venerdì 30 ottobre 2009

La Dolce Vita della Mafia. Lino Jannuzzi

Come Anita Ekberg e Marcello Mastroianni nel film di Federico Fellini, due dei più feroci assassini di Casa Nostra stanno seduti a un tavolino del bar Doney in via Veneto a Roma e brindano a champagne. Gaspare Spatuzza e Giuseppe Graviano stanno preparando la strage dello Stadio Olimpico, dove devono far saltare in aria un centinaio di carabinieri, ma intanto festeggiano l’accordo che Cosa Nostra ha firmato con lo Stato, rappresentato da Silvio Berlusconi,”quello di Canale 5”, tramite Marcello Dell’Utri, il “compaesano” salito a Milano da Palermo e il vero fondatore di “Forza Italia”. Questa è l’ultima “rivelazione” raccolta dai magistrati della procura di Palermo dalla viva voce di Gaspare Spatuzza e propalata all’Italia e al mondo dai servizievoli cronisti dell’”Espresso” e del “Fatto quotidiano”. Non è stato facile arrivare “all’anticamera della verità”, come ha proclamato il pm Antonio Ingroia, c’è voluto più di un anno.

Un anno di estenuante “trattativa” tra i professionisti dell’antimafia e il killer di don Pino Puglisi, Gaspare Spatuzza, detto “’o tignusu”, che è anche uno degli assassini di Paolo Borsellino, ma questo Ingroia e i suoi colleghi non lo sapevano. E’ stato lui che, diciassette anni dopo la strage di via D’Amelio, si è “pentito” e glielo ha raccontato: sono stato io che ho portato in via D’Amelio l’auto con il tritolo che ha fatto saltare in aria Borsellino e gli agenti della scorta. E l’ha dimostrato, facendo saltare in aria, a sua volta, diciassette anni di indagini e di processi e di condanne, basate tutte sulla “confessione” estorta a Vincenzo Scarantino, falso mafioso e falso “pentito”, meccanico semianalfabeta, scartato al servizio militare perché schizofrenico, e anche tossicodipendente e fidanzato con una transessuale.

A quel punto, ci si sarebbe aspettato la revisione dei processi sbagliati e sballati sulla strage di via D’Amelio e la liberazione dal carcere degli ergastolani innocenti e l’individuazione e la punizione di quanti, poliziotti e magistrati inquirenti, hanno depistato e inquinato le indagini sull’assassinio di Paolo Borsellino, costruendo falsi “pentiti” e portando avanti per anni falsi processi fino a false condanne. E che avessero riaperto seriamente le indagini sulla strage di via D’Amelio, facendosi dire da Spatuzza chi erano stati i suoi complici, dove aveva preso il tritolo e chi aveva premuto il pulsante per far saltare in aria Borsellino. E invece è iniziato a Palermo, e non solo a Palermo, un altro e più clamoroso depistaggio, a base di falsi “papelli” e false “trattative” tra lo Stato e la Mafia, mentre in realtà si svolgeva una vera trattativa, quella tra i magistrati e l’assassino di Borsellino. Che si è conclusa con questa brillante trovata, il trasferimento del “tignusu”dal rione Brancaccio di Palermo a via Veneto a Roma per brindare a champagne con il suo capocosca Giuseppe Graviano e festeggiare il “patto”siglato con lo Stato:”Abbiamo chiuso tutto - avrebbe raccontato Graviano, ormai ubriaco, a Spatuzza tra una coppa di champagne e l’altra - abbiamo chiuso la trattativa. Il Paese è in mano nostra”.

E tanto sono ubriachi e contenti, Giuseppe Gravano è “felicissimo”, dice Spatuzza, che sbagliano a sistemare l’ordigno che doveva esplodere allo Stadio Olimpico, e va in fumo l’ultima strage. Purtroppo, in quel gennaio del 1994, mentre Spatuzza e Graviano brindavano a champagne da Doney a via Veneto, Silvio Berlusconi non aveva ancora vinto le elezioni e non era ancora diventato il Capo del governo della Repubblica e non aveva potuto ancora concedere a Cosa Nostra la revisione dei processi e delle condanne dei boss e la soppressione del carcere duro previsto dall’articolo 41bis e tutte le altre richieste elencate nel “papello”.

Per il momento Cosa Nostra si è dovuta accontentare, in cambio della cessazione delle stragi, dell’assunzione in prova, e solo in prova, nella squadra di calcio dei pulcini del Milan di un picciotto nipote di un amico dei Graviano. Per il momento, meglio che niente. La vera fregatura per Cosa Nostra è venuta dopo. Non solo il picciotto, che pure sarebbe diventato un bravissimo calciatore, fu cacciato dal Milan, ma Silvio Berlusconi, che ha vinto le elezioni per ben tre volte e per tre volte ha regnato, per quindici anni non ha rispettato i patti, anzi ha reso perpetuo ed eterno il carcere duro dell’articolo 41 bis, ha moltiplicato i processi e le condanne, ha arrestato i latitanti e gli ha sequestrato i piccioli tanto faticosamente guadagnati. Per quindici anni i boss non hanno più potuto brindare a champagne a via Veneto. Addio Dolce Vita. (il Velino)

I bacchettoni cattocomunisti minacciano l'Italia libertaria. Alessandro Cecchi Paone

Tra Villa Certosa e la Certosa benedettina dove voleva rifugiarsi Piero Marrazzo c’è l’abisso che separa l’Italia libertaria da quella cattocomunista. La prima simbolo di un forse eccessivo ma energetico amore per la vita. La seconda memento penitenziale e colpevolizzante delle impervie vie che talvolta imbocca l’eros.Eppure, non lo si dirà mai abbastanza, non per storie d’amore o di sesso devono cadere i potenti. Caso mai per manifesta ipocrisia o debolezza e menzogna di fronte al ricatto. Allora perché la fuga in convento di Marrazzo?

Se Berlusconi non è corso in un pubblico confessionale a fare ammenda è perché può ammettere di essere stato forse troppo umano ma mai diabolico, cioè dannoso per la collettività.
La libertà di sensi e di costumi non equivale al tradimento delle idee o dei programmi concordati col popolo elettore. Dunque niente cenere sul capo. Ma nel campo cattocomunista non si può.
A mandare in convento il povero Marrazzo non è un Amleto che scaccia Ofelia come nell’omonimo dramma shakespeariano, ma un cipiglioso inquisitore senza pietà che si chiama moralismo. Che gli ha fatto scrivere al momento delle dimissioni che sono state provocate dalle debolezze della sua «vita privata». Non è così, o meglio non dovrebbe essere così.

Ha sbagliato solo a non denunciare subito i suoi torturatori, a mettersi nelle loro mani. Del resto non ci importa. A noi liberali, libertari e libertini dichiarati. Il suo problema sono i suoi compagni, cupi custodi della peggiore tradizione sessuofobica cattocomunista, fustigatori di peccati scambiati per reati.

È stata la loro cultura e la loro mentalità a spingerlo fra i monaci invece che fra i medici o gli amici, a seconda che ora prevalga in lui il male del corpo o quello dello spirito. Pensano così di salvargli l’anima, ma vogliono in realtà solo salvare le apparenze. Del loro mondo dominato da uomini come Gad Lerner che strepitano sulla presunta lesa dignità delle donne, senza che queste ultime abbiano mai protestato in proprio. Di psicanalisti marxisti come Umberto Galimberti per i quali i trans, più che il decoro delle strade, minacciano addirittura la stabilità sociale.
Di gay castristi come Gianni Vattimo che affidano il riconoscimento dei loro diritti alla caduta del capitalismo. Campa cavallo, e per fortuna!

Al «pèntiti finché sei tempo» del Commendatore, risponde fieramente «no, giammai» don Giovanni, per rispetto di sé e della vita. Non è al priore che dovrà invece rispondere il povero governatore, ma a una terribile divinità bacchettona divoratrice dell’unica libertà apolitica che ci resta davanti alla morte: quella di tentare di essere, anche per una sola volta, liberi e felici. E non importa come. (il Giornale)

mercoledì 28 ottobre 2009

Certificato di fine corsa. Davide Giacalone

Il certificato medico è stata l’ultima offesa alle istituzioni. Un insulto agli elettori di sinistra, che votarono per Piero Marrazzo, un tentativo di truffa ai danni di quelli di centro destra, che vorrebbero votare il suo successore. Quel certificato medico segna la disfatta di ogni etica pubblica, allineando un leader politico, pur in difficoltà, al malcostume degli impiegati pubblici che s’ammalano, guarda un po’ i casi della vita, il venerdì o il lunedì.
Nel caso degli assenteisti, il certificato serve ad allungare il fine settimana, o le feste comandate, meglio ancora se si lega a qualche altro giorno rubato, approfittando di qualche altra legge (celebre quella che consente l’assistenza ai familiari, cui si pensa meno, se le altre vacanze sono lontane). Nel caso di Marrazzo, il certificato voleva servire ad allungare la legislatura regionale, finendo, invece, con il certificarne l’ingloriosa ed un po’ ridicola fine.
Come capita ai certificati ad uso vacanziero, il medico non accerta mai malattie riscontrabili con analisi cliniche. Se ho l’epatite, o il fegato sta bene, dipende dagli esami del sangue. Se ho i calcoli renali, o meno, si vede con le radiografie. I malati che contraggono la voglia, per motivi diversi, di non andare al lavoro, invece, si affidano a patologie non misurabili. Hanno male alla testa, la cervicale che fa i capricci, l’esaurimento nervoso o, come nel caso di Marrazzo, soffrono lo “stress”. Tutte condizioni che somigliano più alla lettura della mano che non a riscontri scientifici.
Chi è libero professionista (io lo sono) non ha il posto fisso e la sicurezza del reddito, sicché vive esposto a continue tensioni e, nella media, tende a lavorare il massimo di ore possibili, ogni giorno, si ammala meno. Non è che la tensione nervosa faccia bene alla salute, è che, statisticamente, in questa categoria sono scarsamente rappresentati quelli che restano a letto, od a guardar le nuvole, a causa dello stress. Sapete perché? Semplice: visto che il loro reddito dipende dalla quantità e qualità del lavoro svolto tendono a non autocommiserarsi e tirarsi su.
Con quel certificato, Marrazzo ha solo tentato di dare una copertura giuridica ad una situazione incresciosa, per cui, essendo certo che non tornerà mai a fare il presidente della regione, ha preteso di allungare i tempi mediante la sospensione. Una condotta deprecabile, a sua volta certificata dal reggente, Esterino Montino, che ancora ieri assicurava l’arrivo delle dimissioni, a novembre, non appena si sentirà meglio. Così è stato commesso un ulteriore errore, perché il mondo politico, che ha taciuto l’evidenza, non solo ha creato un alibi per tutti i fannulloni d’Italia, ma anche per tutti i medici certificatori della furbata.

