sabato 30 maggio 2009

Briatore: Silvio da anni è come un single. Marco Cremonesi

«Il presidente? È un sin­gle. Da parecchio tempo. E un single, è libero». Flavio Briatore ha in comune con il premier una passione sconfinata per la Sardegna, e una lunga frequenta­zione che nasce proprio sotto al sole del­la costa Smeralda. E nel leggere i raccon­ti sulle feste a Villa Certosa traboccanti di starlette, il team manager della Re­nault si infiamma: «Vuol sapere la veri­tà? Tutta questa storia nasce dall’invi­dia ».

Invidia della sinistra nei confronti del premier?

«Appunto. Del resto, che cosa sono di­ventati, è lì da vedere. Un gruppetto che litiga su tutto e si accorda su una cosa soltanto: l’antiberlusconismo. Che poi è odio nei confronti di chi ce l’ha fatta. Guardi il Billionaire: era una discoteca, e grazie al livore è diventata quasi un simbolo negativo. Per pochi, fortunata­mente ».

Perdoni. Ma aerei pieni di ragazze che convergono sulla Sardegna non so­no qualcosa di inadatto a un premier?

«Il presidente ama circondarsi di per­sone giovani: sono meno noiose, ti dan­no ispirazione, sono il futuro. In più, lui è una persona di una generosità unica. Villa Certosa è una meraviglia del mon­do, ma non un bunker: lui ama condivi­derla. Ci ha invitato anche i camerieri del Billionaire. È vero: Berlusconi ama piacere. Ma non è un reato. Anzi, credo non sia nemmeno un difetto».

Magari succede che qualche ra­gazza scambi la naturale empatiadel presidente per qualcosa d’al­tro...

«Può accadere. Ma può accadere a tutti. E segnatamente a una persona nella sua posizione. Anche a me, a vol­te, è capitato... ».

Ma che cosa succede nelle feste di Villa Certosa?

«Ma che vuole che succeda? Sono feste molto carine, molto garbate. Mai visto nulla non dico di trasgres­sivo, ma nemmeno di malizioso. Neanche si strabeve, per dire. C’è il presidente che si dà un gran daf­fare nel far sentire tutti a proprio agio. Individua subito chi è un po’ più rigido, intimidito da una situazione così fuori dal comu­ne, e si fa in quattro per coinvol­gerlo ».

Vabbè, ma ci racconti una di queste feste.

«Le feste sono il presidente che racconta, c’è la musica, e so­prattutto c’è la visita a questa vil­la sensazionale. E mi creda, io di case belle ne ho viste in tutti i continen­ti... Lui non me l’ha mai detto, ma credo che alla fine la regalerà alla Sardegna. Comunque, lui porta in giro i suoi ospi­ti, racconta, conosce ogni albero, ogni pianta. Spiega certe scelte. Poi, c’è il gio­co del vulcano... ».

E come funziona?

«Lui chiacchiera del più e del meno, e quando il gruppo si avvicina al laghetto finge di preoccuparsi: 'Il fatto — dice— è che pochi lo sanno, ma la Sardegna è una zona vulcanica, po­trebbero esserci dei feno­meni...' E a quel punto si sente un’esplo­sione pazzesca, ci sono degli effetti tipo fiamme, luci... è un gioco».

Però, a gettare una luce diversa an­che sulle feste di Villa Certosa è stata la stessa moglie del presidente. Il «di­vertimento dell’imperatore», le «vergi­ni che si offrono al drago», persino «l’uomo malato»...

«Ripeto. Il presidente del Consiglio è un single. E si comporta da single. Io a Capodanno ho invitato in Kenia 25 ami­ci. Un po’ li ho scelti io, altri sono stati invitati da mia moglie Elisabetta. Nor­male. Ma se uno la moglie non ce l’ha, gli amici se li deve scegliere da solo».

Veramente, il presidente risulta spo­sato.

«Lo sanno tutti che da molto tempo non vivevano insieme. Con la moglie il rapporto è formale da anni, non da mari­to e moglie. Senza voler fare gossip, an­che lei si fa la sua vita con i suoi interes­si e le sue passioni. Io credo che Berlu­sconi senta la solitudine del potere».

Perdoni: il presidente sembra tutto tranne che solo. E non è una battuta su meteorine, letterine, veline e quan­t’altro...

