martedì 30 giugno 2009

Il ventennio di rimozioni. Angelo Panebianco

Da diversi mesi il tema rimbalza da un Paese all' altro («Le Monde », ad esempio, vi ha dedicato due dense pagine di analisi e commenti qualche giorno fa) e le elezioni europee, con i pessimi risultati conseguiti dai partiti socialisti e affini, hanno reso ancora più accesa la discussione. Non c'è praticamente forza di sinistra in Europa che non si ponga una domanda: come mai, in tempi di massiccio ritorno dello Stato nella gestione dell' economia, di critica al mercato, di indebolimento della fiducia liberale nella capacità di autoregolazione dei mercati, i partiti socialisti (e affini) non riescono ad approfittarne? Non dovrebbero essere proprio i partiti socialisti, antichi alfieri dell'intervento dello Stato e dell' uso della spesa pubblica per fini di ridistribuzione della ricchezza, i naturali punti di riferimento politico degli elettori in questo tempo di crisi?

Il problema è assai complesso e richiede risposte (o tentativi di risposta) a più livelli. Bisogna tener conto della tendenza generale ma anche delle specifiche situazioni nazionali. Sul piano generale si può forse sostenere (come chi scrive ha fatto sul «Corriere Magazine» un paio di settimane fa) che i partiti socialisti non possano approfittare della situazione creata dalla crisi economico-finanziaria perché non esistono più, in Europa, le condizioni sociali e politico-culturali che favorirono i loro successi nel XX secolo. Nelle attuali società individualiste gli antichi ideali di «giustizia sociale» e di uguaglianza a cui i partiti socialisti finalizzavano l'intervento dello Stato e l'espansione dei sistemi di welfare state, non hanno più corso. In tempi di crisi, certamente, si invoca l'intervento dello Stato ma per ragioni squisitamente pragmatiche (bloccare la disoccupazione, tamponare gli effetti sociali perversi della crisi). Nelle ricche società europee di oggi a nessuno, o quasi, importa più nulla di quella «società degli uguali» che i partiti socialisti offrivano come meta degna di essere perseguita in tempi di assai più rigide disuguaglianze di classe. E le destre sono oggi sufficientemente pragmatiche e spregiudicate per gestire l'intervento dello Stato senza bisogno di caricarlo di ingombranti significati ideologici.

Le risposte generali, però, corrono sempre il rischio di essere generiche. Bisogna per forza guardare anche alle specificità dei casi. Ad esempio, i laburisti britannici (con la rivoluzione di Blair) e i socialisti spagnoli si erano già liberati dei miti e delle ideologie otto-novecentesche. Oggi pagano soprattutto il fatto di avere governato a lungo nella fase che ha preceduto lo scoppio della crisi.

Neppure per capire i guai della sinistra italiana, del Partito democratico, bastano le risposte generali. Anche qui bisogna tener conto delle specificità. La principale delle quali è che la sinistra italiana paga il conto, oltre che delle difficoltà che l'accomunano ai partiti socialisti europei, anche di un ventennio di rimozioni e trasformismi. La verità è che se Berlusconi non fosse esistito, se non fosse entrato in politica nel 1994, la sinistra italiana se lo sarebbe dovuto inventare. Da quindici anni Berlusconi, con la sua presenza, aiuta la sinistra a non fare i conti con se stessa, con il vuoto in cui è precipitata dopo il crollo del muro di Berlino.

In tutto questo tempo, Berlusconi è servito alla sinistra italiana per non guardarsi allo specchio. Se lo avesse fatto avrebbe scoperto che lo specchio non è in grado di riflettere alcuna immagine. Checché se ne dica, un tentativo, uno solo, di costruire una nuova identità c'è stato. Lo ha fatto Walter Veltroni. Il suo discorso del Lingotto era più o meno questo. Ma ci sono limiti a ciò che un leader può fare. Nel caso specifico, c'erano anche i limiti del leader.

Incapacità di fare i conti col passato, rimozioni e trasformismi. Di che altro sarebbero il sintomo, ad esempio, gli inopinati omaggi che gli uni o gli altri continuano di tanto in tanto a tributare a Enrico Berlinguer, ossia all'ultimo dei grandi capi del comunismo italiano? Come si è chiesto Giovanni Belardelli sul «Corriere » di ieri, a chi e a che serve Berlinguer nella società attuale?