sabato 24 ottobre 2009

Grazie a un cavillo i giudici non pagano mai. Andrea Scaglia

«Il magistrato ha l’obbligo di esercitare l’azione penale»: eccolo qua, il cancello. La formula costituzionale - articolo 112 della Carta - che di fatto impedisce il riconoscimento della responsabilità civile dei giudici. Per dire: il pm di turno ha condotto un’inchiesta sul nulla, con spreco di soldi e tempo? E lui replica che era obbligato a farlo, era un «atto dovuto», ragion per cui di rispondere per eventuali danni morali o materiali neanche se ne parla. Ora, che quell’obbligo - che vorrebbe presupporre la presunta "parità dei cittadini di fronte alla legge" - che quel concetto, insomma, sia costantemente aggirato, su questo non ci son dubbi. Anche perché non è materialmente possibile applicarlo: ovvio, troppi sono i reati perché possano essere perseguiti tutti nello stesso modo e con gli stessi mezzi. E dunque, è un fatto che siano i magistrati a decidere le precedenze. Peraltro, ogni magistrato, ogni ufficio di ogni Procura ha il suo criterio di scelta. Risultato: l’obbligatorietà dell’azione penale si trasforma in un pressoché assoluto potere discrezionale degli stessi pm, e senza che poi ci si possa nemmeno azzardare a chieder conto dei risultati. E un’opinione, questa? Certo, lo è. Travaglio e compagnia, per esempio, sostengono invece che, a fronte di queste difficoltà, andrebbero più che altro aumentati i mezzi a disposizione della magistratura. Ma allora vale la pena di ragionare su un paio di numeri. Li ha forniti giusto l’altro giorno l’avvocato Giuseppe Rossodivita, durante la sua rubrica su Radio Radicale, Il rovescio del diritto e a proposito, per quel che vale, chi scrive si associa anima e corpo alla campagna in favore del rinnovo della convenzione governativa che permette a Radio Radicale di continuare a fornire un servizio, questo sì, davvero pubblico. E dunque, tornando a bomba e citando dati del ministero della Giustizia, ecco che viene fuori che nel 2007, su complessive 144.047 prescrizioni maturate nei tre gradi di giudizio compresa la fase delle indagini preliminari, addirittura 116.207 hanno raggiunto i termini di legge proprio in fase di indagini preliminari, e fra queste soltanto 3.437 erano riconducibili a procedimenti pendenti contro ignoti. Numeri, attenzione, che si riferiscono a notizie di reato non infondate. Tanto per ribadire: oltre il 70 per cento delle prescrizioni viene sancito già negli uffici dei pm, ancor prima che cominci il dibattimento vero e proprio. E stato così calcolato che, considerando gli anni dal 2001 al 2007, sono state 865mila le notizie di reato per cui l’azione penale di fatto nemmeno è cominciata, e quindi per scelta della magistratura inquirente, che lo desiderasse o meno: una sorta di amnistia di fatto, con buona pace di chi invece difende questo stato di cose affermando che, cambiandolo, si farebbe il gioco dei malfattori. Una situazione paradossale di cui non si può certo addossare la responsabilità a strategie difensive ostruzionistiche e perditempo, e nemmeno all’incredibile e scandaloso arretrato di processi pendenti. Le scelte sui reati da perseguire cui dare priorità vengono fatte in Procura, com’è anche comprensibile. Ma che non si venga poi a parlare di "tutti uguali di fronte alla legge", di "atti dovuti" e altre ipocrisie del genere. Per inquadrare il tutto in un quadro più generale, interessante è il discorso tenuto ai procuratori federali degli Stati Uniti da Robert Jackson, che poi sarebbe divenuto un notissimo giudice della Corte Suprema, citato dal giurista Giuseppe Di Federico in un articolo di qualche tempo fa sul Riformista. E dunque, Jackson ricordava che se si lascia al pubblico ministero la possibilità di scegliere le persone da perseguire - e questa, di fatto, è l’attuale situazione italiana - per il cittadino e la democrazia questo è il maggiore pericolo insito nel ruolo del pubblico ministero. C’e di che meditare, altroché. Perché poi insomma, caro signor giudice, scippi e microcriminalità non li persegui perché e difficile e poco appassionante e poi non fa chic. D’altra parte, e in questo senso le Procure non c’entrano, presidiare eccessivamente il territorio non sta bene, fa tanto "regime". Il risultato è dunque una percezione crescente d’impunità della delinquenza che più spesso i normali cittadini subiscono, e una crescente percezione d’insicurezza da parte di quest’ultima, nonostante nei fatti un certo tipo di reati non sia effettivamente in aumento. Ed è questa, alla fine, la conseguenza politica: che si vive tutti più impauriti e un po’ meno liberi. Anche più del necessario. (Libero)

venerdì 23 ottobre 2009

I vice del vice. Massimo Gramellini

Se domenica sarò eletto segretario del Pd, dice Dario Franceschini, nominerò mio vice il giornalista nero Jean-Léonard Touadi. Passano alcune ore. Se domenica sarò eletto segretario del Pd, ridice Dario Franceschini, nominerò miei vice il giornalista nero Jean-Léonard Touadi e una donna. Lo Statuto del partito gli impedisce di andare oltre la coppia, altrimenti immaginiamo che alle prime luci dell’alba avrebbe incoronato vicesegretari anche un gay, un indiano Cheyenne, uno stambecco del Gran Paradiso. E’ il veltronismo senza Veltroni, la malattia terminale del Partito Democratico. Quell’idea di poter fare politica con le figurine invece che con le persone.

Naturalmente nessuno nega a priori che Touadi e la donna ancora misteriosa (Debora Serracchiani) siano politici straordinari che cambieranno le sorti dell’umanità. Ma resta il fatto che non vengono scelti in quanto tali, ma perché soddisfano le esigenze del cast, come nei reality televisivi. La crisi di Veltroni, fino a quel momento in rimonta nei sondaggi, cominciò con le candidature della Velina Pensante (la Madia) e del Leghista Buono (Calearo). La gente annusò la messa in scena e l’incanto finì. Franceschini riparte da quel vuoto e rischia di approdare nello stesso luogo. Certi democratici se ne facciano una ragione: la politica per immagini è un brevetto di Berlusconi. Ogni replica dell’originale, anche se in versione politicamente corretta, non diventa una novità. Rimane un tarocco. (la Stampa)

Fedifraga genitrice. Davide Giacalone

I tre candidati alla segreteria del Partito Democratico la pensano allo stesso modo solo su due cose: contrari alla separazione delle carriere, per i magistrati, e favorevoli al voto per gli immigrati. Nel primo caso sono conservatori, oppositori della civiltà del diritto. Nel secondo ignoranti della realtà, viventi nel mondo dell’astrazione e del preconcetto.
Grazie ad una meritoria iniziativa de La Stampa, i tre candidati hanno risposto alle domande di un questionario. O, per meglio dire, sono stati invitati a farlo, visto che a diverse domande ora l’uno ora l’altro (mai Franceschini) hanno preferito scansare le risposte preconfezionate e dedicarsi ai distinguo del politichese. Il risultato, comunque, è interessante. Sull’età pensionabile, per esempio, Franceschini e Marino si pronunciano apertamente a favore dell’innalzamento, segnalandosi come più realisti di certi ministri, mentre Bersani è decisamente filogovernativo. Singolare, non vi pare? I due che si oppongono alla linea governativa lo fanno “da destra”, ove mai tale classificazione abbia ancora una significato.
Della questione immigrati tornerò ad occuparmi, non avendola certo trascurata. Oggi mi preme il brivido d’orrore provocato da quell’unanimità contraria alla separazione delle carriere. Orrore che cresce, sapendo che anche a destra molti la pensano in quell’incivile modo. E mi permetto un linguaggio così crudo perché in tutto il mondo civile le carriere sono separate. Non c’è nessuno che si trovi nella nostra ridicola e deprecabile condizione, sicché, quando si arriva in un’aula penale, l’accusatore ed il giudicante sono colleghi, fanno alleanze per eleggere i loro rappresentanti, militano in correnti politicizzate che, a seconda dei casi, li uniscono nelle convinzioni politiche o li uniscono nella spartizione di incarichi e promozioni. Possiamo far finta di discuterne quanto si vuole, ma non esiste una sola ragionevole teoria del diritto che giustifichi questo scempio, né c’entra un fico secco l’autonomia dei magistrati che, semmai, è minacciata e non tutelata da tale commistione.
E allora? Allora il fatto, increscioso, è che la gran parte di questo mondo politico è figlio non del mandato popolare, ma del colpo di mano giudiziario. Può aspirare a governare non perché dimostratosi più bravo e convincente di chi li precedeva, ma perché la precedente classe dirigente è stata spazzata via. Non dimenticatelo mai: i partiti politici che raccolsero la maggioranza assoluta dei consensi popolari, nel 1992, appena due anni dopo, nel 1994, non erano più neanche sulla scheda elettorale. Sono passati diciassette anni, ma ancora la politica non è riuscita a riprendersi il ruolo che la democrazia e lo stato di diritto le assegnano. Ecco, perché questi relitti senza più idee non riescono a prendere le distanze dalla fedifraga genitrice, la malagiustizia.

