi mussulmani, la mente corre ad Al Quaeda ed al nemico storico, il Pakistan. Ma questo Paese confinante è stato alleato degli occidentali nel far partire la guerra in Afghanistan, ed in quel momento gli statunitensi dovettero governare il rapporto con l’India, divenuto interlocutore affidabile da quando si dedica più ai soldi che alle bombe. Quindi, non solo le due matrici non si sovrappongono, ma se il coordinamento parte dal Pakistan, non lo si deve certo a chi amministra i buoni rapporti con l’occidente. E’ chi vuol far saltare tutto in aria, chi soffre il clima di collaborazione, a porre oggi il problema ad un Obama che persegue la continuità in politica estera: chi scegli, come rispondi? Non mi meraviglierei se i kalashnikov non fossero l’unica cosa d’origine russa.

venerdì 28 novembre 2008

Il senso del denaro. Lucia Annunziata

Un po’ di conti: se una famiglia guadagna 500 euro al mese, un dono mensile di 40 euro costituisce quasi il 10% di aumento del suo reddito.

Sputateci sopra! Molto fastidiosa, perché molto snob, la discussione sollevata dall’introduzione della Social card. Si è sentito di tutto: «Umiliante elemosina», «tessera annonaria», «beffa». «Misura irrisoria e paternalista». Definizioni eccessive, e perfetto esempio di come la polemica a tutti i costi spesso non fa bene all’opposizione e non lede il governo.

Provo a partire dalle critiche fin qui mosse al pacchetto anticrisi che il governo dovrebbe approvare: si dice che 80 miliardi sono pochi per un vero intervento, sono ancora tutti sulla carta e in più i soldi realmente disponibili sono in parte già impegnati, come quelli per il Sud (i fondi Fas). Più sostanzialmente il pacchetto è criticato tuttavia per il suo approccio: esaminate da vicino, le sue misure sono più di difesa contro il peggio che un vero stimolo economico. La mancanza di un intervento diretto sulle tredicesime, per far sì che davvero i consumi vengano rilanciati nel critico periodo di Natale, è un buon esempio simbolico di tutti questi limiti.

Sono critiche condivisibili, che per altro sembrano avere un’eco nello stesso governo, se è vero quel che si legge delle tensioni dentro l’esecutivo intorno a un intervento prima di Natale, e se si leggono bene le dichiarazioni del premier sulla necessità di avere più risorse a disposizione, grazie anche alla leggera flessibilità sui parametri arrivata dall’Europa. Ma - ecco la vera domanda - perché respingere (ridicolizzare) le misure che contiene di una qualche efficacia? Ad esempio: lo spostamento del pagamento dell’Iva al momento in cui si incassa non è certo un forte intervento di detassazione, ma non è anche un piccolo sollievo? Ancora: se gli ammortizzatori sociali vengono estesi anche a lavoratori precari e irregolari, si può dire giustamente che questi fondi non sono sufficienti per tutti coloro che si troveranno in difficoltà, ma bisogna per questo respingere quelli che arriveranno a pochi?

Lo stesso vale per la Social card. Non mi è chiaro che cosa ci sia esattamente da criticare. È dedicata specificamente «agli ultimi degli ultimi», a quel milione e mezzo di poveri irreversibili - vecchi, donne sole con bambini, famiglie prive d’ogni prospettiva - gli stessi la cui esistenza Prodi denunciò, facendone la base dei suoi interventi più immediati. La Card è per definizione un piccolissimo gesto di sostegno sociale e se anche fosse la piccola carità dei capitalisti compassionevoli, non sarebbe per questo da respingere. Su qualche giornale (centrodestra e centrosinistra) si sostiene che questi interventi deludono la classe media, ma i fondi dedicati a questa assistenza avrebbero avuto ben piccolo impatto su quel che serve per la classe media. Mentre per i veri poveri, per chi guadagna 500 euro al mese, anche 40 euro in più fanno una differenza.

