martedì 31 maggio 2011

Cartoline con veduta sullla campagna elettorale. Marcello Veneziani

Basteranno due anni di governo della sinistra per rivalutare Berlusconi. È già accaduto negli anni precedenti. Io mi ricordo cosa scrivevano i giornali all’indo­mani del voto del 2006 che aveva premia­to la sinistra. Quadretti idilliaci di vita quo­tidiana, il Paese era felice e libero, si gira­va in bici e si amavano le proprie città... Un miracolo. Poi sappiamo come andò a finire. Litigi e paralisi, malgoverno e ingo­­vernabilità, fuga di voti. Ogni tanto il Pae­se ha bisogno di ricordarsi cos’è questa specie di sinistra per comprendere cos’è questa specie di destra. Va bene, Berlusco­ni è il male. Ma loro sono il peggio. Testa­to.
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Novità nel giornalismo italiano. Sono nati gli Articolo 31, ovvero i giornali che aggiungono trentuno righe agli articoli di fondo per dare la linea ai lettori. Linea an­tiberlusconiana, of course. Che avvenga­no queste cose impressiona, ma che nes­suno ne scriva e protesti sconcerta e scon­forta. In che mani servili siamo. Fortuna­to io che al Mattino e al Messaggero, dopo aver criticato Casini e l’Udc su Libero , fui defenestrato. Meglio morti che genetica­mente modificati.
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Io mi piglio meraviglia assai a vedere la gara furiosa per vincere a Napoli. Con i problemi che stanno, avvolti nella mun­nezza, dovrebbero fare a gara a scappare dalla guida di Napoli e dirsi l’un l'altro: Pi­gliatavella Vuie a Napule - ma pe’ carità, state prima vuie - ma ca dicite, ora tocca a vuie - nossignore, sciate innanze vuie. E chiamare infine un’agenzia di pulizie giapponese e appaltarle la guida, anzi la dittatura, della città.
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Gianfranco Fini è accusato di omicidio colposo per aver abbandonato in auto sot­to il sole rovente il piccolo Futuroelibertà, di pochi mesi. La creatura, ancora in fa­sci, è stata ritrovata senza vita; invano le è stata praticata la respirazione bocchino a bocchino. Lo strazio Della Vedova (Bene­detto) e il cordoglio per La Morte (Dona­to). Fini presiede la Camera ardente. Do­nati gli organi ai Tulliani. (il Giornale)

Il vento del Nord e quello del Sud. Arturo Diaconale

La doppia sconfitta a Milano e Napoli è bruciante ma prevista. Alla vigilia delle amministrative nessuno poteva pensare che i due anni di crescente contestazione nei confronti della maggioranza governativa da parte delle opposizioni politiche, giudiziarie e mediatiche potessero risultare prive di conseguenze.
Gli effetti di quegli attacchi sono stati la sconfitta al primo turno della Moratti e di Lettieri. Ed ora i risultati dei ballottaggi nelle due capitali del Nord e del Sud hanno confermato che la dura campagna di delegittimazione del centro destra, condotta con la criminalizzazione giudiziaria di Silvio Berlusconi e l’accusa di inerzia totale al governo, ha avuto successo.
Questo significa che è finita una fase politica e si apre una nuova stagione che sarà contrassegnata dall’avvento al governo delle città e del paese della parte politica ieri vincitrice a Milano ed a Napoli. L’entusiasmo con cui l’opposizione saluta i vincitori delle battaglie milanese e napoletana lasciano pensare che la risposta positiva sia scontata.
Ma la ragione spinge a considerazioni diverse. In particolare a considerare non solo che la vittoria di Pisapia è completamente diversa da quella di De Magistris ma anche che né l’una, né l’altra riescono a far intravvedere la possibilità di dare vita ad una qualche alternativa politica credibile all’attuale maggioranza di governo.
A Milano, infatti, ha vinto la borghesia progressista che si è contrapposta alla borghesia in minima parte liberale ed in massima parte clericale. Il vincitore non è un figlio del popolo, nato nella periferia o nei palazzi di ringhiera. E’ il rampollo di una grande famiglia entrata a far parte, con il padre Gian Domenico, della casta di quelli che contano all’ombra del Duomo.
E’ l’uomo di De Benedetti contrapposto a Berlusconi e Ligresti, l’uomo di Tettamanzi contrapposto a Formigoni e Comunione e Liberazione, l’uomo di Maria Giulia Crespi, dei cantanti impegnati, degli artisti progressisti, degli scrittori e degli stilisti incapaci di uscire dagli schematismi ideologici della loro giovinezza post sessantottina.
E’ Pisapia il personaggio che può impersonificare l’alternativa politica nazionale al blocco sociale dei produttori piccoli e medi, dei professionisti, degli operatori del terziario avanzato? Al massimo può essere il rappresentante del comitato d’affari del salotto buono progressista dell’area urbana di Milano interessato agli appalti dell’Expò.
Altro che vento del Nord! Al massimo la brezza dell’happy hour che si consuma tra Montenapoleone e via della Spiga. Ovviamente all’insegna delle narrazioni vendoliane!
A Napoli, invece, ha vinto l’esatto contrario. Non che la borghesia progressista napoletana non abbia appoggiato De Magistris.
Lo ha fatto nello stesso modo in cui aveva appoggiato a suo tempo Bassolino salutandolo come l’artefice del rinascimento napoletano. Ma dietro il trionfo dell’ex magistrato non c’è alcun blocco sociale ma solo una spinta plebea che ha occasionalmente una coloritura di sinistra ma che nei fatti ha una natura profondamente reazionaria e sanfedista.

Può l’ondata plebea del nuovo sindaco di Napoli rappresentare una credibile alternativa di governo non solo al centro destra ma anche ad una qualsiasi forma di alleanza riformista di centro sinistra? Altro che vento del Sud! Siamo ancora una volta ad una sorta di insorgenza alla Cardinal Ruffo priva di qualsiasi progetto di rilancio e di ricostruzione della città.
Che produce solo una temporanea “ammuina” di natura neoborbonica aggravata dalla pretesa di De Magistris di presentarsi ai propri elettori con il cappello frigio dei neogiacobino giustizialista.
Questo significa che il centro destra ha un qualche motivo di stare tranquillo? Niente affatto.
Berlusconi e Bossi hanno l’obbligo di mantenere i nervi saldi. Paradossalmente il risultato dei ballottaggi allontana la prospettiva delle elezioni anticipate. Ma debbono affrettarsi a correre ai ripari. Con le riforme. Quelle vere! (l'Opinione)
Ipse dixit

Ecco un Berlusconi berlusconiano

Berlusconi in Romania: "Non ho tempo di organizzare il mio funerale". Finalmente il Cav. dice una cosa berlusconiana.
Bussole

venerdì 27 maggio 2011

Terremoto colposo: il guaio di non essere maghi. L'uovo di giornata

La decisione a L'Aquila è arrivata dopo un'ora di camera di consiglio: Gian Michele Calvi e gli altri sei componenti della Commissione Grandi Rischi saranno processati il 20 settembre con l'accusa di omicidio colposo plurimo e lesioni per il mancato allarme prima che la terra a L'Aquila tremasse il 6 Aprile 2009.

L’accusa si basa sul verbale redatto subito dopo la riunione del 31 marzo 2009 dalla Commissione nel quale, stando all'accusa del pubblico ministero Fabio Picuti, non fu dato l'allarme terremoto violando le normali regole ispirate alla cautela.



Mago Merlino si è già costituito parte civile. (l'Occidentale)

giovedì 26 maggio 2011

La protesta delle donne saudite. Christian Rocca

Manal al-Sharif, 32 anni, è stata arrestata per aver rivendicato il diritto delle donne saudite a guidare l'automobile. In Arabia Saudita, paese che qualche bella testa continua a definire "moderato", le donne non hanno alcun diritto. Sono schiave, a causa dell'Islam. Ora c'è qualche imam "riformista" che sostiene possano guidare, perché ai tempi in cui fu scritto il Corano c'era qualche donna che "guidava" l'asino. (Camilloblog)

martedì 24 maggio 2011

L'outlook negativo di S&P sull'Italia è più politico che economico. Emanuele Canegrati

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L’agenzia di rating S&P ha tagliato nella giornata di sabato l’outlook dell’Italia da “stabile” a “negativo”, nonostante abbia confermato il rating A+ sul debito. Le motivazioni riportate dal documento ufficiale redatto dall’agenzia affermano che “le attuali prospettive di crescita sono deboli e l'impegno politico per riforme che aumentino la produttività sembra incerto” e che “il potenziale ingorgo politico potrebbe contribuire ad un rilassamento nella gestione del debito pubblico. Come risultato, crediamo che le prospettive dell'Italia per ridurre il debito pubblico siano diminuite”.

La notizia è giunta del tutto inaspettata, poiché la politica di rigore dei conti intrapresa dal ministro Tremonti aveva convinto le istituzioni europee ed internazionali. E a dire il vero, nemmeno in Italia esistono oramai molti dubbi sul fatto che la politica economica del Ministero dell’Economia e Finanze sia credibile e lungimirante. Certamente, il governo deve risolvere una volta per sempre il problema legato alla crescita e all'aumento della produttività, stagnante ormai da diversi anni. Tuttavia, il giudizio di S&P suona piuttosto stonato in riferimento alle notizie che giungono dall’economia nazionale.

Proprio la settimana scorsa l’Istat ha certificato un balzo in avanti degli ordinativi industriali per il mese di marzo, pari all’8,1% rispetto al mese di febbraio, soprattutto per via della crescita della domanda estera. Anche il fatturato delle imprese ha fatto registrare un incremento del 2% per lo stesso periodo di riferimento. Inoltre, secondo i dati forniti dal Bollettino delle entrate tributarie diffuso dal MEF relativo al primo trimestre del 2011, le imposte tributarie sono aumentate del 4,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, ritornando a crescere a dei tassi simili a quelli pre-crisi. Ancora, i risultati dell’attività di lotta all’evasione fiscale non sono mai stati così positivi, dal momento che gli incassi da ruoli relativi ad attività di accertamento e controllo hanno fatto registrare un boom del 30,4%. Risultati positivi confermati anche dai dati forniti dalla Banca d’Italia, afferenti agli incassi, i quali segnalano che l’incremento delle entrate è stato pari al 3,9%.