martedì 20 ottobre 2009

La memoria e il papello. Davide Giacalone

Questa mattina Luciano Violante sarà ascoltato dai procuratori palermitani. Mi auguro che i pubblici ministeri sappiano formulare domande significative, auguro a Violante di saper dare risposte convincenti. Quando fu lui ad andarli a trovare, lo scorso 23 luglio, le parole di Massimo Ciancimino erano ancora fresche e gli avevano fatto ritrovare la memoria, sopita per diciassette anni. La memoria di una singola persona può essere influenzata da tanti elementi, alcuni naturali, altri più legati alla convenienza. Quella che inquieta è la memoria del Paese, la nostra memoria collettiva, sempre pronta alla resa innanzi alla faziosità, sempre pronta a flettersi e genuflettersi. Oggi pronta ad annegare nel pantano della “trattativa” e del “papello”. Vale la pena fissare alcuni punti, degli ormeggi cui attraccare la ragione, prima che sia tirata via da flutti maleodoranti.
1. Parlare di trattativa fra lo Stato e la mafia non ha senso. Il primo esiste solo nei libri di diritto, la seconda nei film scadenti. Si può ragionare attorno ai contatti ed agli scambi fra uomini delle istituzioni, siano essi politici o forze dell’ordine, ed esponenti della criminalità organizzata, ovvero i capi di quel branco di disonorati e vigliacchi che si riconduce al mondo della mafia.
2. Tali contatti sono ovvi. Se i carabinieri propongono uno scambio fra la consegna di latitanti ed un buon trattamento per le loro famiglie non fanno che il loro dovere. Semmai, osservo: magari, lo scambio fosse stato solo quello! Perché, nella realtà dei fatti, non nelle congetture o nella letteratura per analfabeti, la legge e la gestione processuale dei collaboratori di giustizia (non “pentiti”, che le bestie non si pentono), hanno consentito favori larghissimi, direttamente a beneficio degli assassini. Sono fuori dal carcere persone che ci sarebbero dovute crepare. La procura di Palermo protesse mafiosi che, nel corso della loro “collaborazione”, tornarono a mafiare ed ammazzare. Stipendiati dallo Stato. Fatti, questi sono fatti.
3. Per capire il contesto in cui s’inquadra la presunta trattativa, basterà guardare a questi nostri giorni e al modo dissennato con cui il materiale mafioso viene trattato. Ci sono procuratori e politici che si tirano dietro le “rivelazioni”, tutti intenti al loro piccolo cabotaggio ed incapaci di vedere di quale più pericoloso gioco sono oggetto. Leggete i commenti, e vedrete il continuo tentativo di ricondurre le pagine criminali al balletto delle convenienze politiche. Cancellando la memoria, naturalmente. Tiriamo il fiato, allora, ed usiamo la testa.
4. Salvo Lima fu assassinato il 12 marzo 1992. Gli spararono per dialogare, volevano fare pressione su Andreotti affinché aggiustasse i processi? Ma questa è roba a fumetti! Quell’omicidio fu il segnale della rottura, definitiva. Un mondo politico, che ancora doveva affondare, era così licenziato dalla mafia con la quale aveva avuto rapporti. I capi mafiosi sono uomini senza onore, ma non dei cretini, sanno che i processi passati in cassazione non si aggiustano, e sapevano che ammazzare Lima significava indicare un loro interlocutore e puntare il dito contro Andreotti, suo capo corrente. Uccisero consapevolmente, girando una pagina dei loro rapporti con quella politica.
5. Giovanni Falcone fu ucciso, assieme alla moglie ed alla scorta, il 23 maggio 1992. Perché fecero saltare in aria un magistrato che era già stato sconfitto dal Consiglio Superiore della Magistratura e dalla sinistra, giudiziaria e politica? Perché eliminarono un uomo che Leoluca Orlando Cascio aveva potuto, impunemente, indicare quale connivente con mafia e politica (ricordate? disse che teneva le carte nei cassetti), un magistrato che per quello finì sotto inchiesta, uno cui, per combattere la mafia, era considerato, da Violante e compagni, meno capace di Agostino Cordova, uno di cui si poteva pubblicamente dire che s’era venduto al governo Andreotti? Perché? Ci sono solo due ragioni possibili: la prima è la vendetta, che Falcone aveva messo nel conto e che dimostrerebbe, comunque, la sua reale capacità di ficcare ferri roventi nel fianco della mafia, quindi l’opposto di quel che gli veniva rimproverato; la seconda è più politica, perché con Falcone fra i piedi sarebbe stato assai difficile utilizzare i pentiti quale bocca della verità, spesso a gettone, come i juke box.
6. Paolo Borsellino salta in aria, con la scorta, il 19 luglio 1992. Scrissero subito che si era sentito l’erede di Falcone ed aveva messo le mani sull’importantissima inchiesta mafia ed appalti. In 50 giorni? Ora scrivono: è morto perché contrario alla trattativa. Ma se Piero Grasso dice (e farebbe bene a dire tutto o tacere del tutto) che i contatti furono avviati dopo la morte di Falcone, sempre in quei 50 giorni si avviò la trattativa e si ammazzò il suo eventuale nemico? Mi domando se posseggono un calendario, certuni. Guardiamo i fatti: con la morte di Borsellino si cancella del tutto l’opera di Falcone, si azzera la vecchia politica giudiziaria antimafia, si lascia il campo libero agli altri, ai nuovi.
7. Restano alcuni loro collaboratori, ma presto vengono randellati a dovere. Mi limito ad un nome: Carmelo Canale. Carabiniere che Borsellino chiama “fratello”, legati da collaborazione quotidiana, cognato di Antoniono Lombardo, altro carabiniere, altro uomo accusato da Leoluca Orlando Cascio, sempre in diretta televisiva, sempre da Santoro, altro morto di mafia, questa volta per mano propria. Il botto di via D’Amelio era ancora nelle nostre orecchie che Canale finisce accusato di mafia. Ora è stato assolto, ma ora non conta niente, ora la memoria è già corrotta, ora la partita è già finita.
8. Le stragi di mafia occupano il 1992 e macchiano il 1993. Credete che servissero a trattare? E con chi, con un mondo politico che s’avviava alla forca, che non contava e non controllava più niente? Oppure con Forza Italia e Berlusconi, datore di lavoro di Mangano (lo dico, così non mi scrivono che non l’ho detto, ma non c’entra nulla), che solo i mafiosi sapevano essere il futuro vincitore e dal cui governo, comunque, non ottennero assolutamente niente? Sentite, i mafiosi non hanno ideologia, non hanno morale, non hanno idee, hanno solo interessi. Tengono i contatti con chi conta, se ci riescono. Li hanno tenuti sempre con i partiti di governo, nazionale e locale, infiltrandoli, condizionandoli e combattendo, al loro interno, le persone per bene. In quei due anni il potere traslocava. Ecco perché è interessante la ritrovata memoria di Violante, ovvero l’uomo che i pentiti poté utilizzarli, contro la storia e la tradizione del partito comunista, contro l’opinione di Gerardo Chiaromonte, comunista e suo predecessore alla commissione antimafia, e, con quelli, poté costruire accuse penali indirizzate a proseguire la lotta politica.
9. Se si perde la memoria di questi fatti, non si capisce nulla e si va avanti per sincopate rivelazioni e sensazionali riscoperte di quel che è ovvio. Per ora non mi spingo oltre, anche perché la cosa più significativa è già detta: se si recupera la realtà della nostra stessa storia si capisce quello che sembra oscuro. Il punto centrale non è la trattativa, fra Stato e mafia, ma la guerra che aprì crepe terribili nello Stato, massacrando alcuni fedeli servitori della legge e, con loro, la verità.
10. Osservo solo, per concludere, che le successive assoluzioni di Andreotti segnano non solo la sconfitta giudiziaria di questo disegno, ma anche un ulteriore inquinamento della memoria. Sono riusciti nel capolavoro di smentire giudiziariamente quel che i mafiosi avevano scolpito nella storia, uccidendo Lima. Capisco che si possa godere, per l’esito di questa partita, così cinica e mal concepita, giocata da una sinistra giudiziaria e politica che ancora tenta l’assalto, senza neanche l’eroismo della cavalleria a Isbuschenskij, sul fronte sovietico del Don. Ma, sinceramente, mi sfugge di cosa si possa mai gioire.

venerdì 16 ottobre 2009

Il ritorno degli anni '70. Dimitri Buffa

Bisognava vederlo Massimo D’Alema mercoledì sera a “Ballarò” quando il ministro del welfare Maurizio Sacconi l’ha beccato in castagna con questa storia che nell’ultimo numero della rivista della sua fondazione, “Italiani europei”, qualcuno ha pensato bene di chiedere un contributo all’ex eversivo all’italiana Toni Negri, detto anche “prendi lo stipendio da parlamentare e scappa”. La faccia di Baffino si è subito rabbuiata e il riflesso è andato sulla difensiva: “Noi del Pci abbiamo pagato un alto tributo di sangue alla lotta contro il terrorismo di sinistra”. Negri in Francia ha goduto di alte protezioni all’interno della gauche caviar locale ed europea. E all’ombra della dottrina Mitterrand ha consumato un comodo esilio prima di costituirsi negli anni ’90 quando tra indulti e amnistie quasi tutta la pena per associazione sovversiva e banda armata era stata già scontata. Anche contando il fatto che i primi cinque anni, a onore del vero, se li era fatti tutti in carcere in attesa di giudizio tra il 1979 e il 1984 e per giunta con accuse di cui era palesemente innocente. Tuttavia Negri resta un cattivo maestro. Se allo scivolone di ridare un megafono a Negri si aggiunge l’altra incredibile storia del dirigente del Pd modenese che chiama alle armi contro il Cav su “facebook”, salvo poi dimettersi un volta scoperto, si capisce perché persone come Giampaolo Pansa parlino oggi di “aria di ritorno agli anni ‘70”. Ma il problema, secondo Pansa, non è tanto quello del “Carneade Matteo Mezzadri” o del patetico ritorno di Toni Negri. No, secondo il Giampaolone nazionale, oramai sarebbe Eugenio Scalfari il vero e livoroso “cattivo maestro” del giornalismo italiano. Un vero e proprio diseducatore delle masse, vagamente rimbambito, con quell’afflato mai sopito, espresso prima contro Craxi e poi contro Berlusconi, di annientare l’avversario politico. Anzi il nemico. E per quelli come D’Alema che quando gli si ricorda in tv la genesi e il dna, anzi “l’album di famiglia” del terrorismo brigatista, per citare una fortunata espressione coniata negli anni ’70 da Rossana Rossanda sul “manifesto”, rispondono che “noi abbiamo pagato un alto tributo di sangue alla lotta al terrorismo”, Pansa precisa che “ alla fine si tratta di due persone: Guido Rossa, che è un sindacalista da loro emarginato e poi utilizzato solo dopo morto, e il povero D’Antona, che però fu ucciso da Brigate rosse che erano già un’ altra cosa rispetto a quelle degli anni ‘70”.