O, ancora, era davvero pensabile che la sinistra (da Mani Pulite fino alla recente alleanza con Di Pietro) potesse trovare una identità politica di ricambio facendosi megafono dell'Associazione Nazionale Magistrati? O che potesse diventare competitiva con la destra, soprattutto al Nord, senza contrastare apertamente le correnti sindacali più conservatrici in materia di legislazione del lavoro, di scuola o di pubblica amministrazione? O che potesse acquisire credibilità a fronte del più esplosivo fenomeno del nostro tempo, l'immigrazione, innalzando solo il vessillo della «solidarietà »? Non è un caso che anche molti dei cosiddetti «giovani », più o meno emergenti, del Pd, per lo meno a una prima occhiata, sembrino vecchi quanto i loro nonni.

La migliore osservazione sul Partito democratico l'ha fatta Claudio Velardi, ex collaboratore di Massimo D'Alema: al Pd, dice Velardi, serve un «pazzo», nell'accezione positiva del termine, uno che si prenda il partito sparando sul quartier generale. Un leader che unisca estro, solidità culturale e credibilità. E la caparbietà necessaria per dedicarsi a un lungo lavoro di ricostruzione culturale e politica. Senza farsi condizionare troppo dai vecchi oligarchi del partito o da centri di potere esterni. (Corriere della Sera)

venerdì 26 giugno 2009

Pensioni, l'obbligo conveniente. Davide Giacalone

C’è qualche cosa di perverso nel subire, da parte della Commissione Europea, la procedura d’infrazione sul tema delle pensioni. Quella riforma è necessaria, urgente e conveniente, e noi tutti, per colpa di un mondo politico reticente e tremulo, siamo come un bimbo che si fa mettere in castigo per non avere mangiato i dolci.
Nello specifico, riguardante l’età pensionabile delle donne nel pubblico impiego, si tratta non solo di una patente ingiustizia, talché chi vive più a lungo va in pensione prima, ma anche di un problema riguardante un numero ristretto di dipendenti, quindi di più facile soluzione. Più in generale, comunque, i dati segnalano, in maniera non equivoca, che la crisi economica scoraggia i pensionamenti, chi ha un lavoro se lo tiene stretto e tende a restarci, sicché questa è la condizione ideale per alzare l’età pensionabile di tutti. Facendolo si diminuirebbe il peso futuro della previdenza, accorciando la distanza, da noi scandalosamente enorme, fra costo del lavoro e salario netto, vale a dire fra ciò che il datore di lavoro paga e quel che i dipendenti effettivamente intascano.
La cosa è talmente evidente che l’ha capita pure Dario Franceschini. C’è, infatti, una sola cosa buona, ma importante e colpevolmente occultata, nel messaggio video che ha inviato dall’isola deserta, dove si trova. Il rampollo di Zaccagnini si ricandida a segretario del Pd. E, fin qui, affari loro. Lo fa con un video diffuso via web: sei minuti d’eterna banalità, compreso l’appello a “riforme strutturali” che, però, non si sa quali siano. Ma una cosa la dice, giusta e assai significativa: occorre alzare l’età del pensionamento. La dice alla maniera dei vecchi democristiani, ma la dice: i genitori lavorino più a lungo, in modo da ristipulare il patto generazionale. E’ una notizia.
Tralasciamo il fatto, certo non secondario, che l’ultima volta che la sinistra è stata al governo ha fatto l’esatto contrario. Ragioniamo sull’oggi: i dati Ocse dimostrano che l’Italia è il Paese industrializzato con la maggiore incidenza della spesa pensionistica sul prodotto interno. Non solo siamo al doppio della media altrui, raggiungendo il 14%, ma la nostra spesa cresce in maniera vertiginosa (23% in dieci anni), il che, accoppiato alla diminuzione del Pil, porta alla sicurezza che il suo peso percentuale sarà intollerabile. E questi sono solo i numeri.
Poi c’è la sostanza umana: per pagare quelle pensioni prendiamo i soldi anche dalle tasche di chi la pensione non l’avrà. I giovani, insomma, sono superbamente fregati, in un sistema che più ingiusto sarebbe difficile anche solo da immaginare. Quindi Franceschini ha ragione, e dice oggi, in modo confuso, quel che noi ripetiamo da anni, con sana ruvidezza. Dal governo, però, ci aspettiamo di più. Non basta affatto assicurare che si darà corso all’intimazione europea, perché, lo ripeto, ci conviene ed è comunque troppo poco. La finiscano di ripetere che la crisi suggerisce immobilità, perché è vero l’opposto: le difficoltà presenti devono aiutare a sanare gli squilibri futuri. Se non ora, quando?
In quanto a Franceschini, colga anche lui l’occasione: la procedura d’infrazione rende obbligatoria una riforma comunque opportuna, si tiri fuori dalla bottiglia e dimostri che l’opposizione sa fare politica, votandola. E faccia il piacere, già che ci si trova, di non parlare solo colà rimpiattato, ma di ripeterlo ai sindacati ed a quella parte del suo partito che s’è sempre opposta a questa riforma di giustizia ed equità. Non dimenticando che sulle barricate, a difesa dei garantiti, non ci trova solo i comunisti di un tempo, ma anche i cattosociali di sempre. Se guarda bene, ci trova anche Prodi. Se guarda sotto, ci trova se stesso. Ha cambiato idea? Ha imparato a far di conto? Splendido, ma esiste una regoletta di moralità, in politica, in generale nella vita culturale, si avverte: scusate, mi sono sbagliato. Anche perché, sempre nello stesso video, egli dice che la sinistra non deve tornare al passato, né devono più tornare le persone di un tempo. Ecco, avrebbe la cortesia di spiegare perché il passato fa ribrezzo e quelle persone hanno affossato la sinistra? Se serve una mano, conti su di noi.