«E invece penso sia così. I figli stanno crescendo e prendono le loro strade. Mentre la signora nei confronti del mari­to è sempre stata molto assente, anche nella sua vita pubblica: mi pare che lo abbia accompagnato non più di tre vol­te. E a Villa Certosa, lei non ce l’ho mai vista. Una moglie, io credo, dovrebbe es­sere presente. Soprattutto: se non vivi con una persona, cosa ne sai? Non hai elementi per scandalizzarti per quello che fa. E forse, non ne hai neppure il tito­lo... E poi, sempre prima delle elezioni certe uscite. Sembra filoguidata».

E i ciondoli a farfalla?

«Ma che c’è da inventare su questo? Sono un regalo alle ospiti. Penso ne avrà distribuiti a migliaia. Quando si va a Vil­la Certosa, per gli uomini ci sono sei cra­vatte e le signore ricevono il ciondolo. Punto. Soltanto mia moglie, non so quanti ne abbia... ». (Corriere della Sera)

lunedì 25 maggio 2009

La memoria, Falcone, i veleni. Davide Giacalone

Mascariato lui, ntrallazzata l’Italia. Non sfugga il valore simbolico di un evento: il partito di Leoluca Orlando Cascio ed Antonio Di Pietro che commemora Giovanni Falcone. Non sfugga il gusto delle altre rievocazioni. Solo la prostituzione della memoria può rendere possibile un simile spettacolo. E non mi riferisco solo al fatto che Orlando Cascio fu pubblico accusatore di Falcone, perché quella è vergogna inestinguibile, ma oramai sterile. Il marcio è assai più vivo.
Il partito dei magistrati esibizionisti, incapaci e ciarlieri, quelli che per non essere sbattuti fuori dalla magistratura si buttano in politica, si riunisce sotto la foto di un magistrato che non fece mai politica e che le correnti della stessa magistratura prima massacrarono e poi squartarono sull’altare del ricordo mendace. Non è faccenda che riguardi solo quella sottospecie di holding immobiliare, quotata nel mercato elettorale, e che si richiama a valori varianti fra i bollati e gli inguattati, questa è pratica antica, avviata da comunisti come Violante e Paciotti, che di Falcone vollero la testa e poi finsero di piangere il corpo esploso. E, bada, caro lettore, che dire queste cose è ancora pericoloso, perché non s’è affatto estinto il fiume di veleni.
Viviamo ancora nell’Italia in cui si pende dalla bocca del Brusca che azionò il telecomando, a Capaci. Da lui, disonorato assassino di bimbi, si vuol sapere con quali uomini di Stato trattava la mafia. Gli hanno chiesto come faceva a conoscere il contenuto del “papello”, scritto dall’analfabeta Riina. Ha risposto: l’ho letto su Repubblica. Un “pentito” prezioso, più che altro una scimmietta ammaestrata. Viviamo nell’Italia in cui ho denunciato, senza che nessuno abbia reagito, l’allucinante posizione di Carmelo Canale, che Borsellino chiamava “fratello” e che è stato triturato da accuse di mafiosità. E’ stato anche assolto, ma lentamente, con le motivazioni che ancora tardano. Perché? Per impedire che la storia sia raccontata, per inquinare la memoria, per non chiedersi come mai Orlando Cascio si scagliò contro Antonino Lombardo, cognato di Canale, innescando le ultime ore della sua vita.
Ogni volta che si commemora Falcone ho l’impressione che gli si scavi una buca sempre più profonda, in modo da buttarci la sua vita, la sua storia ed il grido di verità che ci si strozza in gola. Poi coprire tutto, per la pace e l’omertà eterna.
Ieri, con l’animo sincero regolato sul calendario, è stato tutto un sbavare frasi di solidale circostanza. Sono tutti dalla parte di Falcone. Ma se così fosse stato com’è possibile che quell’uomo sia morto da sconfitto? Fedele servitore di istituzioni che gli si rivoltavano contro. Se lui era il più bravo ed il più capace, nella lotta alla mafia, com’è possibile che i suoi nemici pubblici e dichiarati, a cominciare da Magistratura Democratica ed Orlando Cascio, siano divenuti i portabandiera dell’antimafia militante? E non basta: Falcone fu ammazzato nel mentre collaborava al ministero della giustizia, visto che gli avevano tolto il resto. Capo del governo era Andreotti, ministro Martelli. Se Falcone era bravo come oggi dicono, com’è possibile che si sia messo a collaborare con un potere poi accusato d’essere connivente con la mafia? Vedete, la memoria è una raspa puntuta, non la puoi ficcare dove ci sono schegge e sperare che non ne esca segatura. Il prima ed il dopo sono incompatibili, a meno di non rimettere ordine nella storia: i nemici di Falcone sono gli stessi che impostarono il processo ad Andreotti. I sostenitori del teorema accusatorio non volevano che Tano Badalamenti potesse deporre, ed a prendere quel mafioso doveva andare Lombardo. Fu fermato e nessuno ci andò. Pensateci, ma senza giungere a conclusioni affrettate, che di propagandisti pronti per sparare a tre palle un soldo è già piena la piazza.
E, dopo averci pensato, mettete a paragone l’angoscia che vi ha preso con la serena irrilevanza delle commemorazioni ufficiali. Prendete quelle e collocatele nel tempo in cui Brusca ancora parla. E mentre parla quel carnefice, Orlando Cascio si candida a far da garante dell’informazione televisiva, affiancando il magistrato coraggioso che ha ripulito l’Italia politica. Secondo quanto dicono, quelli che non sanno di che parlano. Su tutto questo, infine, mettete la corporazione togata, rappresentata da una sindacato che più corporativo non si potrebbe, l’Associazione Nazionale Magistrati, che, per ricordare Falcone, ha scelto una frase di Gandhi: “Il mondo di oggi ha bisogno di persone che abbiano amore e lottino per la vita almeno con la stessa intensità con cui altri si battono per la distruzione e la morte”. Meravigliosamente riassuntiva del niente assoluto, del vuoto pneumatico che assedia il loro cuore.
La memoria è un bene prezioso, è un’arma potente. L’amnesia colpevole è la cancrena della nostra vita pubblica. Per questo l’ennesima giornata commemorativa è, nella sua miseria, simbolica e riassuntiva dell’immoralità.

