martedì 29 gennaio 2013

Strage & caos.  Davide Giacalone



Le vie della giustizia sono infinite. Ma non sempre lineari. Dal giugno del 1980 si attende di sapere cosa fece sparire dai cieli un volo Itavia, da Bologna a Palermo. Si sono fatte inchieste penali e processi, senza arrivare a nulla. Se ne occuparono anche inchieste parlamentari, moltiplicando le ipotesi e non agguantando le conclusioni. Anche la memorialistica vacilla, giacché chi seguì quel lavorio penale presenta ricordi e supposizioni, ma nulla di più. Il retroscenismo ha messo in campo due ipotesi: a. la bomba che sarebbe dovuta scoppiare quando l’aereo era a terra (volava in forte ritardo), magari per ragioni di affari loschi; b. il missile “alleato” destinato a colpire altri bersagli, dei Mig libici, magari con a bordo Gheddafi. Certezze, nessuna.

Ora arriva la Corte di cassazione, ma in sede civile e dovendosi occupare di risarcimenti. Dice: dato che lo Stato avrebbe dovuto garantire la sicurezza dei cieli, e dato che l’ipotesi del missile è la più accreditata, che paghi il dovuto ai congiunti delle vittime. I compitatori di storia mediante copia-incolla giudiziario hanno la loro certezza da spendere. Salvo il fatto che fa a cazzotti con le sentenze penali. Abbiamo da fare, a caldo, una sola osservazione: chi sosterrà che, finalmente, abbiamo la verità, starà solo illudendo i propri lettori e ascoltatori. Preferisco osservare che allo sfregio di una strage senza colpevoli si unisce la beffa di un risarcimento a carico della collettività. Noi tutti paghiamo (perché il risarcimento statale è finanziato dai contribuenti), senza essere autorizzati a sapere di chi è la colpa.

Di “ufficiale”, a questo punto, non c’è la verità, ma il caos.

venerdì 25 gennaio 2013

Compiti non fatti. Davide Giacalone



La Bce parla di possibili fughe di capitali, ma le aste dei titoli del nostro debito pubblico vanno bene e lo spread scende. Avverte sui pericoli della confusione politica, dopo le elezioni, ma è difficile che ce ne sia più di quanta ne viviamo oggi, compreso il fatto che il governo tecnico s’è trasformato in lista elettorale. Si ripete che la ripresa sarà quest’anno, solo nella seconda parte e “graduale”, che è un modo per dire che ci terremo la recessione e le cose non cambieranno (come noi qui scrivemmo e come il governatore della Banca d’Italia ha ieri confermato), eppure continuo a leggere titoli di giornali che strillano: Milano la migliore Borsa d’Europa. C’è un senso, in queste scene, o trattasi di caos dissennato? Il senso c’è, anche se la politica fa di tutto per scantonarlo.

Il risultato di contenere la speculazione sui titoli dei debiti sovrani è stato ottenuto dalla banca centrale europea, che ha agito politicamente e con perizia. Non propriamente con prontezza, ma ciò è dipeso dalla disunità europea e dai paraocchi nazionali. I governanti che chiamano a sé quel risultato sono una via di mezzo fra mitomani e imbonitori. Il parallelo andamento degli spread italiano e spagnolo serva da guida a chi crede alle favole raccontate in dialetto. Il governo Monti non ha meriti? Ne ha uno, importante, ma che andrebbe assegnato, semmai, a Giorgio Napolitano: dato che la resistenza all’iniziativa della Bce veniva dai tedeschi, ed era motivata anche dalla convinzione che i governi nazionali, quello italiano per primo, ne avrebbero approfittato per andare avanti con i vecchi andazzi spendaccioni, ha certamente avuto un peso il fatto che si sia insediato un governo commissariale, disponibile a fare i compiti a casa. Come Monti stesso disse. Il giudizio politico può essere anche severo, ma questo è un fatto.