giovedì 25 giugno 2009

La politica cancellata. Ernesto Galli della Loggia

Le accuse che si rovesciano in questi giorni sul presidente del Consiglio, le si condivida più o meno, sono la riprova definitiva del grado estremo di personalizzazione che la politica ha raggiunto oggi in Italia: una riprova che, alquanto paradossalmente, stanno offrendo proprio coloro che fino a ieri additavano la suddetta personalizzazione come sbagliatissima e assolutamente da evitare. Non tenevano conto però che la personalizzazione è un fenomeno inerente alla leadership: tanto più questa è autorevole e forte tanto più s’identifica inevitabilmente con la persona di chi l’esercita. Né tenevano conto del fatto che i regimi democratici, proprio per il pluralismo che caratterizza le loro società, hanno quanto mai bisogno di una leadership forte e unificatrice.

Ma è anche vero che le accuse che ogni giorno riempiono i nostri quotidiani, con grande attenzione alla vita privata di Berlusconi, testimoniano di un livello di personalizzazione che dire estremo è poco. A questo proposito è stato osservato giustamente che anche in altri Paesi europei o negli Usa i vertici del potere (Kennedy e Mitterrand, per fare solo due esempi) sono stati coinvolti ripetutamente in storie scabrose di sesso dense di particolari piccanti, ma in nessun caso però i rispettivi media se ne sono occupati più di tanto, anzi quasi sempre non se ne sono occupati per nulla. Sui gusti e le frequentazioni sessuali delle leadership la regola è stata dappertutto una sostanziale cortina di silenzio. Il fatto che in Italia non sia così, anzi sia l’opposto, potrebbe naturalmente voler dire che l’informazione italiana è assai più libera di quella straniera, ovvero, forse, può voler dire che in Italia la personalizzazione di cui si diceva ha raggiunto livelli realmente patologici.

È questa l’ipotesi più plausibile. Ma bisogna allora domandarsi perché. A me sembra che ciò dipenda dal fatto che in pochi altri Paesi occidentali c’è stato come in Italia una così massiccia cancellazione della politica nel senso che normalmente si dà a questa parola. Idee, programmi, procedure di selezione, organi collettivi di dibattito e di direzione, tutto, a destra come al centro e a sinistra, è stato vanificato o ha provveduto spontaneamente e letteralmente a evaporare. Esauritesi le culture e i partiti politici che risalivano al Cln e alle vicende «alte» della storia nazionale (ciò che in Europa non è accaduto da alcun’altra parte), è subentrato un generale nulla. Sono rimaste solo le persone, sole le nude persone (è il caso di dirlo!). Da questo punto di vista Berlusconi, lungi dall’essere la malattia, è solo il sintomo: esasperato se si vuole ma solo il sintomo.

Nessuna meraviglia allora se la vita pubblica italiana offre da tempo lo spettacolo che offre: dove prima delle «squillo» di casa a Palazzo Grazioli ci sono state le «esternazioni » politiche della moglie del premier golosamente raccolte, il costo delle scarpe di D'Alema, i flirt veri o supposti e la paternità più o meno rocambolesca di Fini, il cachemire glamour di Bertinotti, la carica di capo della Lega trasformata in personale- ereditaria per il giovane Bossi senza che dai suoi si sia levata una critica: il tutto in un affollarsi di giornali e di trasmissioni tv che in pratica si occupano solo di cose del genere.