giovedì 21 maggio 2009

Da Giuliani a Torino. Davide Giacalone

Se s’intitola una sala del Parlamento a Carlo Giuliani, il violento che nel luglio del 2001, a volto coperto, tentò di sfondare dei carabinieri con un estintore, è difficile sostenere che si debba contrastare la violenza di piazza, che ora si riaffaccia a Torino, con annessi estintori. Il pregiudizio ideologico, che fa guardare con tenerezza chiunque contesti, in nome di un opporsi sempre e comunque, confonde le idee ed impedisce di comprendere la realtà. Che cela pericoli gravi.
Come cittadino del mondo contesto volentieri la riunione torinese, dove 40 rettori universitari, provenienti da 19 Paesi, affermano di voler discutere il ruolo delle istituzioni accademiche per uno sviluppo sostenibile. Hanno scelto l’Italia, al debuttare della bella stagione, per chiarire la risposta: nessuno. Perché, poi, lo si chiami “G8”, facendo il verso ai potenti della terra, è un mistero accademico, utile solo a richiamare le proteste. Come italiano, inoltre, contesto l’università nostrana, affollata di raccomandati ed affetta da vana convegnite. La piazza, però, s’è agitata né per invocare merito e selettività, né per sollecitare più ricerca e meno turismo cattedratico. La piazza s’è riempita di giovani che cercavano lo scontro.
C’è una generazione di fregati, che in vario modo abita l’Europa. In tanti spendono la giornata organizzando l’happy hour, che pagano con i soldi di papà, ma senza sentirne il disagio. Altri, meno (ovviamente), aspettano l’occasione per tirare fuori il coltello. Altri ancora, e non pochi, scendono in piazza puntando agli scontri, come ad Atene, come a Parigi. Tutti questi sembrano aver perso l’ambizione di dare un significato alla vita ed all’impegno. Ammazzano il tempo, e non solo quello. I primi sono consumatori, i secondi candidati alla galera, i terzi massa di manovra per minare il nostro mondo. I primi si spremono, i secondi si scartano ed i terzi si strumentalizzano. E’ un gioco che porta male, molto.
Sono tre minoranze? Non è esatto. I primi sono numerosi, i secondi dominano certe piazze e certe scuole, i terzi monopolizzano la protesta. Il numero conta, ma non è decisivo. E’ grave che non si capisca, e quando si fa una cerimonia per inaugurare la “sala Giuliani” si dimostra d’essere bolliti, ma ancora abbastanza cinici da farsi largo usando anche delle vite perse.