E allora, perché questo giudizio negativo? Le perplessità riguardano il fatto che la critica di S&P sembra più riguardare l’aspetto politico che quello economico. Il che è poco comprensibile, dal momento che il giudizio sulla sostenibilità di un paese dovrebbe prima di tutto scontare l’andamento delle variabili strutturali e solo in un secondo tempo soffermarsi sui rischi del quadro politico. Nel caso dell’Italia questo ordine è stato invertito. Il legare la sostenibilità del debito italiano alle scaramucce che il Governo sta vivendo in queste settimane è molto miope, dal momento che i litigi tra le varie componenti della maggioranza non hanno mai riguardato la strategia sul controllo dei conti pubblici. Il fatto che poi non si tenga conto dei miglioramenti relativi alle entrate e alla lotta all’evasione conferma l’impressione che il giudizio dato sia affrettato o quantomeno superficiale.

Le agenzie di rating, una volta persa ogni credibilità durante il crack Lehman Brothers, hanno deciso di assumere un’immagine più aggressiva, nel tentativo di recuperare il prestigio perduto, esprimendo un giudizio negativo dopo l’altro. E’ quindi successo che il debito della Grecia sia stato declassato a livello “junk” (spazzatura); che quello di Portogallo, Irlanda e Spagna sia stato rivisto al ribasso; che l’outlook sugli Stati Uniti, per la prima volta, sia stato rivisto in negativo. E intanto, ogni volta che un giudizio sfavorevole viene espresso, i mercati finanziari bruciano una montagna di denaro.

La domanda sorge spontanea: due anni fa le agenzie di rating dipinsero un quadro economico-finanziario completamente diverso dalla realtà; è possibile che anche questa volta si sbaglino? La risposta è sì. E’ inimmaginabile, infatti, pensare che in soli due anni la loro capacità di monitoring sui bilanci degli stati sia improvvisamente migliorata. Il problema è talmente sentito che pochi giorni fa la SEC (la Consob degli USA) è ritornata nuovamente ad esprimersi contro queste agenzie, a prosieguo di una diatriba avviata nel 2008 con la crisi provocata dal crollo dei mutui subprime, al fine di limitare la dipendenza dei mercati finanziari dalle loro valutazioni.

Per quanto riguarda l’Europa, si è a lungo discusso a proposito della necessità di creare di un’agenzia di rating europea, che finalmente si rendesse credibile agli occhi degli agenti economici e delle istituzioni. E’ auspicabile che se ne ritorni a parlare presto, poiché l'andamento della finanza degli Stati è diventato troppo dipendente dalle notizie di mercato e si sa perfettamente che le crisi finanziarie non nascono solo da motivazioni legate al cattivo funzionamento dell'economia reale (andamento del PIL, inflazione, etc.) ma anche da cause “self-fulfilling”, ovvero da fenomeni di auto-realizzazione, secondo i quali i mercati vanno male solo perché gli investitori credono che andranno male.

Non è tollerabile, coerentemente con quanto pensa la SEC, consegnare l’andamento dei mercati finanziari, monetari e valutari ai giudizi delle agenzie di rating, che con i loro annunci vanificano in pochi secondi il lavoro che i governi svolgono per mesi. E’ quindi giunto il momento di risolvere una volta per tutte il problema legato alla regolamentazione delle agenzie di rating, che se sbagliano devono pagare. Prima che i loro errori possano causare un'altra crisi finanziaria i cui costi li dovremo sopportare tutti. (l'Occidentale)

La parabola futurista: da Mussolini a De Magistris. Ipse dixit

Dice Italo Bocchino a Repubblica: "Nel '93, le elezioni che portarono Fini al ballottaggio a Roma e la Mussolini al ballottaggio a Napoli decretarono la fine del Pentapartito. E fecero posto alla Seconda Repubblica. Così la possibile vittoria di De Magistris a Napoli e quella molto probabile di Pisapia a Milano faranno posto alla Terza Repubblica". Finalmente Futuro e Libertà svela il proprio programma. Dalla Repubblica di Mussolini alla Repubblica di De Magistris. (l'Occidentale)

venerdì 20 maggio 2011

Al Gore dovrebbe prendere lezioni di stile da Sgarbi. l'Occidentale

Al Gore è il più tipico esempio di “sore loser”, il perdente risentito, quello che “nun ce vo’ sta”. L’etichetta se l’è guadagnata una volta e per sempre dopo la sconfitta alle presidenziali del 2000 contro George W. Bush, per le sue continue recriminazioni, per l’ odio anti-bushiano divenuto una vera ossessione. Il fatto incredibile è che Gore non fa che confermare la sua incapacità di incassare sconfitte con un minimo di stile.

Adesso è sbarcato in Italia e si è messo a piagnucolare davanti a un compiacente Beppe Severgnini perché – sostiene – Silvio Berlusconi gli avrebbe fatto chiudere la sua Current Tv. L’ex vice-presidente Usa si dice infatti convinto che se Sky Italia non ha rinnovato il contratto con il suo canale di news è perché questo dava fastidio al presidente del Consiglio e così, Rupert Murdoch, per fare un favore all’amico, avrebbe sacrificato Current.

Ecco la versione di Gore: “Siamo una televisione realmente indipendente. Per questo siamo stati i primi a mandare in onda Citizen Berlusconi o documentari che hanno mostrato che la sporcizia a Napoli c'è ancora. Ma News Corp sta cercando di entrare nel business del digitale terrestre però, per questo, ha bisogno del consenso di Berlusconi”. A vantaggio di Gore si può dire che conosce bene l’Italia, ha subito capito che se qui vuole ottenere qualcosa deve passare per un martire berlusconiano, una delle sue tante vittime. Infatti, subito dopo il suo grido d’allarme, sulla rete si sono aperti gruppi di fan e sostenitori che Gore non avrebbe mai pensato di avere ma che l’odio anti-Cav. ha subito chiamato a raccolta.

Conta nulla che Sky abbia spiegato i veri motivi della decisione di non rinnovare il contratto scaduto a Current. Secondo Sky l'ascolto medio giornaliero di Current Tv nel 2011 è stato finora di un totale di 2952 telespettatori, con una perdita del 20% rispetto ai 3.600 spettatori medi del 2010; nel prime time, purtroppo, tra il 2010 ed il 2011, la perdita di ascolti di Current TV è prossima al 40%. Per di più Gore pretendeva da Murdoch un incremento di retribuzione per il suo canale che secondo Sky, “mai preteso da nessun altro editore”. “Per queste ragioni – ha spiegato Tom Mockridge, il capo di Sky Italia – abbiamo preferito non rinnovare il contratto”.

Ma Gore non ci sta, è convinto, e ci vuole convincere che quei 2952 spettatori di Current che si sorbiscono ogni giorno le sue cianfrusaglie eco-paficiste, sono motivo di grande afflizione per il Presidente del Consiglio Italiano, al punto di consentire all’avversario Murodoch di sfondare nel business del digitale terrestre per non sentirne più parlare.

Non ci stupirebbe se, con l’aria che tira, qualcuno gli desse credito e tra twitter, facebook, popolo viola, libertà di stampa, Articolo21 e altri ammennicoli del genere si facesse pressione su Sky per salvare Current. Tanto per scendere in piazza contro il Cav., che sia Ruby o che sia Al Gore, tutto fa brodo.

Un solo consiglio all’ex vice-presidente Usa e al suo flop televisivo: prenda lezioni di stile da Vittorio Sgarbi.

Prepotenza fiscale. Davide Giacalone

Perseguire gli evasori fiscali e scucire loro il dovuto è cosa buona e giusta, ma … ma se per dire quel che segue si deve cominciare con una simile banalità vuol dire che siamo messi male. E lo siamo. La lettura della circolare numero 21, con la quale l’Agenzia delle Entrate ha iniziato la settimana, mette qualche brivido. E spiega molto di più di quanto non possano fare fiumi d’analisi a capocchia sul voto amministrativo: il cittadino, come le imprese, sono a disposizione dello Stato, ma non viceversa. La cosa, credetemi, non diffonde serenità e riconoscenza.

L’evasione fiscale, diffusa ovunque e prepotentemente forte in alcune regioni, segnala inefficienza dello Stato, persistenza di mercato nero, terreno di coltura per la criminalità e, alla lunga, perdita di sovranità su interi territori e attività. Non si può che combatterla. Ma, qualche volta, si ha la sensazione che la trincea venga scavata a casa e in azienda delle persone normali, magari non proprio totalmente in regola, ma oneste, mentre la tregua regni laddove agiscono le bande. L’evasione, inoltre, è anche un sintomo dell’eccessiva pressione fiscale e dell’insopportabile oppressione burocratica. E’ vero che non pagando le tasse si ha un vantaggio competitivo, o maggiori soldi da spendere in vizi e consumi, ma è anche vero che si corre un rischio. Se quest’ultimo è inferiore al costo della regolarità, ecco che solo la moralità o il prelievo alla fonte possono trattenere il contribuente. E non va affatto bene.

L’Agenzia delle Entrate agisce in sinergia con Equitalia. Il cittadino riceve avvisi di pagamento che si riferiscono a pratiche il cui numero non dice un accidente. Non solo devo farmi venire le palpitazioni, non solo devo correre a pagare, ma devo essere io a premurarmi di capire il perché. Non è giusto: vuoi dei soldi da me? dimmi tu il perché e il per come. Se mi chiedono dei soldi e ritengo che non siano dovuti cerco di oppormi, da quel momento il fisco mi considera non in regola. Se non sono in regola e devo avere altri soldi dallo Stato questo si rifiuta di darmeli. Quindi: per il solo fatto di essermi opposto a quello che considero un sopruso, o di non avere pagato una rata, lo Stato mi nega soldi cui ho diritto. Potrebbe anche andare bene, se fosse reciproco: visto che lo Stato è un pessimo pagatore, facendo attendere tempi intollerabili, al momento di pagare le tasse non verserò un tallero, perché la controparte non è in regola. Questo sarebbe un rapporto equo, in un’Italia equa, ma non è così che stanno le cose, e mi mandano Equitalia.