Per capire le preoccupazioni circa il futuro, però, dobbiamo domandarci se quei compiti sono stati fatti. E la risposta è: no. Lo ha osservato Edoardo Narduzzi: mentre altri Paesi europei, come la Grecia, la spagna, il Portogallo o l’Irlanda, hanno interpretato l’anno passato come il tempo del cambiamento profondo, l’Italia lo ha trascorso cambiando il meno possibile. La lettera inviata dalla Bce (allora presieduta da Jean-Claude Trichet) al governo italiano (allora presieduto da Silvio Berlusconi), nel 2011, indicava quattro campi in cui era necessario e urgente intervenire. Vediamoli: 1. Liberalizzazioni, niente di fatto; 2. Privatizzazioni, le une e le altre con particolare riferimento ai monopoli pubblici locali, niente di fatto; 3. Mercato del lavoro, cambiando le regole di quello pubblico, rendendo più facili i licenziamenti e più agevole l’ingresso dei giovani, il tutto spingendo verso i contratti aziendali, mentre s’è fatta una legge che stabilisce cose diverse e talora opposte; 4. Pensioni, e qui s’è fatto, portando a compimento un processo riformatore che aveva avuto tappe diverse, una battuta d’arresto (quando la sinistra fu al governo e cancellò lo “scalone”), e che il centro destra, a causa del veto leghista, fu colpevolmente incapace di concludere.

I compiti a casa, come si vede, non li abbiamo fatti. Mentre altri li hanno fatti. Il governo commissariale, che era stato insediato per dare corso a quella lettera (Mario Monti l’ha ripetuto qualche decina di volte, addossandone al predecessore la responsabilità) s’è trasformato in soggetto politico e ora conduce una campagna elettorale incenerendo il suo più accreditato patrimonio: la serietà. Oltre tutto dicendo in politichese il contrario di quel che il governo ha scritto nei documenti economici.

Sono le conseguenze di ciò a impensierire, non una presunta instabilità politica futura, che non avrebbe alcuna caratteristica di novità. Perché oltre a non fare, nell’anno passato abbiamo anche fatto quel che porta dolore e recessione: abbiamo aumentato la pressione fiscale anziché tagliare la spesa pubblica corrente. Il commissario tagliatore (Enrico Bondi) è stato messo ad occuparsi di liste, con risultati ridicoli, proporzionati alla sua competenza in materia: nessuna. La recessione, però, a dispetto delle nuove tasse, lascia prevedere che il gettito fiscale calerà, il che fa saltare i conti del pareggio strutturale. Cosa saprà fare il governo post elettorale? Se ci sarà Monti fra i componenti agirà coerentemente al passato, se così non fosse vorrà dire che sarà di sinistra-sinistra, quindi agiranno come già promettono: alzeranno le tasse, condendo l’errore con il moralismo. Come cavare sangue dagli esanimi. Ecco, dunque, il punto: un’Italia non riformata s’appresta all’ennesimo anno di recessione con i governanti che sapranno solo tassare. Ecco perché, alla faccia dello spread che scende e delle Borse che borseggiano, i timori della Bce sono più che fondati: basta che un pirla provi ad accendere una sigaretta e salta tutto in aria, perché nessuno ha messo mano all’impianto antincendio, mentre dei grulli si fanno vanto di avere spento il fiammifero su cui soffiarono altri.
Pubblicato da Libero

venerdì 18 gennaio 2013

Sadomaso elettorale. Davide Giacalone

Qualche profano può credere che a costruire le liste ci siano i professionisti dell’incastro e del successo. Illusi, il più delle volte si tratta di praticoni dello sguscio e della sopravvivenza. La cucina elettorale, in ogni democrazia del mondo, è sporca di sangue e impiastricciata di zucchero, ma punta a sfornare piatti capaci di attirare voti. Anche dalle nostre parti gli schizzi non mancano, ma l’impiattato serve a salvare i cuochi. Faccio un esempio concreto, utile a una riflessione generale: la lista montiana in Friuli Venezia Giulia.