L’impressione è che al centro della discussione sulla Social card ci sia un vuoto di consapevolezza su che cosa sia la povertà. Non la povertà «percepita» di una società che diventa progressivamente più immobile, né quella della classe media che deve ridefinire il suo stile di vita, e neanche quella di una classe operaia che deve drasticamente ridurre anche i consumi essenziali. Parliamo di poveri veri, che per metà vivono con quello che hanno, per l’altra metà vanno alle mense pubbliche; di coloro per cui a Natale andare a mangiare un pasto decente (e servito) alla Comunità di Sant’Egidio fa tutta la differenza del mondo. Questa la gente che a volte ruba una mela nei supermercati o che nei supermercati con dignità compra una mela e una scatola di pelati a prezzi scontati. E anche chi sta meglio di loro - e che non avrà la Social card - non vive con molto di più: la pensione di un operaio che ha lavorato quarant’anni è fra 700 e 800 euro, e uno stipendio nel nostro Paese è di 1200-1500 euro.

Questo è il senso del denaro che hanno i cittadini comuni. Per ognuno di loro 40 euro sono un mese di carica per il telefonino del figlio o una sera fuori a cena, o la spesa di una settimana. Per quelli davvero poveri 40 euro sono il consumo mensile di elettricità, la differenza fra riscaldarsi o meno. Inoltre, queste persone non hanno vergogna di avere nelle mani una carta che ne attesti la condizione di povertà: i veri poveri sanno di esserlo e conoscono già l’umiliazione di mettersi in fila alle mense, o di chiedere ai figli qualche lira in più. Una carta probabilmente porta loro almeno un senso di considerazione da parte degli altri. Sono poi stati così terribili i «food stamp» kennediani? Erano certo più dei 40 euro della nostra carta, e come questa sono stati discussi: i neri d’America ne sono stati umiliati ed esacerbati, ma ne sono anche stati aiutati in uno dei peggiori passaggi della loro storia.

Attenzione, dunque, a non parlare per chi non ha la nostra stessa condizione e la nostra stessa voce. Quelli che «con 40 euro si comprano tre caffè e le sigarette» probabilmente non si rendono conto dell’ammontare di privilegio che è contenuto in questa frase. (la Stampa)

martedì 25 novembre 2008

Tale Veltroni, tale Raciti. L'uovo di giornata

E' proprio vero: i giovani guardano i grandi e imparano. Più li frequentano e più li imitano. Accade che, lontano dai riflettori che contano, i giovani del Pd abbiano eletto il proprio segretario attraverso delle primarie nazionali. Nel vedere come è stato gestito il tutto Veltroni sarà senz’altro soddisfatto, si stanno seguendo le sue orme.

Il nuovo segretario è Fausto Raciti, siciliano, ventiquattro anni, da anni impegnato con la sinistra giovanile. Pupillo di Walter. Come avviene tra i grandi, le trattative di palazzo davano il fanciullo segretario giovanile già da un pezzo. Ma serviva l’incoronazione popolare. Per dirla in politichese: l’incoronazione doveva arrivare attraverso una grande festa della democrazia. Che bravi questi giovani, litigano come i grandi, agiscono secondo logiche da prima repubblica, sparano cifre come i loro ministri ombra e quando si tratta di primarie seguono le orme paterne. Il Movimento giovanile cresce seguendo gli insegnamenti di Walter e dopo queste primarie in salsa giovane ne abbiamo chiara la conferma.

Ecco un primo indizio: le cifre. Di Ufficiali non ce ne sono ma, secondo altre stime, “ufficiali” solo tra virgolette, a votare sono stati 121.623. Tanti? Pochi? Va a sapere. Ma per Walter sono stati tanti ben più dei francesi iscritti al partito socialista che hanno partecipato al ballottaggio tra Royal e Aubry! E scusate se è poco, viene da aggiungere. Tutto sembrava andare per il verso giusto, secondo appunto la walter strategy, quando, è proprio il caso si dirlo, a rompere gli inciuci nel paniere, è arrivata Giulia Innocenti, coetanea di Raciti, e proveniente dai radicali. La fanciulla rischiava di mandare a carte quarantotto tutta la pantomima delle primarie giovanili. Mentre la base giovanile beveva il frullatone delle primarie e della grande festa di democrazia i leaderucci del movimento si facevano gli affari loro. In ordine dalla base militante in buona fede sono stati denunciati: caos durante lo spoglio delle schede, zero seggi nelle zone dove la Innocenti era più forte ( un solo seggio a Palermo, contro i quarantadue dei comuni della provincia), palesi inviti da parte degli scrutatori a votare Raciti, voti per Raciti arrivati via mail e chi, addirittura ha votato telefonicamente.