Dal primo luglio prossimo gli avvisi d’accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate diventeranno esecutivi entro 60 giorni. Già dopo 30 la riscossione sarà affidata ai concessionari, vale a dire che il cittadino e le aziende saranno messi nelle mani di privati che puntano ai loro denari. Nel decreto sviluppo (bel nome, proprio adatto!) hanno acconsentito a che sia sospeso il pagamento del 50%, ma solo per 120 giorni, se richiesto. Salvo che i tempi della giustizia fiscale mica li detta il cittadino.

Tutto questo, e altro ancora, fa un baffo alla camorra o alla ‘ndrangheta, tanto quelli riciclano denaro che viene dal crimine, ma ammazza le imprese che i soldi li prendono in banca (senza prima mascherarsi) e le famiglie che si vedono taglieggiare da quell’imposizione fiscale parallela che sono le multe. Per giunta con un sistema dove il mancato pagamento innesca un crescendo rossiniano d’interessi, che se fosse praticato all’angolo del vicolo si chiamerebbe strozzinaggio. Chi vive nel mondo reale queste cose le conosce, sicché spesso pesano più dei presunti toni delle campagne elettorali, o delle esercitazioni in scurrilità comiziante.

Torniamo alla banalità inziale: contrastare l’evasione è giusto. Vero, ma la politica consiste nello spiegare qual è la parte piacevole e collettivamente rilevante. Perché se serve solo ad alimentare la spesa pubblica, sospetto che anche gli evasori potrebbero contare su una certa popolarità. Allora, prima di tutto il governo faccia la cortesia di presentare la tante volte annunciata riforma fiscale. Non la cancellazione di una tassa e l’innalzamento dell’altra: la riforma. Giulio Tremonti ha più volte detto di volere spostare la tassazione dalle persone alle cose. Che significa? Forse: smettiamola di tassare i redditi e tassiamo i consumi, con il che non servono più neanche gli accertamenti. Siccome, però, questo non è un gioco d’indovinelli, chi governa abbia la compiacenza di calare le carte. Grazie.

Poi si dia sostanza a quell’altra cosa misteriosa: il federalismo fiscale. Più o meno dovrebbe essere: i soldi restano nei pressi del contribuente. Posto che il debito e la spesa pubblica ciucciano via quasi tutto, ho l’impressione che resterà poco. Ma, comunque, vediamo. Se non si passa al concreto, però, la gente ha diritto di credere che possa essere qualche cosa di simile al dissennato federalismo sanitario, introdotto dalla sciagurata riforma del 1999 (Bindi) e santificato dall’orrenda riforma costituzionale del Titolo quinto, 2001 (maggioranza di sinistra), il cui risultato è: debiti fuori controllo, tangenti a manetta (ma con poche manette), professionalità umiliate, clientelismo sistemizzato e malati che lasciano le regioni del sud per farsi curare al nord. Aridatece Tiziano Tersilli.

martedì 17 maggio 2011

La Moratti si guardi dal "futurista". Ipse dixit


Filippo Rossi ha annunciato che al secondo turno sosterra' Pisapia contro la Moratti. Pare che il direttore del finiano "Futurista", in vista dei ballottaggi, abbia chiesto il permesso di far votare a Milano i sei elettori che l'hanno votato a Latina dov'era candidato al consiglio comunale. (l'Occidentale)

venerdì 13 maggio 2011

Skype docet. Davide Giacalone

Nessuno creda che gli 8.5 miliardi di dollari che Microsoft scuce per avere Skype siano un affare per borsaioli o appassionati di nuove tecnologie, perché puntano dritto alle tasche di tutti e la dicono lunga su com’è cambiato e cambia il mondo della comunicazione. Nessuno è fuori da questo mercato, perché nessuno è privo di strumenti che usiamo per telefonare e comunicare, ma a loro volta generano informazioni su quel che facciamo, ci piace e saremmo disposti ad acquistare. Ciascuno di noi si lascia alle spalle, in continuazione, una bava digitale che ne descrive il profilo. La partita economica si gioca sulla proprietà e l’utilizzabilità delle banche dati e della clientela, con effetti niente affatto scontati.
Skype è un sistema conosciuto da molti utilizzatori di computer, che consente di scambiare messaggi e videochiamare gratis. La domanda che molti di questi cittadini si pongono, oggi, è: come fa a valere tanto quel che io uso senza pagare? Risposta: non è il fatturato a segnare il valore del sistema, ma la quantità di persone che lo usano e la sua semplicità. Già, ma da dove arrivano i soldi?

Nel 2005 Skype era stato venduto dai fondatori (uno svedese e un danese) a eBay, per 2.6 miliardi di dollari. Soldi benedetti, per chi vendette, ma buttati, per chi comperò e non riuscì a valorizzare il giocattolo. Quindi se ne disfece, a prezzi di saldo, tanto che finì nuovamente nelle mani dei creatori (nel frattempo divenuti assai più ricchi). Ora Microsoft paga 3 volte il valore di due anni fa, 10 volte il fatturato e 32 volte gli utili una società in perdita. E’ vero che una parte del traffico è a pagamento (quando si chiamano telefoni fissi o mobili non connessi a internet), ma si tratta di una percentuale minima. Sono impazziti? No, affrontano una scommessa ragionata: non solo la banca dati che Skype si porta dietro, e quotidianamente genera, è preziosa, ma il servizio è così accattivante e semplice da potere essere un’ottima attrattiva per piazzare terminali. E se una volta la polpa delle telecomunicazioni stava nella vendita del traffico (la bolletta, per intendersi), ora è nei terminali e nei servizi. Attenti alle conseguenze.

Quando un ragazzo chiede di avere una piattaforma per i giochi non si comporta come quando noi chiedevamo la bicicletta, aspirando a due ruote, i pedali e la catena, ma indica una marca. Lo fa perché a quella sono legati determinati giochi e una determinata comunità di amici. Se prendi i giochi di una piattaforma non li puoi usare nell’altra, che è come dire che se compre i dischi di una marca non li puoi sentire sullo stereo di un’altra. Lui lo sa. Skype, ad esempio, sarà montato su Xbox, consentendo la comunicazione gratis (in realtà si paga la connessione, ma la si paga comunque, anche se si fa l’eremita).

Fra i più cresciuti c’è chi sceglie il proprio telefono perché è bello esteticamente, chi per moda, chi per i servizi che offre. Questi ultimi sono i più comici, dato che la gran parte di loro si limita a funzioni rudimentali (come i tanti che s’aggirano con i tablet, non sapendo cosa farne e, soprattutto, non sapendo dove ficcarseli). Conoscendo il mercato i produttori mettono il turbo alle innovazioni, in modo che il tuo vanto di ieri sia il rudere di domani. Tutti i fabbricanti di terminali tendono a pensare che sia proprio il cliente che ha in mano un loro prodotto. Siccome telefona, e per farlo ha bisogno di un abbonamento, anche la compagnia telefonica lo considera un proprio cliente. Se opera con la propria banca, per via telematica, anche la banca lo considera un proprio cliente. Sicché, nel fare certe operazioni, ciascuno di noi è, contemporaneamente, cliente di troppi. Chi comanda, allora? I produttori dei terminali. Sono loro che dicono alle banche: se vuoi che i tuoi clienti operino devi adeguarti alle nostre condizioni. E vale la stessa cosa per chi vende musica, giochi, informazione e via elencando. Se esistesse l’antitrust mondiale, dovrebbe occuparsene.

Gli operatori telefonici si salvano? No. Skype ne è l’esempio, in generale lo è il wifi: grazie a questi sistemi pago la connessione, ma non pago più le telefonate. Le Telecom erano padrone, ora sono facchini che portano in giro la merce altrui.

Riassumendo: i soldi sono i nostri, non spesi in telefonate ma in telefoni, sistemi operativi, tablet e computer; l’affare consiste nell’appropriarsi del cliente, fregando gli altri che lo ritengono proprio; la ricchezza non va verso chi allarga la rete, ma verso chi blinda gli ingressi, in modo da non farsi scappare clienti cui, per altro verso, vende meraviglie in continuo aggiornamento. Rimane un problema (a parte quelli di privacy e libertà di mercato): nel mentre Bill e Steve diventano sempre più ricchi, chi remunera l’evoluzione della rete? Questo è il punto debole del modello. Mentre noi italiani, inventori del telefono, detentori di quella che fu una grande multinazionale delle telecomunicazioni, nonché pionieri della telefonia mobile di massa, siamo riusciti ad essere solo consumatori. Felici di privatizzazioni dissennate e senza mercato, utili solo a strangolarci con le nostre stesse mani.

mercoledì 11 maggio 2011

Tanti auguri, Presidente. Dimitri Buffa

Tanti auguri, presidente Corrado Carnevale. Oggi lei compie 81 primavere e nonostante alcuni suoi colleghi abbiano fatto di tutto perché lei a questo importante traguardo non ci arrivasse vivo o comunque libero e soprattutto così in forma, a dispetto di tutto ciò ce l'ha fatta. Dopo che lo scorso governo Berlusconi è stato costretto a varare una legge ad hoc per risarcirla della ingiusta e lunghissima "squalifica" subita come magistrato a causa di  ingiuste accuse di falsi pentiti cui un Csm sempre pronto e sempre prono ai desiderata del partito delle procure, non è parso vero poterci credere, lei è stato riammesso in ruolo. Tuttavia, con una serie infinita di cavilli e di intoppi burocratici, sono riusciti a tenerla lontano da quel posto di primo presidente della corte di Cassazione che avrebbe sicuramente meritato in virtù della sua preparazione e del suo garantismo.