Ormai in Italia, anche a prescindere dalle ultime settimane, la politica è ridotta a questo. Mentre sullo sfondo si agita il vortice delle intese sotterranee, degli interessi economici che si combinano e si ricombinano per tutelarsi e spadroneggiare, dei clan che si formano, mentre si vede una stampa nel complesso sempre più esangue, si ascoltano mille «voci» che dilagano. Anche in quelli che ancora chiamiamo partiti ognuno gioca per sé, al massimo in combutta con qualche sodale. Tutto ciò è il prodotto della fine della politica: della quale è un frutto quella personalizzazione di cui la foto di Berlusconi tra le lenzuola, quando mai comparisse, non sarebbe che un riassunto simbolico. C’è comunque in questa deriva italiana come un ritorno all’antico. Si dilegua la politica, infatti, e sembra di veder riaffiorare un’Italia che credevamo alle nostre spalle: un Paese in mano a pochi, a oligarchie interessate esclusivamente al proprio potere; un Paese marginale, tagliato fuori dal mondo e che ha ormai perso il senso di un destino comune, senza ambizioni e progetti per il futuro; un Paese che non si stima e che non sembra più capace di chiedere nulla a se stesso. Un Paese che nel vuoto della politica lascia vedere qualcosa di molto simile a un vuoto di volontà, a un vuoto morale. (Corriere della Sera)

martedì 16 giugno 2009

Il nero Fiat, una storia italiana. Paolo Pillitteri


Tanti, tanti anni fa, c’era il giornalismo d’inchiesta che non guardava in faccia a nessuno, sia ai politici che ai potenti. Poi quel giornalismo si ritirò da uno dei due “settori” dedicandosi esclusivamente alle inchieste contro i politici. Pigiando così forte il piede sull’acceleratore, da annientare un’intera classe politica. Correvano gli anni ’92-’93-’94 e ’95, l’epoca del circo mediatico giudiziario, di manipulite, allora, come ora, incarnata dall’eroe delle manette Di Pietro. Che cosa era accaduto ai mass media per insistere soltanto sulla martellante criminalizzazione della “orrenda” partitocrazia, salvando la grande industria e i grandi complessi editoriali? Semplice: si erano accordati col Pool e con il Pd (ex Pci) per annientare una solo parte responsabile della cosiddetta “dazione ambientale”, pur di miracolare la sinistra e rendere sempre più forti quei poteri dei quali i grandi organi di stampa erano (e sono) gli house organ da supporto acritico alle toghe. Come ricordò anni dopo Polito, che allora stava a Repubblica, si formò un pool parallelo di testate, dall’Unità a Repubblica al Corriere che, sotto la guida di Mieli, condusse le danze macabre contro i leader di partito, di tutti, all’infuori di quelli postcomunisti. Prima, però, che l’omologazione mediatica dannasse per sempre il Pentapartito (uscito vittorioso alle elezioni del’92) qualche settimanale, come “Panorama” ruppe il “pactum sceleris” e dedicò addirittura un numero (quasi) speciale alla banca istituita dalla Fiat in Svizzera, la Buc, per gestire i miliardi di nero, da passare sottobanco ai politici (e non solo). Erano giorni nei quali Romiti si presentava prono ai giudici del Pool con una sorta di fascicolo-rendiconto delle concussioni subite. Ma senza alcun cenno a quella banca e al nero-Fiat. Ve l’immaginate Cesarone col coltello di un Arnaldo Forlani, sotto la gola, che gli fa “O la tangente o la vita?”. Così pure mentiva quella faccia di bronzo di Carlo De Benedetti, “trattenuto” a Regina Coeli per la bellezza di 12 ore, mentre i vertici del Pd ex Pci negavano tutto, smentivano Greganti, brandivano minacciosi la clava della questione morale al grido “Noi, solo noi, abbiamo le mani pulite”. E la Fiat, la grande famiglia del patriarca, l’avvocato Agnelli? L’avvocato, dal polsino con sopra l’orologio, era sempre in testa alle processioni pro Di Pietro, esibendo la candida chioma manco fosse il Santissimo, salmodiando e invitando i giudici a ripulire le stalle di Augia, non di Torino o di Mediobanca, o di Gemina, o della Buc, tanto per dire.