mercoledì 20 maggio 2009

Le società multietniche? Non esistono. Ida Magli

Non esistono «società» multietniche. Quale che sia la buona fede o l’ingenuità di coloro che si affannano in questi giorni ad affermare il contrario, una società multietnica non può esistere perché una «società» non è data dalla somma di singoli individui, ma dal loro appartenere e vivere in una «cultura». Ogni cultura possiede una sua «forma», creata dalle particolari caratteristiche che distinguono un popolo dall’altro e che si manifestano nella diversa visione del mondo, nella diversa sensibilità nei confronti della natura, nella diversità delle lingue, delle religioni, delle arti, dei costumi, dei sentimenti. Ciò che mantiene in vita una cultura è la «personalità di base» del popolo che l’ha creata, quel particolare insieme di comportamenti che ci fa dire con molta semplicità: gli inglesi sono fatti così, gli americani sono fatti così, gli spagnoli sono fatti così, e che ci permette di riconoscere immediatamente come «tedesca» una sinfonia di Wagner e come «italiana» una sinfonia di Rossini. La diversità delle culture costituisce la maggiore ricchezza della storia umana.
Ma le culture muoiono. La storia ci dimostra che anche le più forti, le più ricche, le più potenti, a un certo punto spariscono e non sempre perché distrutte da conquistatori di guerra. È sparita quella straordinaria dell’antico Egitto di cui ci rimane, oltre all’immensa ammirazione per le piramidi, anche la consapevolezza di essere talmente diversi da non sapere come abbiano fatto a costruirle; è sparita quella di Omero, di Fidia, della cui morte non riuscivano a darsi pace prima di tutto i romani che hanno fatto l’impossibile per conservarla in vita, ma in seguito innumerevoli pensatori, poeti, artisti d’Occidente così che a un certo punto Hegel ha perso la pazienza e gli ha gridato in faccia brutalmente l’unica risposta: «Laddove un tempo il sole splendeva sui greci, oggi splende sui turchi, dunque smettetela di affannarvi e non ci pensate più!». È così, infatti: sono gli uomini i creatori e portatori di una cultura; non appena sopraggiungono altri uomini, portatori di un’altra personalità di base, di un’altra cultura, quella invasa deperisce e muore. Non è necessario neanche che gli invasori siano numericamente in maggioranza: l’invasore è sempre il più forte per il fatto stesso che si è impadronito del territorio di un altro e che si aggrappa, molto più che a casa propria, ai costumi, ai cibi, ai riti, alla religione della sua cultura nel timore di perdere la propria identità.
Chiunque neghi questo, nega agli esseri umani, invasori o invasi che siano, ciò che li contraddistingue come «uomini», riducendone i bisogni e gli scopi alla sopravvivenza biologica. «Non di solo pane vive l’uomo». La Conferenza episcopale italiana sembra essersene dimenticata e tocca a noi, italiani e convinti che la nostra «cultura» debba essere salvaguardata, come e più delle altre, anche per tutto quello che contiene della bellezza del messaggio evangelico, domandare ai vescovi se non sia il caso che essi si interroghino, prima di tutto su che cosa significhi per loro definirsi «italiani», e poi su quale sarà il prossimo (vicinissimo) futuro del cristianesimo in Italia. Riteniamo anche che tocchi a noi, proprio perché laici e convinti che la libertà del pensiero sia il patrimonio irrinunciabile dell’Occidente, difendere il messaggio di Gesù dal tentativo sempre più pressante, e tragicamente traditore, di ridurlo a una variante dell’Antico Testamento e, di conseguenza, anche dell’islamismo. Senza la ribellione di Gesù alla mentalità normativa e tabuistica dell’ebraismo, senza la forza del suo comando: «La vostra parola sia: sì sì, no no», così simile all’assoluto valore riposto dai romani nella propria parola, i suoi seguaci non avrebbero capito che il destino del cristianesimo era Roma.
E la sinistra? Strano a dirsi, si comporta più o meno come la Chiesa. Cosa pensa di fare degli italiani, della cultura italiana, quella sinistra che per tanti anni è stata l’unica forza politica a interessarsi di antropologia, a pubblicare Lévi-Strauss, Malinowski, Foucault, Leroi-Gourhan? Perché adesso tace di fronte alla morte della cultura italiana, dopo aver tanto pianto sulla morte delle culture primitive? Perché ci odia? Perché non fa per gli immigrati l’unica cosa giusta e che sarebbe in grado di fare molto meglio degli altri partiti, ossia aiutarli a rimanere nel proprio Paese? Non è iscrivendoli all’anagrafe come italiani che gli stranieri creeranno le melodie di Monteverdi o di Puccini, dipingeranno le Madonne di Raffaello o di Mantegna, scriveranno i versi di Petrarca o di Leopardi. Né si dica che gli stranieri servono a combattere il decremento demografico. Gli italiani fanno pochi figli per tre motivi principali. Il primo: siamo troppi per l’estensione del nostro territorio (260 abitanti per chilometro quadrato contro, per esempio, i 22 abitanti per chilometro quadrato degli Stati Uniti), senza tener conto del fatto che la maggior parte del territorio italiano è formato da montagne. La natura segue le sue leggi di sopravvivenza e, a causa dell’eccessiva densità, fa diminuire la prolificità. Non può sapere che i politici lavorano contro le sue leggi, col risultato che più gente entra, più la natura cerca di far diminuire gli abitanti, ossia gli italiani dato che è nell’interesse degli immigrati fare più figli che possono diventare maggioranza. Il secondo motivo consiste proprio nel senso di condanna a morte che si respira nell’aria. Non c’è bisogno di spiegazioni antropologiche: la gente sente benissimo di essere assediata e che non le è permesso neanche il più piccolo gesto di difesa. A che pro fare figli se non servono a conservare ciò che è italiano? Infine, il terzo motivo: la difficoltà concreta di provvedere ai figli. Questo sarebbe superabile se tutte le forze, il denaro, gli interessi della nazione fossero concentrati sui bisogni della procreazione, delle madri, delle famiglie. Ma non è così. Quel poco che ha fatto il governo Berlusconi, è soltanto un segno di buona volontà, non ciò che sarebbe necessario: una nuova organizzazione impegnata psicologicamente ed economicamente a far nascere molti italiani. E soprattutto, al di là delle cose concrete: cominciare a far sentire agli italiani che qualcuno li ama e vuole che essi vivano. (il Giornale)