Due concetti che fanno a cazzotti con il populismo e il forcaiolismo imperante in Italia. Anche in parte della magistratura. Ora che sembra che il Consiglio di stato le darà ragione ridandole anche il ruolo di presidente di sezione che qualcuno aveva provato a toglierle in virtù di un artificioso computo degli anni che lei avrebbe ricoperto quella carica, noi che l'abbiamo sempre stimata, e  voluto bene, oltre ad augurarle altri cento di questi giorni, lanciamo lì una proposta che per forza di cose verrà giudicata provocatoria dal popolino dei talk show televisivi: regaliamo a Corrado Carnevale un posto da senatore a vita o, in alternativa, promuoviamolo giudice costituzionale, così da portare anche in quell'ormai un po' triste consesso una ventata di preparazione giuridica e un po' di serietà meritocratica. Ci sommergeranno di insulti ma non importa: per lei questo e altro, caro presidente Corrado Carnevale. (notapolitica.it)

Pazza idea. Davide Giacalone

Domenica prossima si vota, ma possiamo anticipare il risultato: vince il centro destra. Perché gareggia da solo. I temi, i ritmi e anche le sedi della campagna elettorale sono stati fissati dal centro destra, con un unico argine: il Quirinale. Al punto che l’unico sprint in corso è quello interno all’area di governo, avendo come antagonisti berlusconiani e leghisti. La sinistra, dal canto suo, non corre i rischi del povero Wouter Weylandt, non c’è pericolo prenda troppa velocità in discesa: sono al bar, intenti a guardare la telecronaca delle elezioni e a fare il tifo da estranei.

Non a caso i giornali e i commentatori parlano tutti di Milano, l’unica grande città in cui il centro destra può (teoricamente) perdere. Vincerà. Letizia Moratti continuerà il suo lavoro di sindaco. Ma tutti sono intenti a valutare quali sono i rapporti di forza interni, quali saranno i tempi delle elezioni (se si chiuderà la partita al primo turno), quale il risultato nei comuni vicini, dove, talora, il centro destra si presenta diviso. In tutto quel che si osserva non entra mai la sinistra, vissuta come il mero contenitore delle schede deposte dai cittadini che si recano ai seggi, ma non votano per il centro destra. Voti per antipatia, insomma, per esclusione.

In altre grandi città, invece, è la sinistra a potere perdere. Ma anche lì, la gara non ha sostanza politica, perché hanno già perso. A Torino avevano un candidato con i fiocchi, capace di lanciare un segnale incoraggiante alla sinistra di tutta Italia: Francesco Profumo, rettore del Politecnico. Gli hanno preferito Piero Fassino, anche in questo caso lanciando un segnale generale: finché sopravviveranno gli ex comunisti non lasceranno spazio a nessuno, anche a costo di cloroformizzare le città. Passare da Chiamparino a Fassino significa camminare all’indietro. A Bologna pure un militante attento e fedele alla sinistra, come Gianfranco Pasquino, annuncia che se non fosse per la disciplina e la coerenza con se stesso voterebbe per la Lega, sbracciandosi nel complimentarsi con Giulio Tremonti e apprezzando un mameliano Umberto Bossi. In quanto alla buona amministrazione, sotto la torre degli Asinelli non ci credono più neanche i somari. A Napoli non ne parliamo: il sindaco uscente se la prende con la sinistra e il mitico Antonio Bassolino avverte sui pericoli di mollare il potere. Non sono riusciti a trovare neanche un candidato, dovendosi appoggiare al prefetto.

Tutto questo avviene in uno scenario nel quale tutti i grandi governi occidentali hanno perso le elezioni amministrative o di medio termine. E’ successo negli Stati Uniti, in Francia, in Germania. In Inghilterra hanno esagerato: le ha perse il governo che c’era quando il centro destra vinse le ultime politiche, nel 2008, e le ha perse anche il governo successivo, d’opposto colore. Da noi, invece, recessione, scissioni, inquisizioni e sputtanamenti non sono riusciti a produrre una sola sconfitta del centro destra. Vedremo il prossimo lunedì, conteremo quanti voti sono andati ancora a Silvio Berlusconi e quanti gli sono sfuggiti, unendosi al blocco del rifiuto. Non riusciremo, però, a contare quanti ne ha presi l’opposizione, perché, lo ripeto, la gara la fa uno solo. Se vince, se non riesce ad inciampare sui propri errori (ieri un neo sottosegretario ha battuto il record di velocità al campionato della stupidità, così imparano a selezionarli così acuti e pensosi), confermerà la tenuta, altrimenti i voti degli altri saranno solo la misura della sua sconfitta, non dell’altrui vittoria. Il che, in politica, come in tanti altri aspetti della vita (si ricordi la Patty Pravo di Pazza idea), è un successo.

lunedì 9 maggio 2011

Non c'è soltanto Aldo Moro. Roberto Bianchi

1. La Repubblica riconosce il 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Aldo Moro, quale “Giorno della memoria”, al fine di ricordare tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice.
‎2. In occasione del “Giorno della memoria” di cui al comma 1, possono essere organizzate, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, manifestazioni pubbliche, cerimonie, incontri, momenti comuni di ricordo dei fatti e di riflessione, anche nelle scuole di ogni ordine e grado, al fine di conservare, rinnovare e costruire una memoria storica condivisa in difesa delle istituzioni democratiche.
Questo il testo stringatissimo della Legge 4 maggio 2007, n. 56, votata del governo Prodi (quello con 105 sottosegretari), che ha istituito la ricorrenza che tutti i tg oggi hanno amplificato, vuoi per attaccare sottotestualmente Berlusconi a proposito delle sue critiche ai magistrati, vuoi per incensare ulteriormente la figura del presidente della Repubblica.
Sono andato a cercarmela perché, forse per una inguaribile allergia a tutte le forme di retorica e di ipocrisia, e alle liturgie attraverso le quali il potere si difende e si perpetua, e soprattutto alla marmellata dell’informazione italiana, volevo proprio leggermelo con i miei occhi il testo. Devo dire che, come spesso mi succede guardando le dichiarazioni altisonanti di cui la politica italiana è inflazionata, i sospetti e le perplessità non se ne sono andate (come invece avrei gradito) .
Innanzi tutto devo dire che mi lascia piuttosto perplesso che il nome del politico Moro (statista, per molti, lo è diventato  solo dopo il 9 maggio 1978) venga ad assumere, essendo l’unico citato nell’articolo di legge, l’importanza di un simbolo e, soprattutto, ridimensioni ulteriormente i nomi di tutte le altre vittime, anche sconosciute, della stagione terrorista. Menzionare uno e uno solo, infatti, fa scomparire gli altri ed invero è proprio per evitare questo effetto, per esempio, che è stato creato il monumento al Milite ignoto.
Per quanto mi riguarda aggiungerei che quando penso alle vittime di terrorismo e stragi penso subito a Piazza Fontana (senza colpevoli), a Piazza della Loggia(idem), all’Italicus (…), alla stazione di Bologna (colpevolezze piuttosto controverse quelle di Mambro e Fioravanti e da loro peraltro sempre rigettate). Penso cioè a tutte quelle persone rimaste esanimi per terra, gente politicamente “ignota” come il Milite e forse, proprio per questo, ancora più “pesante”. Solo in un secondo momento nella memoria mi affiorano i nomi di alcuni magistrati, di alcuni giornalisti, di Guido Rossa.
Circoscrivendo il ragionamento intorno a Moro c’è da rimarcare che la strage è stata perpetrata il 16 marzo, quando sul selciato rimasero i cadaveri della scorta (nomi, questi, che nessuno si premura di far ricordare con apposita legge). Il 9 maggio ci fu l’assassinio del parlamentare democristiano dopo che il partito della fermezza aveva battuto quello della trattativa e dopo che le ricerche e le intuizioni (compresa quella che avrebbe visto proprio Prodi fra gli altri assistere ad una seduta spiritica) non avevano portato a nessun risultato.
Soltanto tre anni dopo il partito della fermezza si sarebbe sgretolato quando ad essere rapito fu l’assessore campano (e Dc) Ciro Cirillo, che riuscì a tornare a casa dopo 89 giorni di sequestro. (the Front Page)

venerdì 6 maggio 2011

Benzina al verde. Carlo Stagnaro

Negli scorsi giorni il prezzo della benzina ha raggiunto livelli record, e il costo del petrolio da solo non spiega un tale balzo che rischia di dare un altro brutto colpo all’economia italiana. Il problema resta, anche se ieri il prezzo dei carburanti, sui mercati internazionali, ha conosciuto una lieve flessione, a maggior ragione quando la contrazione del Brent (che ha ceduto 7 dollari al barile) si propagherà sul valore dei prodotti raffinati. Eppure, la benzina a 1,6 euro – contro poco più di 1,4 all’inizio dell’anno – ha lasciato un segno profondo non solo sul portafoglio, ma anche nell’immaginario della gente.

Che cosa è successo? Sono intervenuti almeno tre fenomeni: l’aumento delle accise di 0,73 centesimi (saranno 0,92 dopo il 1° luglio), l’“effetto Libia” sul greggio e il rafforzamento del dollaro. Se si tiene conto di questi fattori, gli andamenti italiani non sono anomali, come ha evidenziato l’Unione petrolifera. Se, però, la variazione dei prezzi è “normale”, è anomalo il loro livello. In Italia, infatti, fare il pieno costa di più. Come è possibile? Per avere la risposta, bisogna distogliere lo sguardo dagli elementi congiunturali e concentrarsi su quelli strutturali. A partire dal fisco.