Insomma ognuno ha cercato in qualche modo di partecipare alla grande festa della democrazia. Ecco perché erano “più dei francesi iscritti al partito socialista che hanno partecipato al ballottaggio tra Royal e Aubry!”In Francia si sa, le feste non finiscono mai a tarallucci e vino. (l'Occidentale)

sabato 22 novembre 2008

La politica dell'effimero. Arturo Diaconale

Una volta era la manifestazione al Circo Massimo. Adesso sono le elezioni in Abruzzo. Successivamente saranno quelle europee di primavera o qualche altro accidente occasionale. Di sicuro c’è sempre un qualche pretesto per il segretario del Pd Walter Veltroni per contraddire la presunta vocazione riformista del proprio partito e cavalcare l’onda massimalista alla ricerca del risultato immediato. Si tratta di realismo politico? Quello che impone ad un leader di non perdere mai di vista gli avvenimenti che si susseguono giorno dopo giorno ed impongono una attenzione che spesso può spingere a derogare dalla strategia di fondo? Niente affatto. Si tratta di un vero e proprio metodo. L’unico che Veltroni conosce e sa applicare. Quello di subordinare i principi alle occasioni. E, di conseguenza, di puntare sempre e comunque sull’apparenza del momento piuttosto che sulla sostanza del lungo periodo. Il caso più vicino ed emblematico è quello dell’atteggiamento assunto dal segretario del Pd a proposito dell’incalzare della crisi economica. Di fronte al moltiplicarsi dei segnali della tempesta che rischia di sconvolgere il paese, Veltroni ha lanciato al governo la proposta di aprire rapidamente un tavolo a Palazzo Chigi tra i rappresentanti di tutte le forze politiche e sociali per un confronto sul modo migliore per fronteggiare il pericolo. In apparenza l’iniziativa è di buon senso.

E sembrerebbe dimostrare che la volontà di dialogo del segretario del Pd non si è affievolita in questi mesi di dure polemiche tra maggioranza ed opposizione. Nella realtà, però, non è affatto così. Perché subito dopo aver sollecitato al governo l’apertura di un confronto per fronteggiare la crisi, Veltroni non solo ha ripercorso tutti i provvedimenti economici varati nei mesi scorsi dal governo bocciandoli senza possibilità di appello uno per uno. Il ché può essere anche legittimo per un leader dell’opposizione che deve comunque marcare la differenza e la distanza con la maggioranza. Ma ha aggiunto anche una stoccata finale diretta personalmente contro il Presidente definendolo un “uomo del conflitto e della contrapposizione”. Cioè uno con cui non è possibile realizzare alcun tipo di confronto. È contraddittoria la posizione di chi chiede l’apertura del dialogo e contemporaneamente esclude che questo dialogo possa mai iniziare o produrre risultati, visto che il proprio interlocutore principale è “uomo di conflitto e di contrapposizione”? Per ogni persona di buon senso è sicuramente così.

Per Veltroni, invece, no. E non perché non abbia buon senso, ma perché il suo modo di fare politica è totalmente imperniato sulla contraddizione. Il suo, in sostanza, è il “ma anche” portato a sistema. Si chiede il dialogo “ma anche” s’insulta bloccandolo in partenza. E via di seguito. A dimostrazione e conferma che il segretario del Pd non ha un principio stabile a cui ancorare la propria azione, che potrebbe essere indifferentemente il dialogo o la lotta. Ma gioca sull’uno e sull’altro con assoluta indifferenza, alla ricerca non di una strategia a cui ancorare il Pd. Solo dell’occasione del momento per conquistare un titolo sui giornali o un passaggio in Tv. Chi ricorda l’esperienza di Veltroni in Campidoglio sa bene che questa è la strategia politica dell’effimero. Che produce le piazze piene nelle notti bianche, ma, alla lunga, provoca le urne vuote alle elezioni. Per il Pdl è una assicurazione sul futuro. Per il Pd una jattura (l'Opinione)