S’era fatto avanti un candidato già forte, capace di crescere nel tempo, il professor Massimiliano Fanni Canelles: non ancora cinquantenne, primario e docente, impegnato in attività socialmente rilevanti, sia in Italia che all’estero. Uno di quei candidati, per intenderci, che potrebbero essere seguiti da un corteo di politici in ginocchio, ciascuno pregante di candidarsi sotto le proprie insegne. Invece lo hanno fatto fuori. Italia Futura lo aveva plebiscitato, con un voto unanime quale capolista della lista Monti, ma quel posto sarà preso da un dirigente dell’Udc, Gian Luigi Gigli. Anch’egli medico e docente, ma con un taglio più marcatamente religioso: presidente dell’associazione internazionale medici cattolici e membro del pontificio consiglio per la pastorale sanitaria. Già eletto per l’Udc, al Consiglio regionale. Due domande: a. ma la lista Monti non doveva essere quella della società civile, non ancora entrata in politica? b. in quella regione manca la lista dell’Udc? Ecco le due risposte: 1. Gigli si è dimesso dall’Udc ben quindici minuti prima di diventare capolista montiano (soffrendo un buon quarto d’ora di solitudine); 2. la lista Udc c’è eccome, tanto che i sondaggi segnalavano la forza di Canelles e la sottrazione di voti, cui il partito di Casini ha rimediato prendendo due capolista di due liste diverse, ma alleate. Della serie: non importa quanti voti si prendono in tutto, conta quanti ne prendo io e gli amici miei.

Sono ragionevolmente sicuro che né Mario Monti né Enrico Bondi ne sanno nulla, leggendo la notizia solo adesso. Non sono sicuro, invece, che si rendano conto del suo significato: sono degli ostaggi.

Scaricare tutta la colpa sul sistema elettorale è un errore. Il nostro è penoso, mescolando i difetti del proporzionale con il premio di maggioranza, ma il problema non è l’assenza di preferenze (molte democrazie non sanno neanche cosa siano, e, del resto, dove le preferenze ci sono, come nei Consigli regionali, i risultati non sono incoraggianti), il problema è l’assenza di politica. I voti verranno spartiti per adesione identitaria o per rifiuto dell’altro. La classe politica che ne deriverà sarà al di sotto della media dei capi che se la sono scelta. I capi sono al di sotto dell’accettabile. E, quel che è peggio, anziché avere una società che reagisce producendo idee e chiedendo politiche assistiamo a
una delirante moltiplicazione di soggetti che si autoproclamano leader e capi carismatici, facendo riprodurre le loro facce, tendenzialmente inespressive, su manifesti sempre più grossi.
L’insieme della scena suggerisce che se il sistema istituzionale ha bisogno di un lavacro di riforma costituzionale, i protagonisti che lo animano hanno bisogno di una qualificata assistenza psicanalitica.

giovedì 10 gennaio 2013

Si contenga, mi consenta

L'epica da bar della politica tv attinge oggi il suo culmine nel confronto tra il Cav. e Santoro