Perchè loro, poveri e indifesi Agnelli, erano stati concussi, minacciati, ricattati. I suoi giornali facevano da grancassa alle tricoteuses che chiedevano la forca mentre lui, Romiti, CDB, Mieli, L’Unità, Scalfari ecc, reggevano la cesta mentre quelle teste venivano mozzate. E pure esibite: come monito. Che fine ha fatto il nero Fiat, quindici anni dopo? Come nel delitto (quasi) perfetto, quando il cadavere risale dal fondo del lago limaccioso, così la storia del nero Fiat sta riemergendo in una causa ereditaria promossa da Margherita,figlia di Giovanni Agnelli che lamenta la sparizione di qualche bruscolino: 1,4 miliardi in nero, messi da parte, magari sotto il materasso, dal Padre. E tutto il gotha della Fiat è ora sotto scacco della Margherita. Una storia davvero italiana, tenuta sempre sotto tono, sullo sfondo, in modi soft, così ,tanto per non offendere la Sacra Famiglia Torinese, ormai avviata al ruolo di famiglia Adams. Soltanto il libero, informato e coraggioso Dagospia ne scrive, da par suo. Regalandoci anche la ciliegina sulla torta. Anche Cesare Romiti, presidente onorario di RcS, si preoccupava del nero Fiat, eccome. Pagava tangenti, come tutti, del resto. Ma pure lui s’era spacciato per concusso. L’eroico PM che già studiava da Caudillo, gli credette. E a proposito del nero Fiat? Nessun nero messo da parte per i partiti, sentina di ogni vizio, giurò in tribunale quel simpaticone di Romiti. Erano provviste speciali, fuori bilancio per la lotta al terrorismo. Geniale, vero. Peccato che l’altro ieri, un manager già al suo servizio, l’abbia clamorosamente smentito .Ma quale terrorismo, ha dichiarato il manager, i fondi erano neri, che più neri non si può. E gli avvocati di Cesare: no problem, è scattata la prescrizione. (l'Opinione)

mercoledì 10 giugno 2009

Sindrome del crac e sindrome del boom: le malattie di Pd e Pdl. Mario Sechi

Caro Direttore,
ti scrivo mentre osservo Piero Fassino in tv affermare che “c’è un consolidamento del Partito democratico e un arretramento del centrodestra rispetto alle politiche dello scorso anno”. Considero Fassino una delle persone più serie e intelligenti del Pd e per questo non voglio battere la facile via dell’ironia, accantono il paradosso e la sorpresa per cercare di esplorare le ragioni di queste sue parole. Non trovandole nei numeri (sono sotto gli occhi di tutti e non mi pare il caso di ripetere ciò che hanno scritto i giornali stamattina) ho provato a usare delle chiavi nuove per aprire la porta del pensiero fassiniano. Lo stesso mazzo di chiavi cercherò di usarlo per schiudere i cancelli dell’inconscio che alberga nel Popolo della Libertà.

Il pezzo è un movimento in tre tempi: premesse, conclusioni e mosse.

Premessa 1. La Sindrome del crac. Un partito che esulta dopo aver perso sette punti rispetto alle politiche del 2008 (33/26) evidentemente temeva un tracollo di proporzioni più ampie. Nel Palazzo circolavano nei mesi scorsi sondaggi che davano il Pd al 22%, il punto più basso toccato dalla gestione di Walter Veltroni. Il dato finale delle Europee dunque sembra un successo, quando in realtà è un disastro, inserito in un ciclo continentale supernegativo per i progressisti. Ciclo che non sarà di breve periodo se si guarda il proliferare di liste di destra e il cono d’ombra culturale in cui si è confinata la sinistra. Il tracollo dei socialisti in Europa dovrebbe preoccupare moltissimo i dirigenti del Pd, ma così non è. Neppure di fronte al fallimento nelle amministrative il Pd riesce a muovere verso una salutare seduta di autocoscienza per capire come mai perda al primo turno 15 amministrazioni provinciali su 50 e si appresti a perderne molte altre nei prossimi 22 ballottaggi. E’ un crollo sul territorio di enormi proporzioni che sembra non scalfire la certezza che “il Pd ha tenuto”. Perché? Siamo entrati nel mondo della politica virtuale, dove non contano i numeri reali, ma quelli immaginati nei sondaggi. Questa bislacca interpretazione del voto è pericolosa: tra un anno si vota alle regionali e senza una seria analisi il Pd rischia l’immersione rapida alla profondità del 22% evocata dai sondaggi. Basta fare un raffronto – inimmaginabile fino a ieri – con il livello toccato verso il basso dai socialdemocratici tedeschi (21%) e dal Labour party inglese (18%). E parliamo di voti veri e non di sondaggi.
Conclusione 1. Degli spettri. Un Pd che non ragiona sulla sconfitta finirà per materializzare i propri spettri.