Mentre il clima di odio, per cui adesso i servizi di sicurezza sconsigliano al Cav i bagni di folla, sono sempre loro, gli ex comunisti, che contribuiscono a crearlo.

Pansa, parlando con il webmagazine della Fondazione “Fare futuro” che fa riferimento al presidente della Camera Gianfranco Fini, l’altro ieri ha ribadito quello che aveva già detto in un’intervista al “Corriere il giorno prima: ”C’è un odio che si taglia a fette“. E ha aggiunto : ”mi ha detto un amico, commentando la mia intervista di ieri al Corriere, che ormai c’è un odio fra due mondi. La gente lo percepisce, c’è poco da fare. Ma il mondo politico non pare preoccuparsene. Penso che i politici, in tutto questo, siano gli ultimi a preoccuparsene. Così come non si accorsero dell’arrivo di Tangentopoli o, anni prima, dell’avvicinarsi del pericolo terrorista. I parlamentari si sentono protetti dal ruolo che hanno, dal partito, dalla carica. Comunque sia, delle reazioni della casta mi importa poco. Quel che conta è il fatto che siano stati gli italiani qualunque a rendersene conto. (...) E invece basta andare in giro, per rendersi conto di quei mutamenti che, magari, non sono ancora arrivati sui giornali, e che però ci sono. Insomma, questa intervista al “Corriere” ha fatto rumore, credo, perché di solito questi argomenti non sono trattati sui giornali. Ma io di questi temi ne ho scritto spesso, non so se è per l’età che ho o per tutto quello che ho visto nella mia vita visto che io, negli anni 70 e 80, ho rischiato la pelle“. Pansa parla anche del problema delle giovani generazioni del tutto diseducate da questi agit prop che magari, dalla cattedra di un liceo, ti indicano la Carfagna come una baldracca e la Gelmini anche peggio. I giovani ieri si sparavano in piazza, oggi okkupano licei e università all’insegna di vuoti slogan di cui spesso neanche capiscono il significato più profondo. Così, dagli oggi e dagli domani, ritorna quel clima e un bel giorno, mutatis mutandis, torna pure la violenza. Senza contare che se oggi non c’è più l’humus adatto per il terrorismo marxista, non mancano le tensioni terzo-mondiste e il miraggio dell’ideologia anti sistema tipica del fondamentalismo islamico. Non a caso la maggior parte dei convertiti italiani all’Islam della prima ora ha scelto l’Ucoii e la fratellanza mussulmana e ha fatto un percorso eversivo lineare partendo da Prima Linea o dall’Autonomia per poi approdare tra i barbuti di casa nostra che fanno mettere il burqa alle loro compagne convertite anche loro cui impongono anche la poligamia. Prima davano le botte davanti alle fabbriche e alle scuole con le chiavi inglesi adesso si limitano a picchiare, di tanto in tanto, le proprie donne e i propri figli. (l'Opinione)

Partiti infiltrati dalla camorra. Davide Giacalone

3 febbraio, Gino Tommasino, consigliere comunale a Castellammare di Stabia (Napoli), esponente del Partito Democratico in una città amministrata da una giunta che comprende il suo partito, giace per terra, in viale Europa, crivellato di colpi. 15 ottobre, dalle mani degli inquirenti fugge Catello Romano, che aveva annunciato ed avviato una collaborazione con la giustizia, indicando i componenti del commando assassino. Più che collaborare, però, se la squaglia, dal rifugio dove era protetto. 15 ottobre, lo stesso giorno della fuga, il Partito Democratico campano lo espelle. Già, perché il giovane, presunto killer o, comunque, al corrente di qualche cosa, era iscritto a quel partito. E non era il solo, sicché il compagno assassinato ha dei compagni assassini.
Non si corra a conclusioni affrettate ed arbitrarie, prima si tenga presente un altro elemento: immaginando la possibilità d’infiltrazioni camorristiche, il Partito Democratico di Castellammare aveva proceduto ad un’analisi attenta degli iscritti, fra i quali figuravano, e figurano tuttora, diversi pregiudicati. Si era insediata una commissione apposita, incaricata di monitorare i compagni, uno ad uno, presso la sede del partito. Bastava un indizio, un volto noto, un vago sospetto e l’iscritto sarebbe stato messo alla porta. Per il buon nome del partito e per il rispetto che si deve agli iscritti onesti. Sapete quanti sono stati i respinti? Nessuno.
Non penso affatto che quel partito sia divenuto un partito di camorristi, ma so per certo che questo avrebbero scritto i giornali di oggi, se si fosse trattato di un partito diverso. Nei confronti di altri si sarebbe fatto il seguente ragionamento: chi erano gli amici del morto e degli assassini? chi erano i loro referenti provinciali e regionali? questi a loro volta, in quale corrente militano e chi è il loro leader nazionale? Tirando le somme avreste letto: il tale leader politico fa politica in contatto con la camorra, al suo servizio. A questa barbarie non ci allineiamo, naturalmente. Ma solleviamo un problema più vasto, che non riguarda solo la sinistra: se i partiti smettono di essere organizzazioni strutturate, se si trasformano in notabilati locali ed aggregato tutto quello che arriva, inevitabilmente sono contaminati dal peggio che la realtà locale esprime, e se i vertici somigliano a comitati d’affari, alla “base” si può trovare gente che spara. Non è la prima volta, quindi non sto esagerando.
In Campania ne sono successe di tutti i colori. Nella grande abboffata della spazzatura s’è nutrita anche la camorra. E alla grande. Non solo, i rifiuti hanno soffocato Napoli ed offerto uno spettacolo indecente, in mondovisione. Cosa è successo, poi? Nulla. La classe amministrativa è sempre la stessa, i dirigenti del partito sono sempre gli stessi, anzi, diciamola in modo più chiaro: avendo il saldo controllo del partito, il gruppo di Bassolino non può essere scalzato dall’amministrazione, come decenza ed opportunità politica vorrebbero.Dato che la spesa pubblica, largamente amministrata dagli enti locali, è una fonte di guadagno che contende ai mercati criminali il primato, in termini di fatturato, ne deriva che chi è forte nei secondi tende ad appropriarsi anche della prima. L’incapacità di reprimere il crimine, causata anche dai suoi legami con chi occupa le istituzioni, non solo impedisce di risanare aree che finiscono con il divenire extraterritoriali, ma provoca l’inevitabile inquinamento della politica. Di quella vincente, di quella che gestisce i soldi. In Campania, della sinistra.
Il popolo guarda, assiste all’avvicendarsi delle parti politiche, matura la convinzione che nulla possa cambiare, prova ad ottenere qualche cosa, ciascuno per sé, e si trasforma in plebe.

mercoledì 14 ottobre 2009

Ora Gad scorda gli harem del '68 e processa il corpo delle donne. il Giornale

Le donne del capo? Viene un po’ da ridere, ascoltando i seri dibattiti su sesso e potere, tutti lì a interrogarsi più o meno pudicamente se al leader la diano gratis e per pura soddisfazione oppure in cambio di qualcosa, favori, promesse, speranze o quattrini poco cambia. E ancor più, vedendo lo strappar di vesti e gli strepiti in punta di penna delle femministe più o meno attempate. Più, che meno. Come se avessero dimenticato non solo e non tanto la liberazione sessuale, ma il Sessantotto. Imperversa la sofferenza, la «sudditanza psicologica», la «prevaricazione» del potere, la sindrome di Stoccolma. Insomma, quel sempiterno maschilismo che a ogni puntata tanto indigna Gad Lerner e gli ospiti dell’Infedele. Ma il fascino del leader, le donne che s’offrivano (con l’apostrofo) o “timidamente” si rendevano disponibili ai capi e a chi infiammava le assemblee, sono figliolanza di quel vituperato Sessantotto, hanno segnato con forza il movimento studentesco e i gruppi extraparlamentari. E dev’esserci un motivo, se quasi - non dimenticate il quasi - tutti i soggetti maschi che ancora negli anni ’70 “militavano” e occupavano licei e università, ricordano quegli anni come i migliori della loro vita.

È una fetta di storia poco raccontata, non emerge più nemmeno nelle serate dei reduci, ma anche chi “non ha fatto il Sessantotto” l’ha sempre subodorata. O non erano pruriginose le cronache dei giornali perbene che raccontavano le notti d’okkupazione col sacco a pelo a Lettere, tutto sesso, droga e rock and roll? In realtà il meglio si sviluppava di giorno, sotto la cattedra dell’aula dove si tenevano quelle estenuanti e interminabili assemblee. Altro che la passerella delle veline o l’offerta delle escort, era il mercato dell’acchiappo. Chi parlava meglio al microfono aveva svoltato la serata, poteva scegliere a piene mani guardando il parterre. Quello che eccelleva su tutti gli oratori della giornata svoltava anche il pomeriggio, diversificando. Altro che «il corpo è mio e lo gestisco io», c’era la corsa, da ambo le parti. Il giorno dopo o a fine settimana, nel rendiconto in trattoria, a esibir gli scalpi non erano soltanto i leaderini. Spesso anche una bella ragazza vantava di «essersi fatta» il più ambito.