sabato 16 maggio 2009

I prezzi dei carburanti regolati solo dal caos. Carlo Stagnaro

Consumatori e compagnie petrolifere sono di nuovo sul piede di guerra. Il copione è lo stesso di sempre: gli uni accusano le altre di ciurlare nel manico, adeguando i prezzi rapidissimamente verso l’alto e lentamente verso il basso; i petrolieri si difendono con dati e cifre. In effetti, il comunicato stampa dell’Unione petrolifera appare persuasivo: il rincaro sul mercato italiano viene sostanzialmente attribuito all’aumento dei prezzi sui listini internazionali (che sono espressi in dollari). “A parità di quotazioni internazionali – scrive Up – e tenendo conto dell’effetto del cambio, oggi i prezzi al consumo di entrambi i carburanti risultano comunque inferiori 3-4 centesimi euro/litro rispetto a sette mesi fa”. Le oscillazioni vengono poco percepite perché, di fatto, sono smorzate dalla componente fiscale, che per la maggior parte (l’accisa) è indipendente dal valore del litro di carburante, il quale viene riflesso soltanto dall’Iva (al 20 per cento).

In ogni caso, nell’ottica del buon funzionamento del mercato non importa molto chi abbia ragione: infatti, i prezzi dei carburanti non sono più amministrati. I prezzi sono liberi. Questo significa che non esiste (e non può esistere, perché sarebbe contrario alle norme antitrust) un “algoritmo” in grado di fornire il prezzo “corretto” per il pieno, valido per tutti, in funzione di una serie di variabili quali le quotazioni internazionali e il cambio euro/dollaro. Ciascuna compagnia può scegliere come e quanto ritoccare, giorno per giorno, il valore di benzina e gasolio, così come – entro certi limiti – i benzinai sono liberi di fissare il loro margine. Ciò che conta – sia in assoluto, sia di fronte alla legge – è che sia fatta salva la dinamica competitiva.

Ora, da tempo le compagnie petrolifere sono nel mirino dell’Autorità per la concorrenza, che già nel 1999 aveva ipotizzato l’esistenza di un cartello (formulando un teorema poi rigettato, dopo una lunga battaglia legale, dal Consiglio di stato). Il sospetto di collusione era stato poi riformulato, su altre basi, nel 2007, e anche qui aveva portato a un duro braccio di ferro tra l’organismo guidato da Antonio Catricalà e l’industria, che però si è concluso con un accordo: in cambio di una serie di impegni, l’Authority ha fatto decadere le accuse. Al momento, gli uffici dell’Agcm non hanno rivolto alcuna obiezione alle compagnie, a testimonianza di un comportamento corretto da parte di queste ultime (che d’altronde non hanno alcun interesse a sgarrare, sia per ragioni ovvie, sia per una questione reputazionale). Quindi, a meno che non si voglia sostenere che l’Autorità non è in grado di vigilare sulla condotta dei petrolieri o che non vuole farlo, bisogna presumere che la competizione vada come deve, e dunque che i prezzi praticati in Italia rispecchino le condizioni oggettive del mercato.