Il peccato originale. Augusto Minzolini

Una fissazione. Una tentazione irresistibile. Per i politici la Rai è inevitabilmente l’oggetto del desiderio. Un comportamento paradossale visto che non mancano argomenti più importanti in questi tempi di crisi economica. E, invece, mamma Rai si ingoia tutto, catalizza l’attenzione, diventa il pomo della discordia o un terreno di dialogo. In questa legislatura è accaduto subito. Walter Veltroni pose il problema Rai nel primo incontro che ebbe a quattr’occhi con il Cavaliere dopo le elezioni: avrebbe potuto parlare di tante altre cose, ma in quei venti minuti il leader del Pd si occupò soprattutto dell’azienda del suo cuore. Dopo sei mesi siamo al punto di partenza. Basta pensare che due giorni fa per spingere il centro-destra a boicottare il presidente eletto alla Commissione di vigilanza, quel Riccardo Villari che sta facendo impazzire Veltroni, il centro-sinistra ha cominciato un’azione di ostruzionismo sul «decreto salva-banche» su cui aveva dato già il suo ok. Un atteggiamento, per usare un eufemismo, a dir poco discutibile. In questi giorni è successo anche di peggio: i presidenti delle due Camere, nel lodevole tentativo di sbloccare la situazione, hanno chiesto a Villari di dimettersi invitandolo ad anteporre le ragioni politiche a quelle giuridiche che, invece, gli consentirebbero di restare al suo posto.

Ora il prima «buttiglioniano», poi «mastelliano», quindi «mariniano» Riccardo Villari può essere considerato una vittima o un furbone, ma in ogni caso l’iniziativa presa dai vertici istituzionali crea un precedente pericoloso. Le alte cariche, infatti, sono tali proprio perché sono garantite da regole giuridiche che consentono loro di essere al di sopra delle parti. Ebbene, subordinare queste regole alle opportunità politiche un domani potrebbe diventare imbarazzante: ad esempio, mutando il rapporto tra Pdl e Pd, qualcuno potrebbe chiedere a Fini o Schifani di lasciare il posto a un esponente dell’opposizione, facendo appello al loro senso di responsabilità, per aprire una nuova fase politica. Insomma, anche questa volta la Rai ha provocato una lunga serie di guai. I problemi, però, nascono sempre da un nodo politico irrisolto. La vicenda, infatti, poteva essere liquidata già un mese fa, c’era l’ipotesi di un accordo equanime che maggioranza e opposizione avrebbero potuto accettare magari turandosi il naso: l’opposizione avrebbe dato il via libera all’elezione di Gaetano Pecorella alla Consulta; Berlusconi avrebbe accettato obtorto collo l’elezione di Leoluca Orlando, che non gli ha mai risparmiato nulla in termini di accuse verbali, alla presidenza della Commissione vigilanza Rai. Invece, alla fine l’intesa è saltata: Veltroni - spinto da Antonio Di Pietro - ha posto un veto su Pecorella per la Consulta e Berlusconi è stato costretto a cambiare candidato; poi, il leader del Pd - convinto da Di Pietro - ha trasformato il nome di Orlando in un’icona senza alternative. Messa così, Berlusconi non avrebbe mai potuto accettare insieme un «veto» e un’«imposizione» di Di Pietro via Veltroni. Per cui siamo arrivati allo scontro e allo «showdown» sulla Rai che il Cavaliere avrebbe sicuramente evitato, non fosse altro perché qualcuno gli avrebbe ritirato o gli ritirerà fuori (Nanni Moretti docet) la solita questione del conflitto d’interessi. Insomma, un lungo elenco di errori. Troppi. L’accordo su Sergio Zavoli è stato siglato tardi. Magari tra qualche giorno la situazione sarà raddrizzata. Magari i commissari del centro-destra, come quelli del centro-sinistra, decideranno - scommette il veltroniano Goffredo Bettini - di non partecipare ai lavori di una Commissione di vigilanza presieduta da Villari. Magari quest’ultimo, abbandonato da tutti, si dimetterà pure. Resta, però, un problema politico irrisolto che produrrà altri guai visto che la politica non sarà precisa come la matematica ma ci si avvicina. Tutto questo «caos» nasce dai limiti di leadership di Veltroni e dalle contraddizioni della sua linea politica. Per dialogare con profitto i capi dei due schieramenti debbono rappresentare una leadership riconosciuta: in queste settimane Berlusconi promuoverà ministro della Salute Ferruccio Fazio, e al Turismo Michela Brambilla, e nessuno tra i suoi alzerà un dito: per Veltroni, invece, ogni intesa, ogni nomina si trasforma in un calvario, tutti ne contestano le decisioni. Ma è soprattutto la linea politica che è piena di ombre. Il «ma anche» veltroniano può essere applicato a tanti argomenti, ma non si può dire: dialogo con Berlusconi, ma sono anche alleato con il campione dell’«anti-berlusconismo» Di Pietro. È una posizione spericolata, foriera di incidenti di cui però ora Veltroni è rimasto prigioniero: il congresso del Pd è virtualmente aperto, si concluderà alle elezioni europee e Veltroni per sopravvivere, per raggiungere l’agognata soglia di salvezza del 30%, non potrà lasciare troppo spazio a Di Pietro sulla sua sinistra, dovrà coccolarselo. Contemporaneamente se Veltroni non romperà definitivamente con l’ex magistrato neppure le magiche doti diplomatiche di Gianni Letta potranno dare un senso al dialogo. Forse Zavoli farà il presidente della commissione di Vigilanza, ma inevitabilmente subito dopo si aprirà una polemica sul presidente Rai in attesa di uno scontro su qualcos’altro. È successo di nuovo ieri sulla giustizia. A un possibile accordo seguirà comunque una rottura. Così il leader del Pd continuerà a mordersi la coda fino alle Europee. Sulla Rai e non solo. (la Stampa)