Quelli della Fgci, i giovani del Bottegone, rosicavano. Si son liberati più tardi, dandosi da fare dopo la scissione del Manifesto, quando hanno visto che i compagni espulsi gli davano giù di brutto. Ma quanto rimediava Franco Piperno, leader di Potere Operaio, non sapeva tenere il conto nemmeno lui, era il più invidiato (dai maschi, ovviamente) di tutta Roma. Una sera, a Campo de’ Fiori, si sono accapigliate in tre per un passaggio nel suo letto. Anche Adriano Sofri era assai ricercato e inseguito dalle compagne, a dimostrazione che il carisma è fatto pure di carni e umori. Certo è l’esagerato culto della personalità che imperava in Lotta Continua, ma dicevano che il leader ce l’avesse pure grande, se non altro per via del «basso ma dotato». Il dirigente Lc di Roma Centro, parliamo già di terze file, non aveva un brutto viso ma era alto un barattolo. Però parlava come un dio greco, incantava anche i serpenti, e scopava come un riccio. Gad Lerner invece, raccontano i suoi compagni, pare che restasse sempre a bocca asciutta. Lanfranco Pace, che allora non era poi così diverso da adesso, mieteva a Ingegneria e in Potere Operaio come un dannato, da stupire anche Piperno.

Domandate a Mario Capanna, se ricorda qualcosa sull’argomento. Oppure ad Aldo Brandirali, prima che imponesse a Servire il Popolo il rigido moralismo del Pci stalinista. Furono anni d’oro quelli, rimediava discretamente anche Renato Mannheimer, dopo un buon intervento. Pure Paolo Mieli, tra Potere Operaio, l’università e i primi grandi passi nel giornalismo, ha raccolto abbondanti grazie dalla militanza movimentista. Se Gianni Mattioli era monogamo e “serio”, è soltanto perché aveva una donna, anzi ce l’ha ancora, che lo avrebbe sbranato. E Stefano Marroni, leader del Tasso? Era della Fgci, ma cavalcava come un gruppettaro.

Più o meno come oggi, te la davano sull’onda del potere, per la forza della parola, o sul mito della forza bruta. Quanto dragavano i migliori del servizio d’ordine al tramonto e i katanga, non immaginate. Ricordate il film «Quando le donne avevano la coda»? Il clima era quello, e quanto fossero belle le prede, basta sfogliare le foto delle manifestazioni d’allora. Nel ’74 all’Argentina, ci fu uno scontro tra il servizio d’ordine di Lotta Continua con quelli di Avanguardia Operaia e del Manifesto che si ergevano a paladini delle prime femministe. Nella corsa al pelo libero e autogestito, gli ex lottatori sostengono ancora oggi di aver vinto loro.

Qualcuno ricorderà la vicenda di Popi Saracino, dirigente del movimento studentesco milanese, che divenuto insegnante fu portato in tribunale da una sua allieva, maggiorenne, che s’era sentita in «costrizione psicologica». Probabilmente Saracino non s’era accorto che il movimento era finito, quel che può avere un leader non è permesso ad un prof, e si beccò 4 anni e 4 mesi. Quattro anni dopo però, nell’85, lo hanno assolto con formula piena.

La morale di questa storia? Difficile distillarla, forse è attaccata ad un pelo. Però, se Berlusconi avesse fatto il Sessantotto, ora forse lo lascerebbero in pace.

Fantasmi incostituzionali, al Quirinale. Davide Giacalone

Al Quirinale s’è persa freddezza, s’è preso il vizio di cincischiare con le parole, finendo con l’inciampare nei fili di ragionamenti tortuosi e scarsamente fondati. In qualche caso si spingono oltre, infrangendo la lettera e lo spirito della Costituzione. So che si tratta di un giudizio severo. Ne sento il dolore, per il culto che rivolgo alle istituzioni. Conosco le possibili implicazioni, oggi le conoscono tutti, ma Giorgio Napolitano ha detto cose oggettivamente assai gravi.Egli ha affermato, parlando ai prefetti, che da tredici anni, da quando fu nominato ministro degli interni, si sente al di sopra delle parti, s’è incarnato nelle istituzioni. Ha detto: “ero determinato a svolgere l'incarico come uomo ormai delle istituzioni e non di una parte politica”. No, Signor Presidente, Lei ha confuso la politica con la faziosità, il militare in un partito con il militare contro le istituzioni. Forse Lei risente dell’avere militato a lungo, molto a lungo, anzi, sempre, in un partito, quello comunista, che aspirava a portare l’Italia fuori dal novero delle democrazie occidentali e farla divenire parte di quelle “popolari”, che erano delle dittature. Ma dobbiamo ricordarLe che i ministri sono sempre di parte, il governo, democratico e repubblicano, è sempre espressione di una parte politica, o di una coalizione, forte della vittoria elettorale e, quindi, capace di riscuotere la fiducia del Parlamento, che è composto da uomini di parte. Non c’è nulla di male, anzi, è un gran bene. E l’essere di parte non impedisce di servire lealmente le istituzioni, come, del resto, ciascun ministro giura. Oggi nelle Sue mani.
Perché Lei vuol sentirsi diverso? Chi le faceva opposizione, secondo Lei, era nemico delle istituzioni? Si rende conto, di quel che ha detto? O pensa che i Suoi colleghi di allora, o i ministri di oggi, abbiano violato il solenne giuramento? Lo dica, se lo pensa, ma non confonda le idee ai prefetti che, al contrario di Lei e di ogni altro politico, sono funzionari dello Stato, non eletti dal popolo, non di parte.
Napolitano, purtroppo, non si è fermato a questo, che è già terrificante, è andato oltre, riferendosi alla trasformazione federalista dello Stato: “Si tratta di un processo in pieno svolgimento e che ancora richiede alcune incisive modifiche costituzionali”. No, Signor Presidente, Lei ha il dovere di difendere la Costituzione così com’è. Il che non significa, naturalmente, ostacolare le riforme, ma neanche chiederle. Chiedendole, Lei la viola, la Costituzione.
La riforma del titolo quinto della Costituzione fu fatta, dal centro sinistra, sotto la presidenza d’Aula affidata a Napolitano, con un solo voto di maggioranza. Una riforma successiva, votata dal centro destra, fu avversata dallo stesso schieramento che poi elesse Napolitano al Quirinale. Schieramento che chiese il referendum confermativo e, con quello, grazie allo scarso afflusso di votanti, la cancellò. Si tratta di materia politica viva, al centro di scontri forti, rispetto alla quale il Presidente della Repubblica non deve e non può parteggiare, per giunta nella stessa giornata in cui si proclama non di parte.
Prenda queste parole, certo ruvide, Signor Presidente, come la supplica di chi non intende restare inerte nel mentre le istituzioni sono vilipese. Si fermi. Se altri reagiranno al posto Suo, ne colga il lato pericoloso. E se avrà modo di cogliere la gravità della situazione, si soffermi a riflettere su questi nostri giorni, sul fatto che ci sono smentite destinate a nascondere ferite profonde, nel cuore delle istituzioni.
Mi riferisco alla sentenza della Corte Costituzionale, circa il lodo Alfano, ed alla nota diramata dal Quirinale. Previdi l’abrogazione, anche perché la meritava. Ciò non toglie due fatti, pesanti ed ineludibili: a. quella legge era stata scritta ricalcando una sentenza della stessa Corte, sotto la diretta assistenza di un Quirinale che, firmando, se ne fece garante, non si tratta di un “patto”, o di altro sotterfugio inconfessabile, ma della pubblica e nota realtà dei fatti, sicché la recente sentenza smentisce la Corte di ieri, oltre che il Presidente della Repubblica ed il Parlamento di oggi; b. si è tollerato l’intollerabile, compresa la prassi di eleggere i presidenti della Corte Costituzionale in violazione della Costituzione, ma oggi si aggiunge la deturpazione di giudici che votano in disciplinato ossequio e totale aderenza alle partiti politiche cui devono la nomina.
Si può pure chiedere a tutti di uniformarsi all’ipocrisia ed al servo encomio, si può pure imporre al Tizio od al Caio di tacere e piegare la testa, ma ho la preoccupazione che cresca il numero delle teste vuote, e che a piegarsi sia quello splendido edificio costituzionale che da tempo è preso d’assalto da presunti restauratori, che si comportano da demolitori.
Il Presidente Napolitano è anche il mio Presidente, perché regolarmente eletto a Capo della nostra Repubblica. Non ci chieda, per carità, di estendere il rispetto che tutti dobbiamo all’istituzione fino a ricomprendere il rispetto per il Suo, personale, passato, giacché, in questo modo, non renderà più forte la democrazia, ma la sommergerà di fantasmi che ancora urlano.

martedì 13 ottobre 2009

Il terzista De Bortoli. l'Opinione

Attaccato contemporaneamente da Berlusconi e da Scalfari e da Travaglio, Ferruccio De Bortoli non sta più nella pelle. Essere bersaglio contemporaneo del Cavaliere e dei anti-Cavaliere lo induce a rivendicare orgogliosamente il merito di non essere schierato né da una parte, né dall’altra e di essere automaticamente al di sopra delle parti. Cioè un organismo terzo, che nei fatti ed anche di diritto svolge una funzione di garanzia. Insomma, una sorta di Corte Costituzionale della carta stampata.