Premessa 2. La sindrome del boom. Il Pdl viene descritto “in frenata” dopo aver perso due punti rispetto alle elezioni politiche. E’ un crollo? E’ una sconfitta? No. Ci sono validissime ragioni per sostenere il contrario. Ma anche in questo caso ci troviamo di fronte a un’analisi proiettata su un contesto virtuale e non reale. Il Pdl, pur avendo messo a segno il più importante risultato dei conservatori in Europa, si sente meno solido e forte dell’Ump di Nicolas Sarkozy, celebrato vincitore delle elezioni con meno undici punti finali sul tabellino. E’ lo stesso Pdl che ha vinto a man bassa le elezioni amministrative, ma non riesce a capitalizzare questa vittoria nella comunicazione. Perché? Anche qui, la base di partenza sono i sondaggi: sappiamo che ne circolavano alcuni che davano il Pdl addirittura al 45%. Il dato migliore possibile visto il contesto sarebbe stato il 38%, ma si trattava in ogni caso di una previsione imprudente, perché il governo è in carica da oltre un anno, la “luna di miele” è finita da un pezzo, il ciclo economico è ancora di recessione. In queste condizioni il risultato complessivo del Pdl è ottimo, ma la lettura offerta è minimalista proprio perché l’asticella virtuale era alta. Qualcuno dirà “meglio così, non si fan squillare le trombe”. E infatti non siamo di fronte a una questione di fiati, per il domani serve l’armonia degli archi. Le vere elezioni di mid-term per il centrodestra saranno, infatti, le regionali: saranno il test per l’azione del governo e per l’identità del Pdl. Anche in questo caso, una seria analisi del voto dovrebbe basarsi sul risultato delle urne, sulla dinamica e la geografia del voto.

Conclusione 2. Dei sogni. Un Pdl che non ragiona sulla vittoria finirà per smaterializzare i propri sogni.

Mossa 1. Organizzazione. I partiti dovrebbero leggere meglio i risultati di queste elezioni perché quello che abbiamo appena cercato di descrivere non è uno stato immobile, mentre i partiti che vogliono essere un segno permanente nella storia della politica non sono né il solo tocco di un leader né riducibili in forme organizzative “leggere”. Anche i partiti americani hanno una struttura tutt’altro che liquida, pensate al semplice fatto che gli elettori per votare si iscrivono in un registro. Il Partito Democratico ha 72 milioni di elettori registrati, il Partito Repubblicano ne ha 55 milioni, gli elettori indipendenti sono altri 42 milioni. I partiti hanno una dimensione nazionale e locale ramificata, al loro fianco proliferano istituzioni che lavorano nella società e hanno i più vari scopi. Non in Italia. Qui il numero di iscritti ai partiti è una parte piccolissima rispetto al corpo elettorale, la presenza delle organizzazioni politiche sul territorio è totalmente inadeguata, per non dire in gran parte assente. Così il Pd attende un congresso e si accontenta di fare quattro salti sul satellite con YouDem, il Pdl ha celebrato la sua assemblea costituente ma oggi si rende conto (forse) di aver bisogno di un coordinamento pieno e autorevole e una struttura solida e autonoma per far funzionare una realtà che si avvia a guidare non solo il governo nazionale, ma gran parte del territorio. Anche qui, finora è stata la dimensione virtuale a dettare l’agenda. Si è vissuti da una parte con la mitologia delle primarie fatte in casa, dall’altra con l’idea solo catodica della mobilitazione quando s’aprono le urne. E poi? E’ chiaro che né il Pd né tantomeno il Pdl possono continuare ad essere una forma partito “leggera” o, peggio, veltronianamente “liquida”. Il Pd deve ritrovare la perduta via dell’organizzazione e provare – ci vorranno anni – a innovare il linguaggio dei progressisti per non essere svuotato di senso proprio da destra, com’è accaduto finora. Il Pdl vede crescere le sue responsabilità sul territorio e non può pensare di vincere continuamente le elezioni per assenza dell’avversario. L’immobilità è per entrambi un pericolo, alla loro destra e sinistra infatti ci sono due partiti in pieno assetto da sbarco: Italia dei Valori e Lega Nord. Chi dice che questi due soggetti non saranno mai capaci di lanciare un’Opa sui movimenti più grandi si sbaglia e non tiene conto dell’assetto istituzionale futuro del Paese: l’Italia diventerà federalista e immaginare il territorio diviso di fatto in macroaree è un esercizio di pensiero corretto. L’Italia di domani sarà unita nelle istituzioni centrali, ma i governi regionali conteranno sempre di più e non ci sarà forza nazionale senza potere locale. Chi sono alla luce di questo scenario i partiti meglio attrezzati? La Lega, senza dubbi, che fin dai suoi albori è “movimentista”; i partiti regionali come l’Mpa di Raffaele Lombardo; la stessa Idv di Di Pietro, che nel Mezzogiorno pesa parecchio. Organizzazioni e strutture capaci di attrarre i consensi delle “Piccole patrie” dell’Italia dei 100 campanili. È la storia d’Italia. Forse non sempre unificanti ma spesso disgregatrici e capaci di trarre slancio dalla naturale forza centrifuga del federalismo fiscale.