A fronte di tutto ciò, si osservano due tendenze, che vanno registrate con attenzione. Da un lato, le associazioni dei consumatori svolgono l’abituale mestiere di gridare al lupo ogni qual volta un prezzo muove verso l’alto. Si può ritenere che questo sia il loro mestiere, ma la sensazione è che si tratti semplicemente di una tattica volta a conquistare un po’ di visibilità sui media. Amen. Ma una conseguenza di questa pressione mediatica è che, dall’altro lato, si torna a invocare una maggiore “trasparenza” dei prezzi, per esempio riprendendo a pubblicarli sul sito del ministero dello Sviluppo economico (in questo senso spinge, per esempio, un emendamento della senatrice democratica Anna Rita Fioroni, recentemente approvato). Di per sé, ovviamente, la cosa non è particolarmente sconvolgente, se non fosse che l’emendamento è congegnato in modo tale da risultare di difficile applicazione e che, nel momento in cui venisse applicato, creerebbe più problemi di quanti ne risolva.
(Omissis)
Evidentemente, ci troviamo di fronte a un cortocircuito tra la politica della concorrenza, l’assenza di visione d’insieme da parte dei politici, e le polemiche auto-interessate delle associazioni dei consumatori. Siamo, cioè, nella tipica condizione in cui chiunque, comunque si muova, sbaglia. Alla faccia della certezza del diritto.
Da Il Secolo XIX, 14 maggio 2009

venerdì 15 maggio 2009

Da Violante a Di Pietro, la tragedia giustizialista diventa farsa. Lino Jannuzzi

Una volta era Luciano Violante che dirigeva l’orchestra e quelli di Mani pulite a Milano e i professionisti dell’antimafia a Palermo eseguivano lo spartito della via giustizialista alla politica. Ora è l’ex pm di Milano Tonino Di Pietro che ha in mano la bacchetta e ha messo su un partito tutto suo e candida alle elezioni non solo gli ex pm come De Magistris, più caricatura che eredi di quelli d’antan, ma porta via all’area che per cinquant’anni è stata egemonizzata dal partito di Gramsci e di Togliatti (e, ahimè, di Violante), fior di “intellettuali”, magari candidati al premio Nobel (non l’ha avuto anche Dario Fo?), come Claudio Magris e Andrea Camilleri e Gianni Vattimo e Nicola Tranfaglia e Giorgio Pressburger e persino, così si sussurra, Umberto Eco. Verrebbe da dire che ognuno ha le sue “veline”, quelle che si merita, e che quella che fu la tragedia della prima Repubblica è la farsa della seconda. Ma la verità è che, quando la politica viene umiliata e offesa, non c’è più giustizia e cultura che tenga. (il Velino)