martedì 18 novembre 2008

I pidocchi nella criniera del cavallo. Peppino Caldarola

La minaccia è chiara. Se Villari, inteso come Riccardo, non si dimet­te, sarà cacciato dal Pd. Villari, per ora, non si dimette. L’abominevole termine «espulsione» torna a svolazzare sopra le teste dei dirigenti del Pd. Due settimane fa sembrava toccasse alla Binetti. Oggi a Villari. Doma­ni chissà. Il partito «più moderno» della sinistra torna ai riti sacrificali e ca­tacombali dell'antico movimento operaio. È un bel tuffo indietro. Di molti decenni.
L’ultimo Pci, bistrattato e dimenticato, non espelleva più nessuno. Neppure cadeva nella tentazione delle formazioni correntizie di espellersi l'una con l'altra. Nell'ultimo Pci, e nei partiti succedanei, potevi entrare e uscire. Chi parlava di espulsioni veniva additato come un'anticaglia, un pazzo furioso che non capiva i nuovi tempi. In effetti il Pci antico di espulsioni ne aveva fatte tante. L'ultima, clamorosa, quella che ha segnato anche l'attuale ge­nerazione al comando del Pd, colpì i redattori del "manifesto". Da Pintor, a Rossanda, a Natoli, a Lucio Magri, a Valentino Parlato. Quel Pci ebbe il pudore di graduare la pena e promulgò dapprima la radiazione, poi li cac­ciò. Inattività frazionista era il casus belli. Un partito diviso in ingraiani e amendoliani aveva fatto un'icona del simulacro dell'unità e quegli intellettuali antisovietici (ma filocinesi) non potevano essere sopportati. Un sofferente Natta decretò la cacciata. Giuseppe Chiarante, Lucio Lombardo Radice e il gio­vane Fabio Mussi furono gli unici ad opporsi. Nessuno dei coetanei di Mussi seguì l'e­sempio del giovane livornese. Né fra i tanti "destri" del Pci, oggi liberal, si levarono voci contrarie.
Anche quella fu una prima volta dopo tan­to tempo. Dopo, per capirci, Bordiga, caccia­to in quanto bordighiano, Tresso Leonetti e Tasca in quanto trockisti. Era toccata l'infamia anche a Ignazio Silone, che fu, dopo la morte, riabilitato come precursore. Ci fu l'episodio, che pas­sò alla storia con la nota definizione di Togliatti sui «pidocchi nella criniera del cavallo», che vide fuori gioco Aldo Cucchi e Valdo Magnani, quest'ultimo poi rientrato e di­ventato leader delle cooperative. Cucchi e Magnani segnarono un'epoca, il loro movimento, di tipo socialdemocratico, venne nominato «magnacucchi» e vi militarono personaggi come Lucio Libertini e Rino Formica. Venne buttato fuori dal partito di Napoli Eugenio Reale, ex ambasciato­re a Varsavia, per «deviazionismo borghese». L'espulsione su cui calò un lungo silenzio fu quella di Pier Paolo Pasolini, cacciato prima degli anni 50 dalla federazione comunista di Pordenone, per omosessualità. Il dissenso, anche nei comportamenti personali, veniva sanzionato sempre con l'al­lontanamento. Spesso l'allontanamento veniva sanzionato ex post dall'e­spulsione. Un militante che lasciava la tessera non andava via, punto e basta. Regolarmente, dopo l'uscita, veniva espulso. Il partito era così oc­chiuto che controllava la vita privata dei dirigenti. Un importante segretario di federazione pugliese del Pci venne trasferito perché aveva un'amante. Ma si cacciava anche l'erba cattiva. È il caso di Luigi Cavallo, giornalista assoldato dalla Cia che venne buttato fuori a Torino dove rimase e fondò un sindacato giallo. Due membri del gruppo dirigente del Pci, nei primi an­ni settanta, furono allontanati dopo una rapida seduta segreta del Comita­to centrale perché infiltrati dalla Cia. Si chiamavano Stendardi e Ottaviano. Persino Mani Pulite fece la sua vittima, quel Guido Caporali che, coinvolto nello scandalo delle "lenzuola d'oro", fu allontanato in fretta e furia. Espulsioni clamorose e espulsioni silenziose. Un rito sommario, il decreto e l'allontanamento dalla vita della famiglia comunista. Dopo l'espulsione, l'infamia. L'espulso era bandito, i compagni non lo salutavano più, i suoi amici erano emarginati, la colpa si estendeva alla famiglia e alla discen­denza. «Il partito si rafforza epurandosi» aveva proclamato quel grande leader con i baffi (baffoni, che avete capito?) e la minaccia pendeva sul capo di tutti ogni volta che qualcuno pronunciava la frase bandita: «non sono d'accordo». Poi venne il bel tempo. Il partito si vergognò di questa carneficina di dissidenti e circolò sangue nuovo. Il comunismo italiano, in­vecchiato e ingrigito, divenne liberale e tollerante. Il dopo Pci fu una sta­gione di libertà del dissenso assoluta. Ora col Pd si torna indietro. È come a Caporetto. Se il soldato o l'ufficiale fuggiva o criticava o andava per un'altra strada veniva fucilato. Fu la crudele linea di difesa di un generale incapace, Cadorna. Anche lui nel Pantheon dei fondatori del Pd? (il Riformista)