Ai prezzi di ieri, secondo Eurostat, gli automobilisti italiani pagano 83,6 centesimi di tasse per ogni litro di benzina, e 67,6 per il gasolio: peggio di noi Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Paesi Bassi, Svezia, Regno Unito, Grecia e Portogallo, tutti paesi (tranne gli ultimi due) con un reddito pro capite ben più alto. L’elevata tassazione ha un effetto perverso: non solo contribuisce ad alzare l’asticella, ma amplifica le oscillazioni verso l’alto perché l’Iva (Imposta sul valore aggiunto) aggiunge il 20 per cento tanto alle accise, quanto al prezzo industriale. Quest’ultimo deve remunerare anzitutto la materia prima, che non è il greggio ma lo specifico prodotto (benzina o gasolio).

Poi ci sono i vari costi di distribuzione e stoccaggio e, infine, i margini netti di compagnie e gestori. In Gran Bretagna, il cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, ha tagliato le unghie al fisco: per rispondere al rialzo petrolifero, ha cancellato l’aumento delle accise di 4 pence – inizialmente previsto per aprile – e le ha ulteriormente ridotte di uno. (Mettendo su tra l’altro uno “stabilizzatore strutturale” del prezzo della benzina per il futuro).

Come è stato possibile, dati i vincoli di finanza pubblica? Semplice: il Regno Unito è un paese produttore di petrolio, quindi si aspetta di recuperare il mancato gettito con l’aumento dei tributi pagati dalle compagnie petrolifere che estraggono petrolio e gas nel Mare del nord. Aumento, è bene specificarlo, del gettito, non delle aliquote, dovuto semplicemente al maggior valore del barile.
Oltre al fisco, in Italia pesa l’insufficiente liberalizzazione. La Francia è riuscita a combattere l’inflazione petrolifera grazie all’ingresso massiccio della grande distribuzione, che ha una quota di mercato di quasi il 52 per cento. Grazie a una rete con meno impianti (solo 2,68 ogni 100 chilometri quadrati, contro i nostri 7,27) e un erogato medio molto più voluminoso (3,6 milioni di litri all’anno, da noi sono la metà) il paese transalpino ha creato un suo modello di efficienza.

Altri paesi, pur senza una grande distribuzione così ingombrante, hanno ottenuto risultati simili consentendo una migliore organizzazione attraverso l’ingresso di nuovi soggetti e la chiusura degli impianti troppo piccoli.

In un’indagine dell’Istituto Bruno Leoni relativa al primo semestre 2010, è stato certificato che la presenza delle pompe nei supermercati in Italia può indurre riduzioni anche nei distributori circostanti, con un potenziale risparmio di quasi 200 milioni di euro all’anno.

Il problema di fondo, però, sta nel guardare il dito anziché la luna: se i prezzi aumentano ovunque, aumenteranno pure in Italia. Ma non dovrebbero essere sistematicamente più alti. Anche qui, l’efficienza è figlia della concorrenza.

Non so neppure che giorno è. Fabrizio Rondolino

È la prima volta che mi si dedica un editoriale, e per di più con il mio nome nel titolo (seppur maliziosamente storpiato): e siccome sono un esibizionista, per prima cosa voglio ringraziare il Fatto. Non scherzo: soffro se nessuno s’accorge di me, non se qualcuno m’insulta.

Travaglio, a dire il vero, non è proprio che insulti: secondo me ha un modo di argomentare fascistoide, da convinto manganellatore, ma lo stempera in una prosa effervescente e ripiena di neologismi e soprannomi che, prima di tutto, fanno ridere. Così io sono diventato Rondolindo, che deriva da Olindo, che è il soprannome malandrino che Travaglio, in onore del noto massacratore di famiglie, ha affibbiato a Sallusti, direttore del Giornale con il quale collaboro. (Questa cosa me l’ha spiegata un amico più informato di me; io pensavo che il riferimento fosse a Mastro Lindo, visto che sono pelato e ciccione. Ad ogni modo mi ha fatto ridere, non mi ha fatto arrabbiare.)

Nel merito, Travaglio critica un mio pezzo apparso sul Giornale nel quale invito a non considerare Brusca una fonte attendibile per ricostruire la storia politica degli ultimi anni. La sua risposta, tuttavia, manca il bersaglio, perché rimane prigioniera di una visione giustizialista della politica (e della storia).

Che cosa significa qui ‘giustizialista’? Travaglio cita una serie di circostanze, episodi, testimonianze e dichiarazioni dalle quali si intuisce che fra l’entourage di Berlusconi e Cosa nostra possano esserci stati rapporti indiretti o addirittura diretti. E’ possibile: ma questo non fa di Berlusconi un mafioso. Non si ricostruisce una vicenda politica complessa – quella della continuità storica del rapporto fra politica, poteri dello Stato e criminalità organizzata, che sicuramente ad un certo punto avrà intersecato anche Forza Italia – con gli indizi e le prove che un tribunale può raccogliere e dibattere. Un processo può stabilire una verità fattuale – Tizio ha fatto ammazzare Caio – ma non un sistema di relazioni che, per quanto moralmente e politicamente discutibili, non soltanto non hanno un profilo criminale, ma costituiscono la modalità fondamentale di gestione del potere in Sicilia e altrove dall’Unità d’Italia in poi.

Il caso Andreotti è emblematico, perché segna il passaggio dal metodo Falcone al metodo Caselli, tuttora in vigore. Falcone, che ad un certo punto negò l’esistenza del “terzo livello” che tanto eccitava la fantasia dei professionisti dell’antimafia, considerò sempre un errore la tentazione di “buttare in politica” le indagini sulla mafia, proprio perché convinto che i tribunali dovessero occuparsi di fatti specifici, lasciando agli storici il compito di disegnare gli intrecci di potere della Prima repubblica. Falcone, com’è noto, morì isolato e sconfitto.

Il metodo Caselli rovescia il metodo Falcone: anziché i fatti ricostruiti indizio dopo indizio, il teorema dedotto da quegli stessi indizi, i quali poi faticano, com’è naturale, a diventare prove. Il risultato è che dopo 11 anni di processi non esiste una verità processuale sul caso Andreotti, né esisterà mai. Ma se io voglio sapere chi fosse Andreotti, e quali rapporti intrattenesse con Cosa nostra, devo leggermi il lavoro di uno storico, non quello di un pm (o magari vado a vedermi il film di Sorrentino).

È questa la differenza fra Travaglio e me. Lui crede che un processo possa stabilire una verità politica e storica; io credo che possa, tutt’al più, stabilire la veridicità di un singolo fatto. Non c’è niente di male a pensarla in modi diversi, e può anche capitare, col tempo, di cambiare idea. Io per esempio credevo alla verità della storia, cioè alla perfettibilità progressiva e infinita dell’organismo sociale: ora penso che funzioniamo esattamente come gli dèi e gli eroi di Omero, e che così sarà fino a che il Sole risplenderà su questa Terra – e che dunque il compito della politica non è costruire la società futura, ma ridurre il fardello con cui la società presente in ogni tempo grava sulla libertà degli individui.

Mi piacerebbe soltanto che Travaglio accettasse l’idea che, nella lotta contro il Male e contro i cattivi, si può anche pensarla diversamente; che oltre a Caselli e Ingroia ci sono stati anche Falcone e Borsellino; e che ricostruire la storia con il meccano delle inchieste e delle sentenze non è molto diverso dal cercare la formula chimica della felicità. Sarebbe bello, ma non funziona.

Infine, è vero che qualche volta “non so nemmeno che giorno è”. Forse Travaglio voleva sfottere ma, di nuovo, mi ha fatto sorridere. Perché effettivamente non sento più quel furore che ritrovo in Travaglio, l’adrenalina del militante per la giusta causa, l’impeto robespierrista che sta all’origine di tutte le sinistre del mondo. Sono più svagato, ecco, e naturalmente più disincantato. Ne deriva, anziché il cinismo che pure conosco e pratico, un certo distacco che a volte riesce a trasformarsi in benevolenza (come sempre dovrebbe, in una vita felice). È vero, Marco, a volte non so nemmeno che giorno è. (the Front Page)

mercoledì 4 maggio 2011

Brunetta morde: "Sinistra mi fa schifo, poveri senza idee: moralmente inferiori". Tommaso Montesano

«Non ne posso più di questa sinistra col ditino alzato. Ma da quale pulpito arriva tanta arroganza? Sono solo dei poveretti, relitti del passato senza identità. Con tutti i suoi difetti, la superiorità della classe dirigente di centrodestra è indiscutibile». Nei giorni in cui l’opposizione, grazie alle prime crepe dell’asse Pdl-Lega causa politica estera, prova a rialzare la testa, Renato Brunetta, ministro per la Pubblica amministrazione e l’Innovazione, invita gli alleati a concentrarsi sul bersaglio comune: il centrosinistra. «Quando vediamo Bersani, D’Alema e Fassino ergersi a moralizzatori, dobbiamo reagire. Ma come, questi mestieranti della politica le hanno sbagliate tutte e ci fanno pure la predica? Imbrogliano pure sul nome».
Sul nome?
«Si fanno chiamare centro-sinistra, mentre in realtà non sono altro che una sinistra-centro. Sa come li chiamo io?».

Prego, ministro.


«Camaleonti, transfughi, paguri. Proprio come quegli animaletti che, non avendo una casa propria, si infilano in quella degli altri. Sotto la sabbia o nelle conchiglie».

Al Partito democratico si definiscono riformisti.
«Non sono più nulla. Non sono più comunisti, non sono liberali, non sono mai diventati socialdemocratici. Sono solo dei naufraghi del potere».

Non è troppo duro?

«Vogliono il potere, ma non riescono a ottenerlo per via democratica. Così sono disposti ad allearsi anche con il diavolo pur di conquistare il Palazzo. Le elezioni non le vincono mai».

Nel 1996 e nel 2006 ha vinto il centrosinistra.

«Ma non con la sua faccia. Hanno sempre avuto bisogno di un papa straniero. Prima Romano Prodi, adesso magari Luca di Montezemolo».

Insomma, nonostante le difficoltà della maggioranza, l’opposizione non le fa paura.