Non sarà la fine del mondo, ha detto Michele Santoro, citando Ligabue, nel video-editoriale di presentazione molto anticipata dell’arrivo di Silvio Berlusconi a “Servizio Pubblico” (video-editoriale in cui Santoro diceva anche che quest’anno Natale pareva Pasqua, vista la resurrezione di un Cav. che accetta il suo invito). Non sarà la fine del mondo, stasera, ma neanche “soltanto una trasmissione giornalistica”, come da settimane dice Santoro, con la modestia anche un po’ immodesta di chi chiama l’applauso con la successiva immediata esegesi dello sbarco del Cav. nello studio dei suoi cari nemici: la sola accettazione dell’invito, ha detto Santoro, è “una conferma del fatto che l’editto bulgaro fu tragico” e che c’è un “disperato bisogno” di persone che non possano essere “sospettate di connivenza”. Non sarà “duello” o “resa dei conti”, dice Santoro sapendo di mentire almeno un po’ nella sostanza (nella forma la puntata si chiamerà “Mi consenta”, e avrà la solita struttura, ma con un unico ospite, il Cav.). E però è un fatto che stasera intere comitive di amici del calcio, e anche di fan compulsivi di “X Factor”, si sono organizzate in gruppi di ascolto, anche cancellando precedenti impegni, per recarsi a casa del tizio con lo schermo più grande – tu porti la birra, io porto le pizze – a vedere quella che viene percepita come la grande “finale” di qualcosa: una telenovela, un match sportivo, una gara di recitazione, una sfida a chi alza la posta, un guardarsi allo specchio (il mio nemico ha qualcosa di me e viceversa) e anche tutte queste cose insieme. E insomma da giorni – dalle Alpi ai salotti romani – ci si chiede come si stiano preparando alla contesa i due non-contendenti, chiamiamoli così, ché Santoro continua a dire che il Cav. sarà “accolto” (manca solo un “come fosse a casa sua”) e che troverà soltanto “giornalisti” a far domande, come se Marco Travaglio non fosse colui che il Cav. chiama in ogni dove “il mio amico Travaglio”, e l’ha detto talmente tante volte che Santoro ci ha fatto il promo della puntata, quello con le vignette di Vauro su Berlusconi amletico che dice “ci vado o non ci vado”.
Qualcuno ieri su Twitter a un certo punto diceva “Marco Travaglio non ci sarà”, scatenando il panico preventivo da spettacolo guastato (c’è gente che stasera rinuncia a vedere “Masterchef”, ma lo fa con lo spirito della tricoteuse che si siede davanti alla ghigliottina). Però Travaglio, interpellato, ieri diceva che era tutto previsto “come al solito, nessuna sfida all’O. K. Corral” (ma le parti in gioco sono due). Il piano A, comunque, prevede un Travaglio nella solita forma del monologo, senza che questo impedisca interventi estemporanei, con l’apporto delle presenze abituali (Sandro Ruotolo, Luisella Costamagna, Vauro, Gianni Dragoni) e nessun altro giornalista (il Cav. ha detto no a Gianni Barbacetto ad “Iceberg”, difficile riproporlo).
Il piano B., invece, è in teoria ancora aperto, dipende dagli eventi (e dal Cav.). Fino a ieri Santoro si è interrogato, nelle conversazioni con amici e durante il brainstorming pre-puntata, sull’eventualità di invitare qualcuno che potesse punzecchiare il Berlusconi “gauchiste” (quello che cita in chiave anti Bce il premio Nobel Paul Krugman, firma liberal del New York Times).
Aveva inzialmente cercato, Santoro, un economista, magari anche giornalista, non troppo divo ma abbastanza ferrato in neo-keynesianesimo. Ma si è trovato di fronte a un dilemma: i neo-keynesiani, in questa fase, sono capaci di dare fin troppa ragione al Cav. antirigorista. Se inviti un ultra liberista, d’altronde, non schivi il rischio, era il ragionamento, ché il Cav., imprevedibile com’è, potrebbe ributtarsi come niente sull’ode allo stato minimo, in coro con l’ultraliberista. L’idea base della serata, alla fine, è di avere molte “spalle” e non un co-protagonista che tolga spazio all’attrazione principale, che ha i suoi tempi teatrali: sempre di epica si tratta, nonostante la dissimulazione del conduttore (che ha scelto di “non commentare” i preparativi). Saranno sì iniziali sorrisi e strette di mano di Travaglio, ma si sospetta possa arrivare anche “il video sulla crisi Mediaset”, come dice un globetrotter che due giorni fa ha visto “dei cronisti santoriani” appostati tra le mamme lavoratrici che protestano davanti a Mediaset, issando cartelli inferociti contro i tagli nell’azienda berlusconiana (“licenziate le mamme e assumete le mignotte”).