venerdì 7 novembre 2008

Informazione a senso unico. Andrea Camaiora

Riprendiamo dopo diversi mesi a seguire quanto avviene sugli organi di informazione. Due sono i filoni tematici sui quali vale la pena di riflettere: la bufera scatenatasi intorno alla riforma della scuola e l'agenda politica generale, con al centro la diatriba infinita per la presidenza della Commissione di Vigilanza Rai. Per quanto riguarda la scuola meritano di essere evidenziati la linea del gruppo Finegil-L'Espresso e del Sole 24 Ore e il ruolo fazioso e accanito svolto da AnnoZero. Il gruppo Finegil (ne fanno parte tra gli altri Il Tirreno, La Nuova Venezia, La Gazzetta di Mantova, ecc...) ogni giorno fa da cassa di risonanza di ogni manifestazione di protesta contro il governo e ciò è anche comprensibile nella grande provincia italiana, dove bastano poche decine di studenti rumorosi a fare notizia.

Ciò che lascia perplessi è che non sia stata pensata né ieri, né oggi, una campagna locale di contro informazione utile a non lasciare disorientato l'elettorato, in particolare quello giovanile, fornendo informazioni certe sulla riforma approvata dalla maggioranza. Non commentiamo neppure più la sacra Trimurti Corriere-Repubblica-Stampa che fa da guardiano alle macerie dell'Ulivo. Riusciamo invece ancora a stupirci del Sole 24 Ore. Perché, se è vero che ha per direttore Ferruccio De Bortoli, è altrettanto vero che è pur sempre il quotidiano degli industriali (o solo quello di una parte di Confindustria?). L'ineffabile Folli scrive, a proposito delle parole del premier sulla necessità di garantire il diritto allo studio, ‹‹se il Presidente del Consiglio scende in campo in prima persona, si entra nell'area del rischio. Non tutte le questioni possono essere trattate alla stregua della spazzatura di Napoli... la scuola ha bisogno di altro››. Il giorno seguente il Sole non cambia linea. Ecco il catenaccio del titolo interno: ‹‹Berlusconi ci ripensa››, affiancato da un ‹‹Veltroni: Cavaliere inaffidabile ma bene la smentita››.