«Non hanno più alcuna base sociale di riferimento. Non hanno alcuna ricetta di politica economica. Difendono i fannulloni della Pubblica amministrazione e i baroni dell’università. Proteggono le rendite parassitarie delle public utilities. È una sinistra fuori dal mondo che mi fa leggermente schifo».

Per voi di centrodestra non è sempre stato così?

«Sì, ma oggi con questa classe dirigente di perdenti che si ritrovano, il difetto si è accentuato. Perché di fronte hanno il riformismo del centrodestra. Chi ha fatto la riforma della scuola, delle università, della pubblica amministrazione?».     

Il suo giudizio vale anche per le sinistre europee?

«Certo che no. La socialdemocrazia tedesca ha avuto a sua Bad Godesberg, i comunisti francesi si sono suicidati. In Italia tutto questo non è successo. Qui non c’è Tony Blair, ma solo politici di professione. Non se ne salva uno: i leader della sinistra italiana, così spocchiosi, sono tutti funzionari di partito. Ed è grazie alla sinistra che ha avuto origine Tangentopoli».

A cosa si riferisce, ministro?

«Penso all’Unione sovietica, un Paese nemico dal quale ricevevano, ufficialmente, denaro. E penso ai soldi finiti nelle loro casse grazie al sistema delle cooperative e degli appalti pubblici locali. Dov’è la loro superiorità morale se è da quel sistema che origina il finanziamento illecito ai partiti?».

Qual è la colpa della sinistra?
«Sono stati loro a moltiplicare a dismisura i costi della politica, costringendo gli altri partiti a rincorrerli sullo stesso piano. Ricordo che a Venezia la federazione provinciale del Pci aveva 200 dipendenti. E sedi di proprietà in ogni Comune. Che dovevano fare gli altri?».

Ammetterà che anche nel centrodestra i vizi, privati e non, non manchino.

«Il Pdl è composto da tante anime, ciascuna con i suoi pregi, i suoi difetti e i suoi vizi, ma rappresenta la parte migliore del Paese: i colletti blu, le piccole e medie imprese, i professionisti, le partite Iva, gli artigiani».

E come la mettiamo, a proposito di vizi e superiorità morale, col “caso Ruby”?

«Mai, nella storia del Paese, la vita privata era entrata nella vita politica come elemento centrale. Avere presidenti del Consiglio democristiani notoriamente gay non ha destato, per fortuna, alcuno scandalo. Una grande prova di civiltà. Adesso, invece...».

Invece?

«Ridotti alla disperazione, questi “sinistri” utilizzano un argomento che non fa parte della nostra cultura politica: la vita privata».

A sinistra obiettano: sulle notti di Arcore, a proposito di superiorità morale, c’è un inchiesta della magistratura per concussione e prostituzione minorile.

«Si tratta di reati presunti. Aspettiamo i giudizi. Finora ho assistito, nei confronti di Silvio Berlusconi, solo ad un accanimento giudiziario. E la politica non si fa demonizzando l’avversario. Con il giustizialismo si distrugge, non si costruisce. E questo è un altro motivo per cui mi sento moralmente superiore a loro». (Libero)

In Danimarca hanno capito che senza immigrazione si risparmia. Antonio Scafati

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Calcolatrice alla mano, il governo danese si è fatto due conti analizzando costi e benefici delle politiche sull’immigrazione dell’ultimo decennio. Scoprendo che il risparmio per le casse statali è stato di 5,1 miliardi di corone ogni anno. Dal 2001 il governo di centro-destra ha reso sempre più severe le leggi che regolano l’accesso degli stranieri, riducendo soprattutto il numero di immigrati provenienti da paesi non occidentali: il risultato è stato un risparmio complessivo di oltre sei miliardi di euro. I dati sono stati pubblicati in un rapporto che mostra come gli immigrati non occidentali costino alle casse statali 15,7 miliardi di corone all’anno; al contrario, quelli che provengono dai paesi occidentali contribuiscono alla ricchezza del paese con 2,2 miliardi.

Il ministro dell’Immigrazione Søren Pind, che già aveva promesso politiche sull’immigrazione più severe condannando il multiculturalismo, ha commentato che “ora è chiaro come abbia importanza chi entra nel paese”, aggiungendo che si impegnerà per “limitare ulteriormente l’accesso a coloro che potrebbero diventare un peso per la Danimarca. Sarò invece felice di accogliere chi contribuirà allo sviluppo della nostra economia”. Soddisfatti dei risparmi anche i socialdemocratici, che guidano l’opposizione e che hanno già detto che non cambieranno le attuali leggi sull’immigrazione se dovessero vincere le prossime elezioni, cercando invece di migliorare laddove i conservatori avrebbero fallito e cioè nell’integrazione.

Chi ha gongolato sfogliando il rapporto è stato il Partito Popolare Danese, che sostiene il governo e che è l’ispiratore delle leggi sull’immigrazione degli ultimi anni. I risultati del rapporto saranno la carta in più che il Partito Popolare Danese giocherà per chiedere un’ulteriore inasprimento di norme che in fatto di immigrazione e asilo sono già le più severe d’Europa. La Danimarca ha sempre tenuto sotto controllo l’immigrazione, regolando gli accessi. Leggi estremamente rigide hanno drasticamente ridotto l’afflusso negli ultimi anni. Una norma del 2008 vieta agli ostelli per i senzatetto finanziati dallo Stato di dare ospitalità agli stranieri che non hanno regolare permesso di soggiorno. E se si è trovati senza permesso scatta l’espulsione immediata.

Se un danese e uno straniero vogliono sposarsi, entrambi devono avere minimo 24 anni. Ma non finisce qui. Il diritto al ricongiungimento familiare e alla residenza per i cittadini extracomunitari è disciplinato da un sistema a punti piuttosto complesso che assegna un tot a fattori come l’età, le esperienze professionali, l’educazione, le competenze linguistiche. Se non si raggiunge un livello minimo, niente permesso di soggiorno. In più lo straniero che aspira al ricongiungimento familiare deve dimostrare la propria indipendenza finanziaria depositando in banca una sorta di caparra per eventuali spese pubbliche. Il risultato è che negli ultimi anni in Danimarca sono entrati più immigrati in cerca di lavoro rispetto a quelli per motivi umanitari o familiari.

Molte organizzazioni umanitarie denunciano violazioni dei diritti civili, ma il governo e soprattutto il Partito Popolare Danese vanno avanti per la propria strada. Gli uomini della euroscettica Pia Kjærsgaard vorrebbero addirittura un impegno del governo a rivedere l’accordo di Schengen, per tornare ai controlli alle frontiere. “Abbiamo problemi con i cittadini dell’est Europa che stanno venendo qui e corriamo il rischio di avere gli stessi problemi con quelli dal Nord Africa” dice la Kjærsgaard: “I controlli alle frontiere sono un diritto per i nostri cittadini”. Difficile che il governo si impegni su questo fronte. Più probabilmente accoglierà altre richieste. Il Partito Popolare Danese chiede ad esempio che le autorità locali incoraggino a tornare nel proprio paese tutti gli immigrati che non trovano lavoro.

Un ulteriore giro di vite ci sarà poi sulla prova di lingua danese, che sarà resa più severa a soli sei mesi dall’introduzione del nuovo sistema a punti. Il governo e il Partito Popolare Danese hanno presentato una proposta per rendere il test ancora più selettivo, innalzando i livelli minimi di sufficienza. La prova dovrà essere superata entro tre mesi dall’arrivo in Danimarca e studiare sarà responsabilità dell’immigrato: nessun obbligo di cumulare un certo numero di ore. L’Istituto danese per i diritti umani ha detto che a questo punto gli stranieri dovranno cominciare a studiare la lingua già prima di entrare in Danimarca. È facile prevedere che il numero di ricongiungimenti familiari calerà ancora. (l'Occidentale)

Il partito dei pm come Antistato. Marco Pedersini

Mauro Mellini, ex parlamentare dalla storica militanza radicale, non è sorpreso dalle rivelazioni con cui il pentito Giovanni Brusca, ieri, ha accusato di collusione con la mafia praticamente tutta la classe politica. Le denunce all’ingrosso dell’ex mafioso non hanno risparmiato quasi nessuno: “Nel ’92, Cosa nostra aveva rapporti con la sinistra, con politici locali, con Lima e a livello nazionale con Andreotti”, ha detto Brusca, secondo il quale “Marcello Dell’Utri e Vito Ciancimino volevano portare a Riina la Lega nord e un altro soggetto politico che non ricordo”.

La foga inquisitoria di Brusca,
secondo Mellini, è figlia di una logica innescata dalle procure: “Il cosiddetto ‘pentitismo’ nasce dall’abuso dei magistrati, che assicurano ai mafiosi premi che la legge non prevede, in cambio delle loro rivelazioni. I magistrati dicono: ‘Trattiamo noi con i mafiosi arrestati’, e usano come prova anche quello che potrebbe essere al massimo un indirizzo per dare una direzione alle indagini”. Secondo Mellini, una delle assurdità del nostro codice di procedura penale è il principio in base al quale il pubblico ministero indaga non perché viene a sapere di un reato, ma alla ricerca di notizie di reato. “Così il pubblico ministero, che ormai è una sorta di ‘magistrato poliziotto’, a forza di indagare sulle ipotesi di reato e di usare i pentiti come mezzi di prova, li istiga a rendere le loro confessioni sempre più clamorose – dice Mellini – Brusca, che si è pentito dopo aver sciolto un ragazzino nell’acido, deve dimostrare di essere un superpentito ai pm che gli chiedono: ‘Ma come, non sai niente?’”. “Quando è scoppiato il caso Tortora non c’era la legge premiale – ricorda Mellini – però i magistrati trovavano comunque il modo di gratificare i pentiti: ‘Vieni qua, dicci qualcosa, al massimo se non possiamo assolvere te assolviamo tuo fratello…’”. Il pentito, che viene premiato in proporzione al materiale che offre a chi conduce le indagini, si ritrova nel mezzo di un vero e proprio corteggiamento: stuzzica, svela dei contorni quando serve, gioca di malizia, valuta se è meglio condurre o lasciarsi guidare. Per capire che qualcosa non va basterebbe sfogliare i verbali degli interrogatori dei pm Antonio Ingroia e Anonino Di Matteo a Ciancimino Jr.: “La lettura dei verbali è sconcertante – dice Mellini – Questo Massimo Ciancimino non dice mai niente, parla sempre per induzione da parte del pubblico ministero”.