Sarà per questo che la sinistra lo voleva candidare dalla Presidenza della Rai, al Comune di Milano e che pensa sempre a lui quando c’è da proporre per qualche carica importante uno di cui fidarsi per poi fottere il centro destra? Come la Consulta?

lunedì 12 ottobre 2009

I doppi errori. Davide Giacalone

Quello cui assistiamo non è un conflitto, ma un esaurimento istituzionale. Gli equivoci insanabili della così detta seconda Repubblica vengono tutti a galla, determinando, su ciascun problema, una coppia d’errori eguali e contrari. Segno che a saltare non è (solo) l’equilibrio nervoso dei protagonisti, ma quello istituzionale. Prendiamo il caso del Quirinale, a suo modo emblematico.
Dopo la bocciatura del lodo Alfano le parole di Silvio Berlusconi sono state risentite e chiare: mi hanno imbrogliato. Si riferiva a Giorgio Napolitano. Subito s’è levata la contraerea, che a difesa del Presidente della Repubblica ne ha elogiato il formale ed assoluto rispetto della Costituzione. Bubbole. La verità è assai diversa: non solo Napolitano si è speso a favore del lodo, non solo impedì al Csm di parlarne, ma i passi fatti sulla Corte Costituzionale erano stati interpretati, vista la maggioranza di sinistra che la domina, come un’assicurazione. Solo che i giudici costituzionali hanno fatto marameo anche a Napolitano, complici gli errori commessi da Berlusconi (la non dimenticata cena con due componenti la Corte) ed una difesa più politica che costituzionale. In ogni caso inefficace, su ambo i fronti. Insomma, Berlusconi se l’è presa non con il proprio carnefice, ma con quello che era stato appena macellato dai comuni carnefici.
La presenza di Napolitano al Quirinale, del resto, è già di suo un errore, che minaccia la stabilità delle istituzioni. Noi lo scrivemmo subito, immediatamente accusati di lesa maestà o d’essere rimasti ancorati ad un lontano passato. Ma era chiaro che mandare uno che era “ex” comunista solo perché il comunismo era crollato, essendo restato nel Pci fin dopo la fine del Pcus (il partito comunista sovietico), era una follia. A sua volta voluta da un Prodi che sperava così di pagare il dazio della propria stabilità, importandogli assai poco la rottura del clima politico che si era creato con Ciampi (dopo la lugubre stagione del peggiore presidente: Scalfaro). Risultato: Prodi è stato ugualmente massacrato, dai suoi, Napolitano è restato al Quirinale ed il Parlamento successivamente eletto ha una maggioranza opposta a quella che lo votò. Chi parla, oggi, di bon ton istituzionale farebbe bene a ripassare i fatti, per capire che il problema non risiede nelle buone maniere.
Né c’entra nulla la “coabitazione”, perché quella riguarda il sistema francese, dove il Presidente della Repubblica è eletto direttamente dal popolo, e può capitare che, nel corso della sua presidenza, cambi la maggioranza parlamentare, anche questa determinata dal voto popolare (capita anche negli Usa, con le elezioni di medio termine). Sicché i due indirizzi politici devono “coabitare”. Ma Napolitano non lo ha mica votato il popolo, ed il sistema costituzionalmente previsto dovrebbe servire a scegliere uomini che uniscono, non che dividono. Che funzioni poco, si vede. Il fatto è che neanche Berlusconi, come i suoi predecessori, lo ha eletto il popolo. Con la differenza che il capo del governo è espressione di una maggioranza politica determinata dagli italiani, laddove il suo nome sulla scheda è una finzione, o, se preferite, una presa in giro, mentre l’inquilino del Quirinale è espressione di un Parlamento che è vissuto solo il tempo necessario per piazzarlo dove si trova.
E allora? Allora lo andiamo ripetendo da troppo tempo: senza una stagione costituente non se ne esce, senza riscrivere le regole e fare riforme profonde si finisce con l’impantanare qualsiasi maggioranza, tradendo ogni mandato popolare. Poi, per carità, si può galleggiare sul niente, e senza nulla concludere, scambiandosi sorrisini e stringendo mani viscide, ma cambia solo la forma. Mentre a noi interessa la sostanza.

domenica 11 ottobre 2009

Le verità nascoste da "Anno zero". Lino Jannuzzi

“Verità nascoste”: è questo il titolo della trasmissione “Anno Zero” di Michele Santoro di giovedì sera. E mai titolo fu più appropriato. Ecco alcune delle verità che Santoro e i suoi compari hanno nascosto agli ospiti in sala e ai telespettatori. Prima verità. Secondo il testimone d’eccezione della trasmissione di Santoro, Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, l’ex sindaco di Palermo condannato per mafia e morto nel 2002, nel periodo delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, dove furono assassinati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ci sarebbero state non una, ma due “trattative” segrete ed eversive tra lo Stato e la mafia. La prima “trattativa” sarebbe cominciata nel mese di giugno del 1992, dopo la strage di Capaci e prima della strage di via D’Amelio, e avrebbe avuto come mediatore tra la mafia e lo Stato, rappresentato dall’allora colonnello del carabinieri Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno, lo stesso Vito Ciancimino, e si sarebbe interrotta nel dicembre del ’92, quando Ciancimino fu arrestato.La seconda “trattativa”, ancora più segreta ed eversiva, sarebbe passata, dopo l’arresto di Ciancimino, nelle mani dell’attuale senatore Marcello Dell’Utri, al quale la mafia avrebbe consegnato il “papello”, cioè la lista delle richieste avanzate per fare cessare le stragi. La verità è che le trattative tra lo Stato e la mafia durano da quando esistono lo Stato e la mafia, e da quando è stata varata la legge sui “pentiti” sono state ufficializzate e legalizzate. È da quel momento che i carabinieri, i poliziotti, i finanzieri, gli agenti della Dia e dei servizi segreti sono stati ufficialmente autorizzati e sollecitati a prendere contatto riservatamente con i mafiosi, già in galera o latitanti, e a convincerli a “collaborare”in cambio di sconti di pena e di favori e di protezione e di stipendio, e dopo che li hanno convinti e indrottinato ad accompagnarli dai magistrati che li interrogano e verbalizzano le loro “rivelazioni”.

Queste “trattative” su cui si mena tanto scandalo sono la normale procedura investigativa nella lotta alla mafia (e i più accaniti sostenitori della legislazione sui “pentiti” hanno sempre sostenuto che senza queste “trattative” è impossibile combattere la mafia, e sono proprio loro che strillano più forte denunciando la “trattativa”dei carabinieri con Ciancimino). In occasione delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, avvicinando i Ciancimino, prima il figlio e poi il padre, il colonnello Mori e il capitano De Donno non fecero altro che ciò che la legge li autorizzava e li sollecitava a fare e cercarono di convincere Vito Ciancimino ad aiutarli a catturare Totò Riina,il capo di Cosa Nostra. E c’erano quasi riusciti, senza bisogno di trattare alcun “papello” (come avrebbero potuto trattare “condizioni” con Riina mentre brigavano per catturarlo?Gli potevano mai mandare a dire: dicci cosa vuoi in cambio della tua cattura?), quando Ciancimino venne inopinatamente arrestato e cessò di collaborare. Della trattativa in corso fu informato chi di dovere e tra questi Liliana Ferraro, direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia e già collaboratrice di Giovanni Falcone, e atttraverso di lei, lo stesso ministro, che all’epoca era il socialista Claudio Martelli. Quando la trattativa con Ciancimino si interruppe, verso la fine di dicembre del 1992, non ci fu bisogno di un’altra trattativa perché appena due settimane dopo il colonnello Mori e il capitano Sergio Di Caprio, il famoso “Capitano Ultimo”, catturarono Totò Riina.E lo catturarono con l’ausilio del capitano Antonino Lombardo, nel più tradizionale e classico dei sistemi, col pedinamento dei boss che tenevano i contatti tra Riina e la rete di Cosa Nostra.

Che la storia di una seconda trattativa con lo Stato iniziata nel dicembre del 1992 tramite Marcello Dell’Utri sia una bufala basta a dimostrarlo, a parte la ormai avvenuta cattura di Riina, la data stessa. Nel dicembre del 1992, Dell’Utri era a Milano a dirigere Publitalia, la società che raccoglieva la pubblicità per Silvio Berlusconi e né lui né Berlusconi avevano niente a che fare con la politica e lo “Stato”, né avevano alcuna intenzione di averci a che fare per il futuro (ancora un anno dopo,e per tutto il 1993, Berlusconi, preoccupato per la crisi della prima Repubblica e per la prospettiva della conquista del potere da parte dei comunisti, cercava di convincere Mino Martinazzoli e Mario Segni a organizzare un’alleanza politica ed elettorale, a cui avrebbe offerto l’appoggio delle sue televisioni). Ve l’immaginate Totò Riina che, tra una strage e l’altra, scrive il “papello” per chiedere al direttore di Pubblitalia di impegnarsi per la revisione dei processi di mafia e l’abolizione del carcere duro per i mafiosi? È Dell’Utri che lo rassicura perché nel dicembre del 1992, con due anni d’anticipo, sa già che Berlusconi scenderà in politica e vincerà le elezioni del ’94 e sarà nominato capo del primo governo della seconda Repubblica e la prima cosa che farà, con la maggioranza che ha conquistato in Parlamento, sarà di promuovere per legge la revisione dei processi, la scarcerazione dei boss e l’abolizione del carcere duro?

Seconda verità. Sempre secondo le “rivelazioni” di “Anno zero”, Paolo Borsellino sarebbe stato informato della trattativa in corso tra Mori e De Donno e Ciancimino e vi si sarebbe opposto, e per questa ragione sarebbe stato assassinato:q uesta, come ha detto Santoro, è la “notiziona” della trasmissione di giovedì sera, la clamorosa e sconvolgente scoperta dei suoi segugi, che mette fine a tutte le discussioni. Borsellino è stato ucciso per responsabilità dei carabinieri Mori e De Donno e su mandato di chi stava trattando con la mafia,cioè Dell’Utri, che già preparava Forza Italia per Berlusconi. La verità nascosta da “Anno zero” è che Borsellino, come Falcone, di pochi altri si fidava come di Mori e di De Donno, e soprattutto dopo l’assassinio di Falcone. E,benchè non fosse direttamente incaricato delle indagini (la competenza per la strage di capaci era della procura di Caltanisseta)cercava disperatamente di capire come e perché il suo collega ed amico era stato assassinato e a questo scopo si riuniva segretamente proprio con Mori e De Donno nella caserma dei carabinieri, il più lontano possibile dal Palazzo di giustizia di Palermo. Se fosse vero che Borsellino fosse stato informato della trattativa segreta e abusiva ed eversiva di Mori e di De Donno con la mafia tramite Ciancimino,vorrebbe dire che Paolo Borsellino era loro complice e tramava con loro mentre trattavano con la mafia. Un’accusa ancora più grave di quella che viene fatta a Borsellino,quando si sostiene, agitando per l’aria le agendine rosse, che Borsellino avrebbe avuto dal “pentito” Gaspare Mutolo clamorose rivelazioni circa magistrati e poliziotti complici della mafia, e che Mutolo gli avrebbe fatto anche i nomi, e Borsellino non avrebbe verbalizzato, non avrebbe registrato nel verbale dell’interrogatorio le rivelazioni del “pentito”.