La trasmissione di Michele Santoro, da parte sua, ha giocato sistematicamente a senso unico, screditando il governo e limitando il contraddittorio a livelli, questi sì, di regime. L'onorevole dimissionario Santoro è lo stesso che, in versione sdraiata, ha concesso la passerella a Veltroni alla vigilia della manifestazione del 25 ottobre in una puntata che ha fatto parlare Giorgio Lainati, deputato-mediano per le questioni Rai del PdL, di ‹‹monologo veltroniano››. Ha colpito particolarmente la messa in onda di bambini sandwich di sei anni che ripetono, a mo' di filastrocca, uno slogan in rima contro la Gelmini. Un episodio vergognoso sul quale la Rai dovrà necessariamente intervenire. L'azienda di viale Mazzini nel 1997 firmò infatti un «codice di autoregolamentazione dei rapporti tra minori e tv» con il quale si impegnava, tra le altre cose, ‹‹a non utilizzare i minori (da 0 a 14 anni) in grottesche imitazioni degli adulti››. Che cosa c'è di più diseducativo di mostrare un gruppetto di bambini addestrati a recitare a memoria una canzoncina contro un ministro? La stessa trasmissione, dando voce solo a studenti, genitori e docenti anti riforma, ha fornito il megafono per brillanti considerazioni come ‹‹per il governo meno scuola si fa e meglio è››, oppure ‹‹un solo maestro, visto che c'è una sola persona al governo che decide tutto››.

D'altra parte non è che da Santoro ci sia da aspettarsi granché. La sua carriera è costellata di episodi deprecabili. Ne raccontiamo uno - piuttosto conosciuto ma mai a sufficienza - per introdurre il tema della commissione di Vigilanza Rai che tanto fa digiunare il radicalveltroniano Marco Pannella. Dicono nel Pd che la storia politica di Leoluca Orlando, candidato unico dell'opposizione a presidente della commissione di vigilanza, basti a testimoniare la sua credibilità come figura di garanzia alla Vigilanza Rai. Bene, ecco il racconto che vi avevamo promesso: nel maggio del 1990 l'allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando, ospite di Santoro a Samarcanda, disse che la procura di Palermo teneva ‹‹dentro i cassetti›› le prove dei delitti Mattarella e La Torre. L'accusa era rivolta a Falcone, tanto che l'ideologo della Rete, Padre Pintacuda, dichiarò apertamente all' Unità ‹‹Si, io accuso Falcone››. Non pago di questa performance, il 23 febbraio Orlando denunciava - ancora ospite di Santoro in Rai - ‹‹il comportamento equivoco di qualche esponente dell'Arma dei Carabinieri›› di Terrasini. Si trattava del maresciallo Antonino Lombardo, che era alla vigilia del viaggio in Usa per prelevare il boss Badalamenti. Il sottufficiale, sulla cui lealtà il comandante dell'Arma tentò invano di testimoniare in diretta (telefonò ma Santoro non gli diede la parola), si tolse la vita di lì a dieci giorni, dopo che gli fecero trovare «incaprettato» un suo confidente.

E' dunque questo il cursus honorum che può vantare l'onorevole Orlando per aspirare alla presidenza della commissione di via del Seminario? È questo il signore che l'opposizione tiene ancora in pista dopo che la maggioranza ha ritirato per la Corte Costituzionale quel galantuomo di Gaetano Pecorella? E' proprio il caso che l'Udc persista nel sostenere Orlando? Non basta che la sua storia personale di dc che rinnega la Dc abbia avuto un seguito, proprio recentissimamente, alla notizia data in aula alla Camera dell'assoluzione dell'ex dc Calogero Mannino dall'accusa di concorso in associazione mafiosa, quando Orlando è stato tra i pochi a non applaudire? È questo il signore che li garantisce nel ruolo di presidente? Sono interrogativi che fanno riflettere e, in ultima analisi, amareggiano. Una cosa è certa. Anche qualora l'ex sindaco di Palermo non sia eletto alla presidenza della Commissione di Vigilanza, il solo permanere così a lungo della sua candidatura la dice lunga sullo scadimento di un certo modo di intendere la politica. (Ragionpolitica)