Mossa 2. Identità e progetto. Pd e Pdl sotto molti aspetti hanno problemi comuni e a tratti speculari. Uno deve gestire la sconfitta e rilanciarsi, l’altro gestire la vittoria e consolidarsi. Il primo non ha ancora un leader e cerca un’identità e un progetto. Il secondo ha un leader ma deve migliorare l’identità e il progetto. Nel Pd c’è un equivoco irrisolto tra anima postcomunista e popolare, nel Pdl un rapporto tutto da creare tra gli ex di Forza Italia e An. Nel Pd c’è un sulfureo Massimo D’Alema che fa origami dietro le quinte. Nel Pdl c’è uno scalpitante Gianfranco Fini che vuol fare futuro davanti al palcoscenico. Nel Pd ci sono alleanze variabili e friabili. Nel Pdl c’è un alleato in crescita e in movimento come la Lega. Il Pd è in preda a forze centrifughe per assenza di potere. Il Pdl è nel pieno di una forza centripeta perché ha il vincolo del potere. In estrema sintesi: il Pd è all’opposizione, mentre il Pdl governa.

La situazione non è cristallizzata, la politica dovrebbe fare lo sforzo per niente sovrumano di immaginarsi nel futuro prossimo: in Italia nel 2030 l’aspettativa di vita sarà di 84 anni per gli uomini e 90 per le donne, l’invecchiamento della popolazione e i bassi livelli di fecondità faranno scendere i residenti a 51,9 milioni. Possiamo pensare che i partiti restino uguali in un Paese che cambia? Si può fare per una volta il gioco contrario della politica e cioè immaginare non il bacino potenziale massimo di elettori, ma quello minimo? Le elezioni europee ci consegnano un Vecchio Continente pieno di sconfitti. I sondaggisti non calcolano quanto un partito può perdere, ma i politici hanno il dovere di farlo, proprio per uscire dalle urne nuovi e vincenti e non frastornati da un imprevisto che in realtà era sotto gli occhi di tutti. (l'Occidentale)

Pd, tempo scaduto. Pierluigi Battista

Il partito democratico non può spendere i prossimi quattro anni congratulandosi per lo scampato pericolo del­l’autodissoluzione. I son­daggi più funesti pronosti­cavano un crollo rovinoso, ma con il 26,1 la sconfitta ha assunto dimensioni sop­portabili. Non si è materia­lizzato l’incubo della mar­cia trionfale di Berlusconi. La sinistra nel suo comples­so, malgrado la massiccia dispersione di voti, ha con­servato un cospicuo patri­monio elettorale. Ma le no­te confortanti per France­schini e il gruppo dirigente democratico finiscono drammaticamente qui: per il Pd è scaduto il tempo dei rinvii.

La distanza con il suo av­versario è di 9 punti per­centuali: un’enormità, vi­sto che il Pdl non è nemme­no nella sua forma più sma­gliante. L’ondata leghista ha invaso il cuore delle re­gioni rosse. Il partito di Ber­lusconi gode di un primato nella totalità delle circoscri­zioni. Nel Mezzogiorno il Pd rischia la sparizione. Lo scomodo Di Pietro non so­lo conquista voti, ma appa­re la personificazione di un messaggio forte, capace di attirare un’opinione pubbli­ca di sinistra sconcertata dall’immagine sbiadita dei Democratici. L’elettorato è disorientato e scoraggiato, e stenta a capire dove il Pd voglia andare, con chi, in quali forme, con quale lea­der.

A febbraio, con le trau­matiche dimissioni di Vel­troni, il Pd affidò a France­schini il compito di traghet­tare un partito stordito da una dolorosa sequenza di sconfitte. E se il nuovo (provvisorio?) segretario non ha nulla da rimprove­rarsi avendo recitato il suo ruolo con coraggio e digni­tà, le oligarchie del partito danno l’impressione di aver sotterrato l’ascia di guerra solo momentanea­mente. Il plebiscito che ha incoronato la giovane De­bora Serracchiani denun­cia l’attesa inappagata di un segnale di una svolta, se non di un nuovo inizio. Ma non viene indicata la data di un congresso. Le diverse linee politiche (che ci so­no, ma mimetizzate in una sfibrante guerra tra corren­ti) non vengono allo sco­perto. I maggiorenti del partito, imprigionati nel lo­ro ruolo di eterni padri no­bili, si consumano nel tatti­cismo e nel gioco incrocia­to delle candidature. Sulla prospettiva delle alleanze il buio è totale, nella laceran­te incertezza se guardare al centro, alla sinistra, oppu­re restare immobili. Ora, uf­ficialmente, si attende il giorno dei ballottaggi per riprendere il discorso inter­rotto con le dimissioni di Veltroni. Ma comincia a cir­colare autorevolmente la voce che la resa dei conti possa aspettare le elezioni regionali del 2010: sarebbe la scelta peggiore.