E, in definitiva, sarebbe stato il mandante dell’assassinio di se stesso. Terza verità (sembra una sciocchezza rispetto alla prima e la seconda verità, ma vale per rendere un’idea delle “verità rivelate” da Santoro e compagni). Per sottolineare drammaticamente la “verità” di un Borsellino sconvolto per l’incontro che avrebbe avuto con Mancino, neo ministro dell’Interno, e per le persone che avrebbe incontrato nell’ufficio del neo ministro (persino Bruno Contrada, proprio il poliziotto denunciato un’ora prima da Mutolo come connivente con la mafia) e che lo aveva costretto a interrompere l’interrogatorio di Mutolo,lo stesso Mutolo ha raccontato, e Travaglio e compagni lo ripetono da anni, che Borsellino, quando è tornato a riprendere l’interrogatorio di Mutolo,era talmnte nervoso che “accendeva e fumava due sigarette contemporaneamente”. La verità, come sanno tutti coloro che nel tempo hanno frequentato Borsellino e come ha testimoniato per l’occasione anche il procuratore Aliquò, presente all’interroratorio di Mutolo, è che Borsellino era un fumatore incallito e ininterrotto, che usava accendere la seconda sigaretta con il mozzicone ancora acceso della sigaretta precedente. Che quel giorno fosse talmente sconvolto da fumare due sigarette contemporaneamente è falso, come è falsa la trattativa segreta ed eversiva di Mori e di De Donno, come è falsa la seconda trattativa condotta da Dell’Utri, come è falso che Borsellino abbia saputo della doppia trattativa (al massimo, ha saputo, e lo poteva anche aver saputo direttamente da De Donno, dei “normali” contatti e tentativi investigativi dei carabinieri) ed è falso che sia stato ucciso per questa ragione. È vero invece che per diffondere queste falsità e questi veleni Santoro e Travaglio e i loro compagni di merende (e purtroppo non solo loro) devono nascondere la verità. (il Velino)

L'autogol del Colle. Dimitri Buffa

A volere essere cattivi si può tranquillamente dire che stavolta “l’attacco eversivo”, per usare le parole retorico -indignate del capogruppo al Senato del Pd Anna Finocchiaro, ex magistrata, Napolitano se l’è fatto da solo. Leggendo infatti le cronache del “day after” del no della consulta al Lodo Alfano si evince, anzi si può esserne certi, che non solo il Capo dello Stato aveva dato ampie rassicurazioni al premier sulla possibilità che la legge reggesse il vaglio costituzionale dopo avere sondato gli umori di qualcuno degli inquilini della Consulta, ma anche che avesse fatto quella famigerata opera di “moral suasion” che secondo correnti di pensiero legalitarie e radicali come quella di Marco Pannella, costituirebbe la vera “peste italiana”. Quel brutto vizio insomma per cui le leggi, anche quelle da dichiarare o meno costituzionali, si interpretano ad usum delphini a seconda dei casi e non si ermeneutizzano alla lettera punto e basta. E’ una vexata quaestio: che iniziò con un referendum del 1977 quello sul Concordato tra Stato e Chiesa cattolica, ma non con il Vaticano, e che invece fu assimilato a una legge di ratifica di trattati internazionali che c’entrava come i cavoli a merenda. Poi due anni dopo ci fu una sentenza che negava la perequazione delle pensioni di annata sempre ergendo a principio costituzionale le esigenze di bilancio dello stato che invece sono un “accidente”. Tendenz poi ribadita da due sentenze del 1993. Poi si disse “no” al referendum sul sostituto d’imposta facendo rientrare il modo di riscuotere le tasse tra le leggi economiche e di bilancio che non possono essere sottoposte a referendum. E si potrebbe continuare all’infinito senza dimenticare le interferenze di Oscar Luigi Scalfaro per fare dichiarare inammissibile, addirittura capovolgendo il verdetto nel pieno della Camera di consiglio (come avrebbe poi raccontato l’allora presidente della Consulta e in seguito della Rai, Antonio Baldassarre, con le solite modalità del lanciare il sasso e nascondere la mano che costarono il posto al direttore e al vicedirettore del “Tempo” dell’epoca, ossia Maurizio Belpietro e Andrea Pucci, che raccontarono la cosa e poi vennero sconfessati dallo stesso presidente della Consulta), il referendum del 1997 che voleva smilitarizzare la Guardia di Finanza.

Insomma le pressioni sulla Consulta, le “moral suasion”, anche e soprattutto da parte della massima carica dello Stato, quando ci sono questioni che premono al potere, si sprecano. L’unica differenza è che quando vengono fatte per favorire un esecutivo poco gradito come quello del Cav o vanno a vuoto o evidentemente vengono fatte in maniera poco convinta oppure con quella ammiccante categoria dello spirito del “io te lo dico ma tu non tenerne conto”. Vista sotto questo profilo la minaccia di Berlusconi, riportata dai giornali di ieri, di rendere pubbliche le rassicurazioni e le confidenze di Napolitano a proposito della “moral suasion” effettuata su membri della corte per fare dichiarare costituzionale il Lodo Alfano non va vista come una minaccia o un ricatto ,ma semplicemente come lo sfogo di un politico che si vede buggerare per l’ennesima volta dalla massima carica dello Stato. Che promette cose che non può mantenere. Non in linea di principio generale, ma solo perché riguardano lui. Una “non moral suasion ad personam” in pratica, e forse il Presidente della Repubblica in buona fede sperava di salvare capra e cavoli. Magari con una sentenza salomonica che invece poi non è arrivata. Ciò detto però, adesso non ci si può nascondere dietro il dito dell’ipocrisia e gridare al “golpe” perché Berlusconi o chi per lui dice che la Consulta è fatta per lo più da uomini della sinistra messi lì dagli ultimi tre presidenti. Se in quel palazzo gli ex capi di Stato come Scalfaro sono stati capaci di mettere una persona che nemmeno ne aveva i titoli come Fernanda Contri, e quelli come Ciampi, già a capo di un governo di centro sinistra, di porci un mediocre ministro di Giustizia del primo governo Prodi come Giovanni Maria Flick, autore di una riforma, quella del giudice unico penale e civile, che ha creato i danni dell’attuale sistema giudiziario, e se lo stesso Napolitano stava per farci andare, peraltro con l’incosciente accordo di buona parte del Pdl e senza particolare meriti da costituzionalista, un personaggio come Luciano Violante, non ci si venga a dire che quel consesso che siede a palazzo della Consulta è al di sopra di ogni sospetto in materia di complotti e dintorni. “Ci si facci il piacere” come diceva Totò. Perché questa “peste italiana” fatta di istituzioni che si piegano alle esigenze delle ragioni non tanto di Stato, ma piuttosto partitocratiche, ha giustamente meritato alla Corte in questione i due soprannomi che nel tempo gli diedero uomini come il grande giurista e costituzionalista Giuseppe Maranini, già nel 1957, o come Marco Pannella, molto più recentemente: e cioè, rispettivamente, “Corte Prostituzionale” o, a scelta, “massima cupola della mafia partitocratica”. (l'Opinione)

venerdì 9 ottobre 2009

Primatista mondiale

"C’è ancora qualche buontempone che ha il coraggio di sostenere ancora che dovrei farmi processare. Ma contro di me ci sono stati 109 procedimenti, più di 2.500 udienze, più di 530 perquisizioni, e ho dovuto spendere più di 200 milioni di euro per pagare consulenze e avvocati. Sul giudizio della consulta sul lodo Alfano non mi ero mai fatto illusioni perché si tratta di un organismo politico che emette sentenze politiche che sono quindi sentenze di parte" aggiunge il premier. "Tranne il popolo- prosegue - cioè il 68,7% degli italiani, il nostro governo ha contro tutti: una minoranza organizzatissima di magistrati rossi, il 70% della carta stampata, tutti i talk show della tv pubblica, gli spettacoli satirici. Il Capo dello Stato sapete a quale parte politica appartiene. Ebbene, ringrazio gli italiani per il sostegno che continuano a darmi e mi fanno sentire in obbligo di ricambiare con impegno ancora maggiore. E so che il mio dovere è di governare per tutti i cinque anni della legislatura - conclude- fino al termine del mandato che il popolo italiano mi ha dato".

giovedì 8 ottobre 2009

Italia futura. Marco Cedolin

Il presidente della FIAT Montezemolo, uomo più di ogni altro avvezzo a privatizzare i profitti socializzando le perdite, recente beneficiario tramite la società NTV (costituita insieme a Diego Della Valle e ad Intesa San Paolo) della gestione delle nuove linee ferroviarie ad alta velocità, pagate decine di miliardi di euro dai contribuenti italiani, è finalmente riuscito a coronare il sogno di possedere un proprio think tank.

Italia Futura, questo è il nome del gruppo di pressione (lobby o fondazione che dir si voglia) capitanato da Luca Montezemolo, è stato presentato ieri ad oltre 200 persone, fra le quali il presidente della camera Gianfranco Fini, il parlamentare del PD Enrico Letta ed il fondatore della comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi.Montezemolo ha esordito spiegando tutte quelle che non sarebbero le aspirazioni del nuovo think tank, dando una classica dimostrazione di “excusatio non petita, accusatio manifesta”. Italia futura non sarà il laboratorio segreto di misteriose alchimie partitiche, né si renderà espressione di un oscuro complotto di salotti buoni, fortunatamente estinti da tempo, né incarnerà l’ennesimo partito sulla scena politica, dal momento che non servirebbe al paese, né sarà intenzionato ad influenzare le geometrie dei partiti.