lunedì 11 maggio 2009

Un tram chiamato propaganda. Davide Giacalone

Un soffio di demenza ha scarruffato Milano, accarezzando poi l’Italia. Prima, un esponente leghista ha sostenuto la necessità di riservare alle donne un vagone della metropolitana ed ai milanesi dei posti a sedere. A seguire, dalla sinistra, gli hanno dato del razzista. Per poi giungere al presidente della Camera, oramai incarnatosi non tanto nella Costituzione, quanto nelle letture monotone e superficiali che se ne fanno.
Il verde pensatore forse non lo immagina, ma l’idea di riservare spazi chiusi alle femmine riscuote il plauso dei fondamentalisti islamici, quelli che la sua parte politica non ha in gran simpatia, spesso, e colpevolmente, confondendoli con il resto dei mussulmani. In quanto all’assimilazione di tutti i milanesi con reduci di guerra, anziani e gravide, quali categorie da mettere a sedere prima che tracollino, potrebbe essere letta come tesi non propriamente encomiastica per i meneghini. Non essendo, i milanesi, una razza, però, non vedo cosa c’entri il razzismo. E mi sfugge anche la pertinenza del richiamo costituzionale, giacché la parità di diritti e doveri non impedisce la separazione delle toilettes o delle sezioni scolastiche per genere.
Ragioniamo, però, su quant’è sfilaciata la nostra vita pubblica. Il proponente-provocatore ha raggiunto il suo scopo: ha presentato i candidati ed è finito sulle prime pagine dei giornali. Avesse detto cose sagge e ponderate non se lo sarebbero filato, neanche in cronaca. Gli oppositori sono stati al gioco, ma facendo la loro parte: scandalizzati per l’offesa alla civiltà, inorriditi per la selvaggia proposta, hanno mostrato le loro anime belle. Il presidente della Camera ha colto l’occasione (non se ne fa sfuggire una) per vestire i panni dello statista, autodefinendosi imparziale e super partes, come, dice lui, vuole la Costituzione. Solo che in quel testo non c’è scritto, dimostrandosi che oltre ad invocarlo si dovrebbe leggerlo. Una certa imparzialità (quella totale non esiste) è dovuta nel corso dei lavori parlamentari, mentre sarebbe assurdo pretenderla nel resto della giornata, visto che si tratta di un politico eletto e che spera di essere rieletto. Comunque, finita la recita dei rispettivi copioni, fine della scenetta e tutto resta come prima. Compresi i trasporti pubblici.
Che sono, effettivamente, sovraffollati, con pochi posti a sedere rispetto alle necessità, insicuri ed utilizzati da quanti sono esclusi dalla fiera delle macchine con autista a spese della collettività. Pieni di gente infastidita dal contatto sempre più stretto con immigrati meno adusi alle cortesie ed alle docce (come anche taluni italiani, del resto). Provate a scendere in una stazione della metropolitana, nell’ora delle ultime corse, a Milano od a Roma, provate a viaggiare sulle linee di terra che si dirigono verso la periferia, quando s’è fatto buio, e ditemi se vi sentite del tutto a vostro agio. E mica è un problema d’immigrati: c’è l’ubriaco che vomita, il tossico che ciondola, la corte degli accattoni che rientra. I migliori sono gli africani, con la loro mercanzia, naturalmente illegale, che sfilano disciplinati verso i giacigli. Alla fermata potreste essere da soli, ma non è la peggiore delle ipotesi, perché c’è anche il caso che il tragitto verso casa lo facciate salutando slave bambine che biascicano la vita peripatetica, lungo il marciapiede. Le abbiamo accolte, le migranti, non le cacciamo, le clandestine, ma con tanta umanità lasciamo che le sfruttino.
C’è una borghesia che vive questo degrado, ma non ha voce in capitolo. Che ne sanno gli aspiranti statisti, scortati fino al ristorante, accompagnati nella notte, protetti dalla realtà, che disturberebbe i loro sogni di gloria. Quando, vicino ai quartieri di questa borghesia, un tempo verdi ed ora periferici o sfregiati, s’insedia un campo nomadi, questa stessa gente fa la fila alla cassa del supermercato stando dietro a matrone puzzolenti che pagano con le monete dell’elemosina. Siccome se ne lamentano, che facciamo, li tacciamo di razzismo? Possono farlo non le nobili coscienze, ma solo dei cretini che abitano altrove.
Gli italiani non sono razzisti e non lo diventeranno. Ma è pericoloso sottovalutare il sentimento di rabbia ingenerato dal contrasto fra l’impoverimento del tessuto sociale, il deperimento della consapevolezza di sé che ha la borghesia, e lo spettacolo di pubblici amministratori e rappresentanti del popolo intenti ad approfittare di privilegi e vantaggi, impegnati a scimmiottare il peggiore stereotipo dell’arricchito. Salvo poi, nelle ore che dividono il pranzo dalla cena, spararle grosse per parlare alla pancia del popolo e rimpallarle vane per intenerirne il cuore. C’è sempre il rischio che siano altri, gli organi interpellati per la risposta.