Insomma, per Mellini,
che all’epoca della “trattativa” era alla Camera dei deputati, c’è qualcuno in Italia che ha trattato di sicuro con i mafiosi: i magistrati. Le grandi manovre che Ciancimino Jr. imputa allo stato sono state paradossalmente più goffe: “Se si fanno le trattative bisogna sapere qual è la situazione, dove si può arrivare e che cosa si intende ottenere – dice Mellini – Questi che vengono accusati di avere condotto trattative con la mafia, se le hanno fatte, le hanno fatte a vuoto, dando soltanto un’impressione di debolezza”.

Mellini però sottolinea: “Quello che ho dato è un giudizio politico sul loro operato. Lo stato ha comunque tutto il diritto di trattare con chi gli pare e piace, se è lo stato. Se poi invece erano il generale Mori o chi per lui ad agire per i cavoli loro allora è un altro discorso. Ma quando i magistrati dicono che era lo stato a trattare, significa che riconoscono che questi soggetti trattavano per lo stato nella sua globalità, che avevano il diritto di rappresentare lo stato”. Per i magistrati di Palermo e Caltanissetta, che indagano sui presunti mandanti delle stragi di mafia, se lo stato ha trattato con i mafiosi, va processato. La fattispecie non esiste, ma Mellini, con un’acrobazia giuridica, se l’è inventata: “Sarebbe ‘concorso esterno precontrattuale in associazione di stampo mafioso’, o, se preferiamo, ‘tentata amnistia’”. Mellini ricorda di aver visto prendere piede nelle procure degli anni Settanta – soprattutto in quelle calabresi, con cui aveva più familiarità – una cultura per cui “noi siamo gli avamposti della legalità” e “lo stato ci ha abbandonato, è un traditore”. E così, “nel tempo, lentamente, gli atti di elaborazione concettuale di Magistratura democratica sono passati nella magistratura corporativa e ora che la politica prova a tirare le briglie che ha lasciato a lungo sciolte, il cavallo della magistratura si imbizzarrisce”. E reagisce, “non ritenendosi più un pezzo dello stato, ma espressione ormai di un qualcosa che sta sopra al potere temporale, come gli ulema nello stato islamico. Sono un’aristocrazia dotata di un potere carismatico, che per definizione non è elettivo: si acquista col concorso di uditore giudiziario”. In questa logica, “la misura della validità di quello che dice Brusca non è più la ragionevolezza o il diritto, ma è l’etica golpista del partito della magistratura: abbiamo individuato i grandi signori del male, tra i quali c’è Berlusconi. Ora dobbiamo colpirli”.
Guarda la puntata di Qui Radio Londra La scandalosa gestione dei pentiti in Italia (il Foglio)

martedì 3 maggio 2011

Anni '70, i peggiori della nostra vita. Andrea Forti



anni-70.-i-peggiori-anni-de.jpgNon si tratta dell'ennesimo libro contro il '68, anzi, ad essere precisi non si tratta nemmeno di un libro sul '68; infatti Anni '70, i peggiori della nostra vita, edito da Marsilio e opera di Giuliano Cazzola, Simonetta Matone, Filippo Mazzotti, Domenico Sugamiele e con prefazione del ministro Sacconi, prende in esame il decennio iniziato quarant'anni fa, finito da oramai trenta ma i cui effetti, in termini di scelte economiche e condizionamenti culturali, non accennano a svanire. Tesi principale dell'opera, curata da chi quegli anni li ha vissuti da posizioni riformiste, è che i vasti movimenti politici, sindacali e culturali che nel decennio orientativamente compreso fra il '68 e la marcia dei quarantamila quadri Fiat del 1980, lungi dall'essere stati volano di modernizzazione del paese, come vuole una vulgata diffusa non solo a sinistra, sono stati, al contrario, un fattore di rallentamento per un'autentica modernizzazione del paese, che del resto era già in atto da almeno un decennio prima.
La contestazione studentesca, lungi dal liberare l'accademia italiana da ingiustizie e da baronie, ha semplicemente creato una nuova «casta», formata in buona parte da coloro i quali proprio le baronie volevano abbattere, non meno immobilista e gelosa delle proprie prerogative della precedente ma spesso caratterizzata da minore qualità accademica e preparazione. Il dogma egalitarista in voga in quegli anni, derivato più da un mal interpretato e «mondanizzato» cristianesimo che dal marxismo, ha fatto in modo che il diritto all'istruzione, indispensabile ad una società moderna e competitiva, venisse distorto dalla tendenza a «liceificare» tutta l'istruzione secondaria, trascurando l'istruzione professionale, fondamentale in un paese come l'Italia, e moltiplicando a dismisura le «sperimentazioni», con conseguente aumento dei costi.
Tale dogmatico egalitarismo in campo scolastico e formativo ha aumentato a dismisura il numero di laureati in materie umanistiche e letterarie che, non potendo ovviamente essere assorbiti nel tessuto economico e produttivo, andranno ad ingrossare le fila di un «proletariato intellettuale» destinato spesso a lavori dequalificati e mal remunerati. Mentre la struttura economica e produttiva del paese richiede non solamente manodopera qualificata e specializzata, ma anche laureati in grado di inserirsi degnamente nel mondo del lavoro, abbiamo una casta universitaria che, per mantenere lo status quo, si oppone all'ingresso di privati nel sistema formativo, non di rado agitando slogan anticapitalistici, ma non si pone minimamente il problema di moltiplicare corsi di laurea pressoché inutili.
Una visione dogmatica egalitarista e massimalista prese piede anche all'interno del mondo del lavoro, quando le giuste rivendicazioni sindacali tracimarono per diventare irrealistiche pretese che, ponendo il salario come «variabile indipendente» dal lavoro prestato, facilitarono la strada ad un generale calo della produttività dell'industria italiana, scaricandone i costi sui conti dello Stato, un indebolimento che, come aveva capito un padre illustre (quanto dimenticato) del comunismo italiano come Giorgio Amendola, avrebbe pregiudicato a lungo termine le stesse conquiste del movimento operaio e la stessa tenuta dello Stato, visto che l'enorme debito pubblico italiano nasce proprio negli anni '70.
Anche a livello politico-istituzionale, argomentano gli autori del libro, agli anni '70 dobbiamo le principali aporie del sistema politico italiano. Il «compromesso storico» fra Pci e Dc, presentato allora e ancora oggi come capolavoro della lungimiranza politica e istituzionale del gruppo dirigente comunista di Berlinguer, rese oltremodo difficile qualsiasi tentativo di riformare il sistema politico italiano, cooptando di fatto il Pci nella gestione della cosa pubblica, rendendo così ancora più ipertrofico l'apparato statale e dando a tale partito, che non interruppe mai i rapporti con il blocco orientale, un sostanziale potere di veto che non corrispondeva però a una diretta presa di responsabilità politica.
Il comunismo italiano, e tutta la «società civile» che attorno ad esso ruotava, rafforzò così la sua ambigua posizione di partito coinvolto a pieno titolo nella gestione del paese ma allo stesso tempo «diverso» dalle altre forze politiche, consolidando quel senso di superiorità morale che lo avrebbe portato, dopo la repentina trasformazione in Pds all'indomani del crollo del comunismo, ad appoggiare il golpe giudiziario di Tangentopoli, promosso da magistrati formatisi anch'essi nel clima di massimalistica attesa di palingenesi politica e morale degli anni '70.
Il libro non lo cita come esempio, essendo troppo recente, ma forse chi maggiormente rappresenta ora un certo spirito maturato in quegli anni è il critico letterario e scrittore Alberto Asor Rosa, che, partito da posizioni operaiste (la corrente socialista radicale da cui proviene anche Toni Negri) e poi approdato nel Pci berlingueriano passando attraverso il Psiup, ora invoca nientemeno che un golpe militar-poliziesco contro Berlusconi. Se quarant'anni fa lo slogan era «lo Stato borghese si abbatte e non si cambia» ora sembra che si sia passati, da parte di molti reduci, al: «lo Stato si rafforza, anche con il golpe, purché non cambi»! (Ragionpolitica)

Un comandante dietro le quinte. Christian Rocca

George W. Bush lo voleva «dead or alive», vivo o morto, ma ha lasciato la Casa Bianca due anni fa senza aver compiuto la missione, senza aver catturato o ucciso l'ideatore degli attacchi dell'11 settembre.

Prima di lui, Bill Clinton aveva esitato tre volte a schiacciare il bottone e Osama bin Laden, lo sceicco saudita che aveva dichiarato e praticato la guerra santa contro l'America già dal 1998, era riuscito a scappare e poi a progettare l'inaudita strage nel cuore dell'America.
Tremilacinquecentodiciannove giorni dopo quel martedì mattina di 11 anni fa, c'è riuscito Barack Hussein Obama, il 44° presidente degli Stati Uniti, quello giovane e inesperto, il politico sospettato da improbabili e incontentabili dietrologi di essere l'Anticristo, un impostore musulmano, ineleggibile perché nato all'estero. Joe Biden e Hillary Clinton, oggi suoi principali collaboratori, ma allora avversari alle primarie democratiche, nel 2007 e nel 2008 dicevano fosse «ingenuo», uno che non avrebbe avuto la spina dorsale per affrontare una crisi internazionale. E invece "it took Obama to get Osama", ci è voluto Obama per prendere Osama, come recitavano le scritte sulle magliette messe in vendita ieri a Washington.
Obama è riuscito a uccidere Osama, nonostante le critiche assurde della destra lo dipingessero come un leader "debole" nei confronti dei nemici dell'America (in Italia, Maurizio Gasparri all'indomani dell'elezione presidenziale disse che al-Qaida era felice del risultato). Non meno sballate sono state le contestazioni della sinistra liberal secondo cui avrebbe tradito gli elettori, le speranze e il sogno per il solo fatto di aver continuato la politica di sicurezza nazionale del suo predecessore.
I critici di Obama non hanno ascoltato Obama, non hanno letto con attenzione le sue proposte. Non hanno considerato che sulle questioni di sicurezza nazionale i presidenti degli Stati Uniti fanno i presidenti degli Stati Uniti, non gli operatori sociali. Gli avversari di Obama hanno commesso l'errore di proiettare sulla figura vuota del giovane presidente le proprie paure e le proprie illusioni, perdendo però di vista la realtà.