Non si tratta qui di scandagliare le ragioni della trasferta di Capodanno di Michele Santoro nelle insospettabili Maldive (le foto sono su “Chi”, i conti in tasca all’ignaro bagnante pure, e Libero ci ha fatto ieri la prima pagina. Ma si sa che uno va in vacanza dove gli pare, per quanto possa essere straniante la visione di Santoro nei luoghi percorsi annualmente da Gianfranco Fini abbronzato che fa snorkeling assieme a turisti più abbronzati e subacquei di lui). Nè si tratta di capire se i vari recenti soggiorni del Cav. in Kenya, nel bianco abbacinante della spiaggia di Malindi, possano essere stati lontanamente corroboranti nel preludio di un confronto stavolta non telefonico con il “Michele” che, dicono nell’entourage del Cav., stasera il Cav. vorrebbe continuare a chiamare anche in pubblico “Michele”, come faceva quanto Santoro era suo dipendente – la parola “dipendente”, comunque, si cercherà di non usarla, stasera, dice un osservatore che in questi giorni ha incontrato il Cav. tra un’apparizione tv e l’altra, ché non se ne può più di sentir rievocare la famosa telefonata in diretta del 2001 in cui Berlusconi disse a Santoro il “si contenga” universalmente noto, lamentandosi in diretta del conduttore partisan nonché “dipendente del servizio pubblico”, e in cui Santoro rispose che era “dipendente”, sì, ma “non suo” (non più). Sono del resto molto lontani – c’è stato anche un anno tecnico in mezzo – i giorni in cui Santoro, nominando in scena l’orco “Berluscòòòòni”, con “ò” aperta e occhi di bragia, catalizzava sguardi e telefonate di consiglieri Agcom e dirigenti Rai intercettati a Trani (precedute e seguite da scontri diretti e indiretta con l’ex direttore generale Rai Mauro Masi, e da risoluzione consensuale del rapporto Santoro-Rai – con buonuscita).
Si tratta piuttosto di capire, oggi, quanto le ragioni dello spettacolo prevarranno sulla voglia di veder cadere una testa (di chi?). I due, comunque, Santoro e il Cav., hanno in comune la simpatia per Flavio Briatore: l’imprenditore con gli occhiali fumé è amico e anfitrione keniota del Cav., ma è stato anche ospite molto voluto e molto difeso da Santoro in una delle ultime trasmissioni prima del riposo natalizio, quando Marco Travaglio e Luisella Costamagna sono stati sgridati dal conduttore nel loro insistere sulle passate beghe giudiziarie del boss del talent-show “The apprentice”, quello in cui Briatore faceva da maestro spiccio a schiere di aspiranti imprenditori non sveglissimi. “Non esageriamo”, diceva Santoro accigliato mentre Costamagna parlava dei processi di Briatore e Briatore chiamava Costamagna “maestrina” (“si teme che il Cav. la chiami ‘signora’, dice uno spettatore burlone di “Servizio pubblico”) e Travaglio dava ragione a Costamagna. Allora “ci dimettiamo da persone”, se quando uno esce di galera gli togliamo il saluto, diceva Santoro. E dunque oggi le opposte fazioni si interrogano: che cosa troverà, da Santoro, il Cav.? E c’è chi immagina il ripetersi del modello d’azione “Santoro che fa il conduttore liberale e Travaglio che s’incazza”, con due varianti: poliziotto buono e poliziotto cattivo che puntano allo stesso obiettivo oppure bisticcio ex post tra i due, come ai tempi dello scambio di lettere sul Fatto quotidiano (a proposito degli interventi di Nicola Porro ad “Annozero”).