Italia Futura, secondo le parole di Montezemolo, sarà “un luogo di idee e proposte che ha un'unica e trasparente missione: fare emergere le molte capacità di cui è ricco il nostro Paese per coinvolgerle nell'elaborazione di un progetto sul futuro dell'Italia. Si tratterà di una missione del tutto normale che prende spunto dagli Stati Uniti e dalla loro ricca tradizione di centri di riflessione sul futuro della nazione. Costruirà ogni tre mesi delle campagne tematiche all’interno delle quali verranno lanciate delle proposte snelle e operative intorno ad alcuni grandi problemi del paese. Rappresenterà un luogo d’ideazione, uno strumento di mobilitazione dell’opinione pubblica, uno spazio per pensare il futuro del paese.
Italia Futura affronterà i temi centrali e cruciali della vita degli italiani, ed uno di questi, la “mobilità sociale” è stato scelto come oggetto della prima campagna ed illustrato in sala nel corso della presentazione da Irene Tinagli, ricercatrice già membro della direzione nazionale del Pd, che ha curato il rapporto sull’argomento.

La “maschera” del buon samaritano, preoccupato per i problemi dei cittadini, indispettito dal fatto che il divario tra ricchi e poveri aumenti e con questo aumentino le diseguaglianze e la difficoltà di scalare la società, già usata da Diego Della Valle durante le puntate di Porta a Porta e Ballarò di qualche anno fa, collocata sul viso di Montezemolo appare ancora più grottesca. Così come la velleità di spendersi per il bene del paese non può che risultare ridicola da parte di un uomo che nel corso della propria (facile) carriera è sempre stato abituato a prendere dal paese, senza mai nulla dare.
Italia Futura non è nè sarà mai un’associazione di beneficenza e anche se con tutta probabilità non diventerà mai un partito, nasce con degli obiettivi ben precisi, facilmente individuabili anche solo leggendo fra le righe le dichiarazioni ammantate di buoni propositi esternate da Montezemolo. Italia futura non sarà un partito, ma mirerà a dirigere e guidare l’operato dei partiti di potere, orientando l’opinione pubblica affinché le garantisca una posizione dominante all’interno del rapporto di forze che verrà a crearsi con la politica. Italia Futura agirà dietro le quinte e non porterà rappresentati in parlamento, ma si spenderà per far si che i parlamentari votati all’interno dei partiti politici portino in parlamento gli interessi di Italia Futura, che saranno molto differenti e spesso addirittura antitetici rispetto a quelli degli italiani.
Se Italia Futura rappresenterà l’avvenire, si nutre la vivida sensazione che possa manifestarsi assai più greve del presente, poiché non c’è aguzzino peggiore di quello che continua a picchiarti dicendo che lo sta facendo soltanto per il tuo bene. (il Corrosivo)

Repubblica impara da Grillo: "Berlusconi è come Hitler". Francesco Cramer

Ormai è ufficiale: Repubblica si mette stabilmente in scia del grillismo più feroce, del dipietrismo più ferino. L’editoriale di ieri dal titolo «Il Cavaliere illegalista» era un inno all’insulto, un’apoteosi dell’ingiuria. Autore: Franco Cordero, giurista cuneese, estensore dell’appello pro Repubblica, inventore del termine «caimano», partorito in un articolo in cui Berlusconi veniva paragonato a Mussolini. Correva l’anno 2002. Ora Cordero, iperbole delle iperboli, corregge il tiro: Berlusconi non è Mussolini ma Hitler. Heil! Enfasi senile o soltanto ansia di ricalcare i toni del leader di Montenero di Bisaccia? Mistero. Ciò che è chiaro, anzi nero su bianco, è il curaro che sgorga dalla penna dell’opinionista di Largo Fochetti. Il quale scrive, a proposito del lodo Alfano: «Concedergli (a Berlusconi, ndr) l’immunità (che non è immunità ma sospensione di processo, ndr) significa ungerlo monarca assoluto, in figure reminiscenti della scalata hitleriana 1933-34. Mancano solo la legge dei pieni poteri e il cumulo cancellierato-presidente della repubblica, fusi nel nome mistico “Führer”». Il giurista vede già il tripudio di bandiere con le svastiche e selve di braccia tese. Mah.
Nella sua analisi concetti da anarco-insurrezionalista e cifra stilistica da curva sud: «L’Italia è un caso clinico da quando governi corrotti aprono l’etere al pirata venuto dalla P2, covo d’una pericolosa criminalità eversiva in colletto bianco». Totale disprezzo per i milioni di elettori del centrodestra: «S’insedia (Berlusconi, ndr), monopolista di una televisione con cui disgrega i neuroni collettivi; tre volte occupa Palazzo Chigi adoperando i mangiatori dell’erba televisiva quale massa elettorale».
Illegalista. Seppure a Repubblica decidano di mettere il termine nel titolo, per Cordero è perfino «un eufemismo: edifica l’impero mediante corruzione, frode, plagio; vince le cause comprando chi giudica». Il giurista è un rottweiler ringhioso: «Salvo per il rotto della cuffia, ma Dio sa quanta materia pericolosa nasconda un sottosuolo blindato da scatole cinesi e paradisi fiscali». Accusa: «Gli serviva un’immunità: gliela votano, invalida, ma nel dichiararla tale la Corte scioglie questioni collaterali; risalito al governo, la pretende minacciando misure devastanti quale sarebbe la sospensione dei processi». Cordero saccheggia lo Zanichelli dell’insulto, tracima odio ogni riga: «Eccolo, l’Italia invasa dal plutocrate populista, pifferaio, re delle lanterne: non sa un’acca dell’ars gubernandi occidentale, coltiva gli interessi suoi, converte il pubblico in privato, odia i poteri separati e non vede l’ora d’abolirli in una regressione al dominio prepolitico; perciò l’Europa trattiene il fiato davanti allo scempio italiano». (il Giornale)

giovedì 1 ottobre 2009

Per cortesia, fatevi gli affari vostri. Caius

Sulle pagine della stampa estera l’Italia, quando non si tratti di giudizi di adeguatezza sul nostro primo ministro, viene spesso additata quale responsabile di politiche d’immigrazione lesive di diritti umani e ricettacolo di movimenti xenofobi. L’approvazione del pacchetto sicurezza – contemplante il reato di immigrazione clandestina – sollecitò le severe rampogne di quotidiani francesi e inglesi, i quali rilevarono la generale indignazione della comunità internazionale e l“inquietudine” dell’ONU. Sarebbe interessante il parere di quegli stessi commentatori circa certi recenti avvenimenti d’oltralpe e d’oltremanica. Sarebbe interessante perché al momento non sembra ancora disponibile sugli organi di riferimento. La trentaduenne cassiera Fatou Cham, originaria del Gambia e residente da diversi anni a Londra, impiegata presso l’azienda britannica “Tesco” il gruppo di distribuzione più grande d’Inghilterra, veniva scelta come nuovo volto per il lancio di una campagna pubblicitaria della stessa azienda. L’esposizione su quotidiani e settimanali è però risultata disastrosa. Infatti i funzionari dell’immigrazione, scoperto che la donna, madre di tre figli, era sprovvista di permesso di soggiorno, l’hanno arrestata in vista dell’espulsione. Il rigore dei funzionari è apparso eccessivo poiché Fatou era arrivata in Inghilterra nel 1998 per gli studi universitari; il suo visto da studente era scaduto nel 2001 e da allora aveva ripetutamente presentato richiesta per prolungare la sua permanenza in Inghilterra, soprattutto in considerazione del suo stabile impiego. Ma il permesso non le è mai stato concesso. Purtroppo dal 2004 in Inghilterra la permanenza senza visto di lavoro è reato. Il portavoce della UK Border Agency, ha dichiarato laconicamente: “La UK Border Agency, se viene a sapere di persone che non abbiano più titolo per rimanere qui e non se ne siano andate volontariamente, le arresta”. Semplice, no? A quanto pare, anche in Francia le manifestazioni di dissenso verso le violazioni dei diritti umani subite dagli immigrati non trovano grande eco sulla stampa.

Eppure a Parigi, ogni domenica, la cattedrale di Notre Dame è scenario di proteste nei confronti della corrente adozione di provvedimenti detentivi ed espulsivi a carico di minori, in quanto figli di sans-papiers. Provvedimenti sempre più frequenti da due anni a questa parte. In risposta il governo francese, lungi dall’annunciare sanatorie o regolarizzazioni “al limite” (per intenderci, di tipo italiano), ha deciso di sopprimere la figura del “Difensore dei minori”, creata proprio a tutela dei minori stranieri, e di sgomberare bruscamente, a Calais, il campo che forniva rifugio agli immigrati in attesa dell’imbarco per l’Inghilterra. E’ bene anche ricordare che attualmente in Francia accogliere o aiutare un sans-papier è reato: a norma dell’articolo 622-1 del codice sull’entrata e il soggiorno degli stranieri, “la persona che aiuta direttamente o indirettamente, che facilita o tenta di facilitare l’entrata, la circolazione o il soggiorno di uno straniero in Francia” è passibile di una pena di 5 anni di carcere e di una multa di 30.000 euro. Noi italiani conosciamo i nostri difetti. Forse questa è la ragione per cui i nostri giudizi sugli altri di regola sono clementi. Torna a nostro onore l’essere riluttanti a guardare biecamente in casa d’altri, e certe meschinità vanno semplicemente ignorate. Ma torna ad onore del Presidente Napolitano l’aver condannato la miserabile prassi, invalsa in certi ambienti politici italiani, di fornire sponda interna alle sciocchezze scritte sul nostro paese fuori confine. (l'Opinione)