mercoledì 6 maggio 2009

Le spie, della pochezza. Davide Giacalone

Prima i medici, ora i presidi. A far da spia di una politica parolaia, tutta intenta alla propaganda, che alloggia fuori dalla realtà. C’è chi vuol fare il duro, chi s’è scelto la parte del buono, sparando a tre palle un soldo. Alla fine il governo fa ancora una volta marcia indietro, stabilendo che per iscrivere un bambino a scuola non è necessario che i genitori abbiano il permesso di soggiorno. Mettiamo che lo stiano iscrivendo alla prima elementare, si suppone che per almeno otto anni quel bambino frequenti la scuola vivendo in un nucleo familiare che viola la legge italiana. Voi dite che è bontà? Io penso sia stupidità.Abbiamo scritto parole inequivocabili contro ogni forma di razzismo, o anche solo di discriminazione.
Abbiamo scritto che gli zingarelli devono andare a scuola, e semmai in galera i familiari che glielo impediscono, dirigendoli verso il furto e l’accattonaggio. Il punto non è questo, bensì l’ipotesi che s’istituzionalizzi la violazione della legge. Ottenendo un tale risultato, per giunta, al solo scopo di alimentare il desiderio di distinzione all’interno della maggioranza di governo.Può darsi che la norma fosse scritta male, può darsi che lasciasse intendere quel che sarebbe inaccettabile, ovvero il rifiuto della scuola per determinati bambini, ma quel che sta venendo fuori è un pateracchio orribile. Magari capiterà, com’è capitato per la legge sull’immigrazione, che gli stessi artefici (Fini, per intenderci) se ne pentano e ne chiedano la modifica. Noi lo diciamo prima: fermatevi.
Da cittadino italiano, che paga le tasse, se vado al pronto soccorso con una ferita da taglio non solo mi chiedono le generalità, ma anche come me la sono procurata. Se racconto balle, se sono in stato confusionale, se me ne resto zitto, arriva la polizia. C’è di più, perché se mi presento, ad un qualsiasi medico, affetto da specifiche patologie infettive, quello deve segnalarmi all’autorità, perché così prevede la legge. Non è che facciano le spie, è il loro dovere a salvaguardia della collettività. Nessuno s’è mai lamentato o sentito privato dei propri diritti. Se si presenta un immigrato, magari clandestino, ha maggiori diritti di un cittadino italiano? Se, da cittadino italiano, che paga le tasse, iscrivo un figlio a scuola devo identificarmi e devo dire dove abito esattamente, perché l’istituto pubblico valuta se ho titolo ad accedere in quel posto o me ne indicano un altro. Non basta: mi chiedono anche quanto guadagno, perché, come nel caso di nidi e materne, c’è una precedenza in base al reddito (il che, purtroppo, favorisce gli evasori fiscali). Un immigrato, magari clandestino, ha maggiori diritti di me?
L’istruzione non è solo un diritto, ma anche un dovere. Chi ha figli minori non solo può, ma deve mandarli a scuola. Vale per tutti. Ma se affermo che ai figli dei clandestini devo garantire la scuola è come dire che mi tengo anche i genitori, che cessano d’essere clandestini. In questo modo incentiverò i barconi con i bambini, che è un risultato da “buoni”, ma da buoni a nulla.
Poi arriva l’accademia, per bocca di Chieppa, presidente emerito (sono scandalosamente troppi) della Consulta: “salute e istruzione sono servizi essenziali che vanno garantiti a tutti”. A tutti chi? A tutti i cittadini italiani ed a tutti quelli che si trovano legittimamente nel nostro Paese, immigrati compresi. Ma se dico “tutti” per intendere “chiunque” vuol dire che ho deciso di tassare gli italiani per curare i cinesi ed istruire i sauditi. E’ una castroneria al cubo, detta da chi pensa che l’intera umanità possa campare alle spalle di chi paga le tasse.

martedì 5 maggio 2009

Università da chiudere. Davide Giacalone

La bancarotta universitaria si riassume in due elementi: abbiamo il sistema meno severo e selettivo, ed abbiamo il più basso tasso di laureati. Della serie: chiudetela, perché ci costa molto e rende quasi niente. I dati Eurostat parlano chiaramente: nella fascia d’età tra 25 ed i 34 anni l’Italia ha solo il 19% dei laureati, la media europea è poco sotto il 30 ed in Francia od Inghilterra raggiunge il 40. C’è ancora un numero, politicamente scorretto, che la dice lunga: le giovani laureate sono, da noi, assai più numerose dei coetanei maschi (23% contro 15). Il che non ci rende il Paese dove le donne meritevoli fanno più carriera ed arrivano ai posti più alti, come sarebbe giusto, ma quello in cui ci sono corsi di laurea in taglio e cucito. E, presa la china della sgradevolezza, vado oltre: quel dato indica anche una progressiva femminilizzazione delle carriere statali, quelle dove il titolo di studio determina la retribuzione, al di là della reale competenza. E questo è un male, non per il genere sessuale, ma per la natura della selezione.
Tale realtà comporta un gran svantaggio per i meno protetti e privilegiati, per quelli che non ereditano libere professioni familiari, secondo una logica corporativa e medioevale che da noi è considerata normale. La cancellazione di una simile università, dove la mediocrità va in cattedra e l’incapacità si laurea, dovrebbe essere battaglia normale di chiunque prediliga il progresso sulla conservazione, a cominciare dai giovani. Invece, capita che solo una ristretta minoranza continua a reclamare la cancellazione del valore legale del titolo di studio e la privatizzazione d’istituti e finanziamenti, mentre alla quasi totalità piace questo pantano in tocco e toga che accompagna cattedre fasulle con titoli irreali.
Non ostante il lassismo, però, i laureati diminuiscono, come mai? Perché i somari s’annoiano e qualche meritevole manda i “magnifici” incapaci al paese che li merita, mentre la gran parte dei giovani percepisce la perdita di tempo e gira al largo. Questo nel mentre la competizione internazionale (oltre che il rispetto di noi stessi) dovrebbe spingerci in direzione esattamente opposta, cercando di eccellere nelle competenze e non nell’arte d’arrangiarsi all’ombra della spesa pubblica, allargando il mostruoso debito.