Il Cav., intanto, dice chi l’ha visto in questi giorni, ha ricevuto gli “appunti” pre-Santoro dei collaboratori. Li ha letti velocemente nelle pause delle ospitate su tutte le reti, alcune delle quali singolari per argomenti della tenzone: a “Otto e Mezzo” Lilli Gruber gli ha fatto a un certo punto gli auguri per la nascita del nipotino, ma il Cav. ha fatto l’offeso (non mi ha fatto neanche gli auguri, ha detto), consigliando nel frattempo alla conduttrice un otorino (non ha sentito quello che ho detto?) tra un accenno e l’altro alle “giudichesse comuniste” che si sono occupate del suo divorzio. Chi lo conosce lo immagina intento a “concentrarsi a suo modo” in vista di uno “show anche molto a braccio da Santoro”: “Me lo immagino che si riguarda di notte, dopo ‘Porta a Porta’, e di notte fa una scaletta mentale”, dice un amico, certo che il Cav. abbia accantonato l’idea di attivare un “allenatore unico per il dibattito” (si erano fatti i nomi di Paolo Liguori, Mario Giordano e e Mauro Crippa). La scaletta, certo, ma poi chissà (il tono del Cav. sarà, dice l’amico, di “seduzione e logoramento”).
Chi ha parlato con Santoro, invece, dice che il conduttore “vuole contenere l’effetto-loop editto bulgaro-Dell’Utri-Mangano-cene eleganti, pur essendo tentato dai vecchi temi” (da Santoro pur sempre si videro l’intervista lunga a Patrizia D’Addario e quella a Ruby, oltre alle interviste brevi alle varie “olgettine”). Nel buio della vigilia, Carlo Freccero, che conosce sia l’ospite che il conduttore, dice: “Fossi io Santoro, terrei conto del fatto che questo incontro storico si svolge in un quadro favorevole al Cav. e di demolizione di Monti, e mi atterrei a una scaletta di questo tipo: recuperei lo spot che Berlusconi mandava in giro ai suoi esordi politici, quello in cui si mostravano, in un video in bianco e nero, i disastri del comunismo. C’era una landa desolata, punto. Ma cambierei il finale, mettendo un sottotitolo: ecco dove ci ha condotti il liberismo. Come mai è successo questo?, gli chiederei, quando lei che si era presentato come artefice di felicità e mago delle tv commerciali? Cattivo il mondo? O cattivo anche lei?”. Freccero dice che Berlusconi gli sembra al momento persino “sollevato” – “tanto ha già evitato la sconfitta del silenzio” – e pensa che Santoro potrebbe riconoscergli “la vittoria sull’Imu, una tassa che è come la fossa che ti scavi da solo nei film western. Se l’è saputa giocare, il Cavaliere, nel bel mezzo di un Natale povero, senza regali, senza festa, in cui l’idea dell’Imu canaglia poteva fare breccia. L’altra domanda che gli farei è sulla schizofrenia dell’essere così liberista in politica e in privato, e così contraddittorio sui temi etici e sul tema ‘libertà di espressione’”. Freccero ricorda l’incontro Santoro-Cav. che Santoro ha voluto rievocare in video nei giorni dell’appeasement apparente e preventivo, dandosi del “coglione” per non aver capito, allora, che il Cav. intendeva davvero scendere in campo, e contemporaneamente dandosi ragione per avergli detto, in quell’occasione, che sarebbe rimasto immischiato nei soliti meccanismi – ma la ragione “è dei fessi”, è stata la chiusa dell’intervento santoriano, in linea con il tono pre-puntata che voleva smentire il clima già epico in vista del non-duello di stasera (sono in corso scommesse “su quando il Cav. si alzerà” per andarsene, come stava per fare a “Domenica In” da Massimo Giletti, poi dissuaso da Giletti: Stanleybet quota a 5.00 la “possibilità dell’abbandono da parte di Silvio Berlusconi dello studio di ‘Servizio Pubblico’ prima del gong finale”, nonostante si sia dichiarato un “guerriero pronto a tutto”. Resta più probabile l’ipotesi che l’ex premier regga fino in fondo, quotata a 1.12).
Nel racconto preventivo di Santoro c’è Santoro che vent’anni fa ha “l’idea” di un dibattito con un Cav. non ancora sceso in campo, c’è il Cav. che lo invita ad Arcore e c’è Santoro che vaga per il parco con un maggiordomo che fa vedere sculture, piante e animali in libertà, comprati da uno zoo in dismissione. Poi Berlusconi arriva in tuta, molto pimpante, mentre telefona al direttore di Panorama per dire “che la copertina di questa settimana fa schifo”, a Gianni Boncompagni per dire di “cambiare la ragazza in terza fila perché ha le tette troppo piccole” e al presidente del Milan per dire che il terzino “non fluidifica”.
Uno “show incredibile”, ha detto Santoro. (E si capiva che sperava di avere in studio un Cav. del genere, non importa se messo all’angolo o meno).