Obama invece ha ucciso Osama, guidando un'operazione militare e d'intelligence iniziata quattro anni fa a Guantanamo (e la cosa dovrebbe far riflettere i detrattori del supercarcere), prendendosi rischi, aspettando il momento giusto per agire, sapendo che un errore avrebbe posto fine alla sua presidenza. Una volta alla Casa Bianca, a parte qualche concessione retorica iniziale, non ha smantellato l'apparato di sicurezza post 11 settembre costruito da Bush. Il suo gabinetto di guerra, generali compresi, è lo stesso del precedente. Guantanamo è ancora aperto. I detenuti più pericolosi resteranno in carcere a vita, senza processo. Gli altri saranno giudicati con le corti speciali militari volute dal suo predecessore. In Iraq ci sono ancora 50mila uomini e il resto è rientrato secondo il calendario stabilito da Bush e dal Governo iracheno.

In Afghanistan il numero di boots on the ground, di stivali americani sul terreno, è triplicato rispetto ai tempi di Bush. Obama ha esteso in modo sistematico le operazioni militari in Pakistan, terra ospitale per talebani e guerrasantieri islamici.
Da quando è alla Casa Bianca ha autorizzato 226 attacchi missilistici sul Pakistan, provocando oltre 1.700 morti. Una guerra segreta, coperta, "sporca" si sarebbe detto un tempo e con altri presidenti. Una guerra che cambia la natura, la forma e la strategia dell'apparato militare e spionistico americano. L'operazione bin Laden ha consolidato la militarizzazione della Cia e la specializzazione del Pentagono in azioni coperte guidate dal Joint Special Operations Command. Il generale David Petraeus alla Cia e l'ex direttore Leon Panetta al Pentagono sono il sigillo obamiano su questa trasformazione.

Obama non ha tradito le promesse elettorali, semmai le ha esaudite. Chi ha seguito la sua campagna elettorale sapeva che avrebbe inviato più truppe in Afghanistan e preteso un maggiore impegno militare in Pakistan. Nel corso di uno dei dibattiti presidenziali, quello dell'ottobre 2008 a Nashville, Obama disse che se da presidente avesse individuato il nascondiglio di bin Laden e il Governo pachistano non fosse stato in grado o non avesse voluto prenderlo, lui non avrebbe rispettato la sovranità nazionale pakistana e non avrebbe atteso un lasciapassare internazionale, ma avrebbe deciso un intervento militare americano unilaterale, ad hoc, dentro i confini del Pakistan: «Se non lo fanno loro, dobbiamo farlo noi», disse in quell'occasione prendendosi i rimbrotti del candidato repubblicano John McCain. Domenica, ad Abbottabad, è successo esattamente quanto previsto: i pakistani lasciavano bin Laden indisturbato e Obama ha inviato le squadre speciali a pochi chilometri dalla capitale, a un passo dalla West Point del Pakistan.

L'efficacia della leadership di Obama è evidente, per quanto esercitata come in Libia "from behind", da dietro le quinte. Il presidente fa le stesse cose di Bush, senza scatenare proteste delle piazze occidentali e arabe, senza mobilitare le masse pacifiste, anzi addirittura vincendo il Nobel per la pace. (Sole 24 Ore)

Andrea's Version. 3 maggio 2011

Avranno anche restituito un po’ d’orgoglio all’America, ridato ossigeno all’amor proprio, sollevato entusiasmi, avranno pure messo la parola fine a quello che dopo l’11 settembre sembrava un incubo inafferrabile. Avranno forse dimostrato che le barbe finte della Cia sanno ancora combinare qualcosa e saranno riusciti, probabilmente, a convincere i più scettici che doveva pur esistere qualche motivo, se nemmeno Obama aveva accettato di chiudere Guantanamo. Potrà avere talune ragioni anche Hillary Clinton, a dire che Bin Laden era altresì un mortale nemico dell’islam, e a sostenere che la storia dovrà ricordarsi di come il principale tra i terroristi sia stato tolto dalla scena “mentre nel mondo arabo avanzano le richieste di libertà e di democrazia”. Sarà tutto vero, tutto giusto, tutto soddisfacente e sarà quindi inevitabile che, da sinistra a destra, tutti, ma proprio tutti, applaudano. Noi vorremmo semplicemente far notare, dopo l’animata discussione cui abbiamo assistito, che quei crumiri dei Navy Seal hanno lavorato il 1° maggio.

lunedì 2 maggio 2011

Conflitti Rai. Davide Giacalone

La Rai ha macinato il suo ennesimo direttore generale, senza che sia riuscito a cambiare nulla di significativo. Mauro Masi è ora destinato alla Consap, e alzi la mano chi l’aveva anche solo sentita nominare, prima: Concessionaria Servizi Assicurativi Pubblici spa, con unico socio, adesso che lo sapete non siete ancora riusciti a capire a che serve e come occupa il tempo. Un aiutino? Quando fu privatizzato l’Ina (Istituto Nazionale Assicurazioni) si ritenne utile ristatalizzarne alcune funzioni. Tutto qui. La politica italiana s’ispira a Antoine Lavoisier: nulla si crea e nulla si distrugge. Si alimenta, così, una genia specializzatasi nel navigare il procelloso mare delle nomine, del parastato, dell’accollare sé stessi agli altri, senza che sia mai previsto il tornare, prima o dopo, a lavorare nel mercato, affrontando non la concorrenza dei corridoi e delle amicizie, ma quella della produttività e della professionalità.

Masi non ne ha colpa specifica. In quanto alla giostra delle nomine e delle sistemazioni, girerebbe anche se egli decidesse di scendere. In quanto alla Rai, l’ultimo ad avere gestito un potere reale è stato Biagio Agnes, perché la Rai era consustanziale al sistema dei partiti, governata dalla commissione parlamentare di vigilanza e amministrata dal rappresentante del partito di maggioranza relativa. Questo dava un senso alla lottizzazione, che era la forma fisica del pluralismo. Dato che non esistono più i partiti, trasformatisi in agglomerati d’interessi incoerenti, né la commissione parlamentare, ridotta a declamazione inutile, né la stessa autorità di garanzia, posteggio per poeti e rimessa per amici, la Rai non risponde più ad alcun criterio. Masi, lo ripeto, non ne ha colpa. Ma questo è il Paese degli irresponsabili: non dipende da me, io che ci posso fare, fan tutti così. Difatti è il Paese che s’impoverisce nell’immobilità.

Dato l’epilogo non brillantissimo, Masi ha lanciato alle sue spalle qualche chiodo a tre punte. Michele Santoro, ad esempio, non trattò solo la propria uscita e i propri soldi, che sarebbero stati, si seppe nel maggio scorso, circa 2,5 milioni. Non bruscolini. Santoro negoziò per il proprio gruppo, che sarebbe costato, alla Rai, 14 milioni. Si può appuntare la propria attenzione sull’ex maoista che quota la propria presunta libertà al borsino dei ricatti. Ma è la cosa meno rilevante: Santoro è bravo e approfitta dell’esser circondato da molluschi. Il punto è un altro: la Rai è composta da corpi separati, da un mercato di produzioni che si tiene, come la trattativa con Santoro, nella più totale opacità. Ma con soldi dei contribuenti. Un maxi-ultra scandalo che viene coperto dietro menate insulse a base di libertà e pluralismo. Balle, lì si parla di talleri e ci sono solide cordate spartitore.

Masi ci fa anche sapere che fu la sinistra a bloccare un ticket per Rai 3: Enrico Mentana direttore del tg e Giovanni Minoli della rete. Bella scena, non del tutto incomprensibile: diciamo che il cognome dell’attuale direttore, Berlinguer, suona meno umiliante, per gli ex comunisti, di due ex craxiani. Ma la domanda è: dove fu bocciata, quella proposta? Non alla commissione parlamentare. Allora, dove? Perché anche questa partita s’è svolta nell’oscurità, ed oggi ne veniamo a conoscenza perché il direttore bruciato s’è anche scocciato. Ripeto: sono soldi dei contribuenti, forse qualche cosa in più sarebbe giusto sapere.

L’editoria televisiva italiana è immersa in plurimi conflitti d’interesse. C’è quello del centro destra, guidato dal proprietario del più importante gruppo privato. C’è quello della sinistra, vincolata ai lottizzati e interessata a lottizzare, sicché non difende la Rai editore, ma la Rai dispensatore. E c’è quello dei più noti e influenti opinionisti televisivi, che fan soldi a secchiate, grazie all’oligopolio delle opinioni, nel quale sono stati lasciati. Non si tratta, allora, di cambiare direttore generale, ma di cambiare musica: la Rai va messa sul mercato, va venduta, ben oltre i ridicoli limiti oggi consentiti dalla legge. Se proprio si vuole lasciare in vita una cosa chiamata “servizio pubblico”, ammesso e non concesso che qualcuno sia in grado di definirlo, basta e avanza una rete. Netto taglio alle spese, quindi fine del canone. Questa è la trasmissione più bella, che ci piacerebbe vedere.