Perché forse l’elettorato democratico non aspetta un’avvelenata resa dei con­ti, ma una competizione aperta, democratica e leale tra i diversi filoni che com­pongono, non «amalgama­ti », il Pd. Una lotta politica chiara da cui possa scaturi­re una leadership destinata a segnare il percorso demo­cratico e a costruire un’al­ternativa credibile all’attua­le maggioranza. Dovrebbe essere questa, se non si è capito male, l’ispirazione fondante di un partito a «vocazione maggioritaria». La cui missione non può es­sere solo l’eroica resistenza per continuare a sopravvi­vere. (Corriere della Sera)

martedì 2 giugno 2009

Eva Espresso. Filippo Facci

Confesso, sono devastato dal caso Noemi. Perché vedete, io non mi sono mai tirato indietro nel criticare questo centrodestra e questo governo: ho contestato certe quote rosa del Pdl, la nomina della singola ministra sino a chiederne le dimissioni, ho scritto e potuto scrivere contro certo forcaiolismo anti-stupri e anti-romeni, soprattutto contro ciò che giudico un neo-asservimento antidemocratico a Santa Romana Chiesa, poi ancora sul caso Englaro, e, visto che il tema appassiona, aggiungo che rimasi male per l’epilogo del caso Mentana. Tutto questo, e altro, alimentò un peso complessivo. Bene: d’un tratto non lo sento più. Scomparso. Sparito. Eccolo l’effetto Noemi. Perché vedete: mi fanno così spettacolarmente schifo, questi parassiti intestinali della maldicenza, queste iene gossipare che da giovani volevano fare i giornalisti, da aver ricomposto in tre secondi quell’involuto dualismo bipolare, genere o di qua o di là, che sorseggiando un tè coi biscotti ci raccontavano che dovessimo assolutamente superare. Ma che volete superare. Non sono le guerre a dividerci, non è la politica a condannarci a questo bipolarismo idiota: sono i casi Noemi ad avere la capacità quasi violenta di ritrasformare l’avversario in un nemico. C’è solo da schierarsi, davvero. Io sto di qua, amici del gruppo Espresso. E voi mi fate schifo. (il Giornale)

lunedì 1 giugno 2009

Un velo d'ignoranza. Davide Giacalone

Sotto il velo islamico si celano ipocrisie e tanta ignoranza. E’ capitato al castello di Venaria, Torino: ai botteghini si trova una fanciulla velata, dei turisti se ne lamentano, la ragazza viene allontanata e le altre, per solidarietà, si presentano al lavoro velate a loro volta. Il presupposto è: se una ragazza è discriminata per un velo, ovvero per la fede islamica, è giusto stare dalla sua parte. Condivido, se non fosse che le cose meritano essere comprese meglio.
Ciascuno, per quanto me ne interessa, può mettersi in testa quello che gli pare. L’unica cosa rilevante è che le persone devono essere identificabili, per cui non deve attraversare la frontiera o entrare in un albergo chi pretenda di non farsi vedere in volto. Dalle nostre parti esistono i documenti di riconoscimento e non ammettiamo che le donne siano come le pecore al seguito del pastore, per cui quest’ultimo risponde del gregge. Posto ciò, c’è libertà di mascheratura.
Il velo, però, non è affatto un simbolo religioso, ma solo un costume. Non c’è alcun precetto della fede che imponga alle islamiche di velarsi, tant’è che ve ne sono di scoperte. E’ un’usanza, imposta nei regimi più retrivi e misogini. Non ha a che vedere con alcuna forma di rispetto o liberazione femminile, ma, al contrario, serve a rassicurare il maschio, padre, fratello, marito e padrone, circa il possesso della femmina, ridotta ad anonimato. Il velo, inoltre, è parte anche della nostra cultura (ammesso che qualcuno ne conservi memoria), ed anche da noi non è (era) un simbolo religioso, ma un costume che distingue il ruolo dei maschi da quello delle femmine: i primi, entrando in chiesa, si scoprono, le seconde si coprono. Analoga differenza si riproduce nel mondo ebraico, ma capovolto: i maschi coprono la testa, le femmine no.
Nelle tre religioni monoteiste la differenza per genere sessuale determina la sottomissione di quello femminile. L’evoluzione e la civiltà ridimensionano questo a gesti meramente simbolici, di cui, difatti, si dimentica l’origine. Interessante il segno dei tempi: era “liberazione” togliere il reggiseno e mettere la minigonna, ma ora, che da scoprire non c’è rimasto nulla, che il discinto è divenuto istituzionale, si solidarizza con chi vuole coprirsi e sottomettersi. Significativo, ma non incoraggiante.