martedì 4 novembre 2008

Perché non fanno più ridere...Paolo Pillitteri

I medici chiamati intorno al capezzale della satira Televisiva hanno riscontrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, una gravissima indisposizione alla risata, quasi irreversibile, data la progressiva paralisi dei centri a ciò preposti. Il quadro clinico generale si connota di una depressione profonda, con rischi di suicidi di massa. I medici non hanno tuttavia raggiunto l’unanimità per l’eventuale cura da applicare. Il fatto è che la satira è entrata in coma perché i suoi artisti, tutti di sinistra, hanno perso la cosiddetta reason why di sè, la stessa ragion d’essere, di esserci: la sinistra. Questa è arrivata al capolinea dopo i crolli elettorali. Siccome non ha voluto analizzarne le ragioni e trarne le conseguenze, continuando come prima più di prima, con i medesimi leader di mille sconfitte, ne è derivato un effetto collaterale non indifferente: l’incapacità a proporre, a produrre idee, programmi, novità, insomma, riforme, modernizzazioni di sè. La satira ha immeditatamente riflesso, come uno specchio deformante, l’afasia e i balbettamenti del Pd, ne ha fiutato l’inconsistenza, anche di massa, rifugiandosi nelle acque torbide e limacciose, eppur gratificanti, della sua mosca cocchiera, Di Pietro, e del suo vero portavoce/portamanette Marco Travaglio. Grillo, invece, ha capito l’aria che tira e s’è defilato. E’ a questo punto che una come la Guzzanti ritornata ad “AnnoZero”, ma anche la Dandini o il Vergassola e, per certi aspetti Lillo e Greg e pure una Littizzetto, e persino Crozza col suo kilometrico show su La 7, si sono trovati zavorrati da un peso che li trascina giù, sotto, in basso, nelle correnti della Tv manichea, arrabbiata, con la puzza sotto il naso, con quell’aria di spocchia che aleggia sempre intorno ai migliori, a quelli che non sbagliano mai, a quelli che a Berlusconi non glie ne perdonano una.

Berlusconi, appunto. Che palle! come si dice a Canale 5 di Greggio, Iachetti e De Filippi. Esattamente come la sinistra è vissuta a lungo della rendita di un antiberlusconismo d’accatto in nome della sua superiorità etica, allo stesso modo la satira ha mutuato da quella errata accezione un modello che non funziona più perchè, salvo il dipietrismo, non ha più referenti, non fa più ridere, ecco. Del resto, i comici militanti dovrebbero sapere i rischi che corrono quando la squadra politica perde, soprattuto se loro stessi sono scesi in politica (Piazza Navona, ecc.) come sponsor. Il caso del Premio Nobel Dario Fo - che non fa ridere da anni perchè fa solo politica - simbolizza, col suo speech alla Statale, composto di parole d’ordine e frasi liturgiche d’antan, il malinconico deja vu di una posizione datata e fuori tempo massimo. La satira è anche e soprattutto una questione di linguaggio. La centralità del verbum, del messaggio. Si sentono parole come “ribellarsi alla nefanda Gelmini, la democrazia italiana è messa in pericolo dalla deriva autoritaria berlusconiana, siamo al regime di Putin se non a quello dei colonnelli in Argentina. Presto faremo la fine di Weimar che creò Hitler. Al governo siede un magnaccia impegnato a piazzare le veline nei ministeri. Milioni di studenti attendono un nostro gesto. La dittatura avanza”.

Questo è il linguaggio di Di Pietro, un mix di giustizialismo peronista e di parafascismo tribunizio, che ha contaminato lo stesso Veltroni e, a maggior ragione, la satira. La quale si illude di far cambiare idea riproponendo stantie macchiette, imbarazzanti cliche e polverosi stereotipi sulla democrazia in pericolo. E l’Unità a inseguire questo gioco al ribasso, dedicando titoli allarmati d’apertura al ritorno in Tv di Licio Gelli. Già. Ma gli ex brigatisti che ci vanno un giorno sì e l’altro pure? E che scrivono libri per film, per di più finanziati dallo stato o dalla Rai? Il punto è che questa rentrèe del Venerabile novantenne - come messaggio il medium ha già detto tutto- si è come capovolta. La satira, cioè, si è rovesciata contro gli autori delle frasi più ridicolmente demagogiche: “La scuola - ha tuonato Di Pietro - dopo la giustizia e l’informazione, è un altro tassello del progetto del venerbile della P2 Licio Gelli, che Berlusconi sta realizzando”. E tutti giù a ridere. Di lui. Era ora. (l'Opinione)