mercoledì 2 gennaio 2013

Vivere non scontare. Davide Giacalone

 

Siamo entrati nel 2013 a testa china, quasi sia un anno più da scontare che da vivere. A renderlo così poco attraente è la dimensione pubblica, che, per giunta, riempirà di scontata noia i primi due mesi, per culminare in elezioni il cui esito migliore sarebbe un non esito. Eppure, a dispetto di sentimenti diffusi, è proprio la dimensione pubblica a consentire di essere ottimisti. Perché i nostri problemi sono, prima di tutto, dentro la nostra testa e nel modo in cui li concepiamo. Vorrei che l’Italia fosse, al debutto di questo anno, come Felix Baumgartner, l’austriaco che ha saputo buttarsi da un’altezza incredibile: sul ciglio di un vuoto spaventoso, ma ragionevolmente sicura che potrà ancora correre sulle proprie gambe.

E’ possibile, se solo si ragiona. Il nostro prodotto interno lordo, la ricchezza che produciamo, si divide in due parti, non uguali, ma sostanzialmente equivalenti: 50% settore pubblico e 50% settore privato. Dobbiamo essere capaci di iniettare nella prima metà dosi massicce di meritocrazia e digitalizzazione, riuscendo a diminuire il peso burocratico sulla seconda metà, al tempo stesso alleggerendone il fardello fiscale e consentendole maggiore libertà. Non solo non è impossibile, ma è anche relativamente facile, se solo si apre la mente e non s’imbratta la tuta facendosela sotto.

La meritocrazia, nel settore pubblico, non è solo il premio a chi merita. Non funziona così: una classe in cui si danno buoni voti a chi studia e si promuovono anche i somari produrrà comunque ignoranza. Serve premiare i bravi, penalizzare chi non tiene il ritmo e buttare fuori chi stacca le braccia dai remi e attacca a fischiettare. Impossibile, si dice, perché il settore pubblico è refrattario a queste ricette e i dipendenti iper protetti dal sindacato. Sbagliato, rispondo, perché così procedendo saranno comunque licenziati, comunque non assunti, restando a stipendio i fortunati che hanno il solo merito d’essere stati assunti anni addietro. Sbagliato, perché così combinata è una macchina che produce miseria, ignoranza e malattia. Basta saperlo spiegare, e basta che chi lo spiega non sia totalmente inaffidabile, perché ladro, drogato o dissipatore. Non è vero che si avranno contro tutti i dipendenti pubblici, perché quelli bravi, che sono tantissimi, avranno solo da guadagnare.

Sul fronte della digitalizzazione il governo Monti non ha brillato. Non che i predecessori brillassero. Ecco la regola cui attenersi: ogni investimento deve comportare un più consistente taglio alla spesa pubblica corrente. Altrimenti licenziamo chi dirige e governa.

Diminuire le tasse non si può, dicono. Ma non vedono che ci sono aziende italiane capaci di reggere la competizione nei mercati globali, ma incapaci di reggere la tortura burocratica e fiscale. Quindi si deve, e dovendolo si può. Non spostando i pesi, come anche dicono i rimbambiti del centro destra, meno che mai scarnificando i ricchi, come dicono gli ipocriti del centro sinistra (i ricchi, se onesti, pagano già degli spropositi). Si può usando il patrimonio pubblico, mettendolo in un veicolo capace di emettere titoli garantiti dalle vendite (nel tempo), e recuperando risorse da restituire in termini di minore pressione fiscale, possibile per la compressione del debito, e in investimenti.

La digitalizzazione di cui sopra serve anche a ridurre il mostro burocratico. L’Italia è un Paese incivile non solo perché lo Stato ci costa troppo, ma anche perché pretende che si sia noi a determinare quanto sangue dobbiamo trasfondergli. Quel sangue e quel tempo vanno rimessi in circolo.

Si può fare, eccome. E fattolo sembrerà incredibile da quanto in alto siamo precipitati e quanto forti siamo ancora, per correre e gioire. Certo, da qui alla fine di febbraio ci tocca una solfa deprimente e degradante. Viviamola per quello che è: un tributo al passato che non vuole passare. Un ritardo del passato, non certo un anticipo di futuro.