giovedì 30 luglio 2009

De Benedetti, l'avventuroso destabilizzatore. Gianluigi Da Rold

Scriveva Geronimo, alias l'ex ministro democristiano Paolo Cirino Pomicino, nel suo primo libro di ricordi “Strettamente riservato “ sulla fine della “prima Repubblica”, a proposito di Carlo De Benedetti : “E' il marzo 1991. Carlo De Benedetti viene a trovarmi al ministero del Bilancio. Mi espone un progetto, che sta elaborando con diversi amici, industriali e giornalisti, per affidarlo poi ad alcuni uomini politici. A bruciapelo mi chiede: “Vuoi essere il mio primo ministro ?”. Resto attonito. E' la proposta più strana che mi sia mai stata fatta”.

L'ex amministratore delegato delle Ferrovie, Lorenzo Necci, amava intrattenersi ironicamente, prima della sua morte tragica e sfortunata, sulla vendita di Infostrada, la rete telefonica delle Fs: “Fu ceduta al gruppo De Benedetti, non si sa bene per quale motivo, con un contratto di settecentocinquanta miliardi di lire pagabili in quattordici anni. Tutto questo avveniva nel 1997. Poco dopo De Benedetti cedeva ai tedeschi, a Mannesmann, la sua Infostrada, per quattordicimila miliardi di lire. Ovviamente, senza alcuna rateizzazione.” Necci sorrideva amaramente e ricordava anche alcuni episodi, legati al grande affare, che gli apparivano quasi “inspiegabili”.

Nel 1991, Gianni Agnelli, rispondendo alle domande degli studenti della Sorbona, disse di Carlo De Benedetti: “Lo conosco bene da tantissimi anni. Abitavamo persino insieme anni fa. E' un uomo d'affari molto esperto in materia finanziaria e industriale. I suoi rapporti con la stampa e con il pubblico sono ottimi. E' un uomo che ama, o perlomeno ha amato, l'avventura negli affari. La cosa lo diverte senz'altro. So che adesso gli piace affermare di essere stanco di questa vita avventurosa e di volersi limitare alla direzione di tre o quattro aziende come Valeo, Olivetti e Mondadori. Vuol finirla con la vita di prima. Io personalmente non ci credo molto. E' un uomo che si lascerà sempre tentare dall'avventura. Perché è fatto così. E' nel suo carattere. E a me del resto deluderebbe di non assistere più ai suoi colpi di scena”. Signorilmente, Agnelli dimenticava, con la sua non-chalence, quando l'ingegnere, pur manager Fiat, gli stava scalando abilmente la stessa Fiat dall'interno. (segue)

Ancora una piccola citazione, dal libro, bellissimo e dimenticato, “Capitani di sventura” di un grande giornalista economico-finanziario come Marco Borsa. Con ironia De Benedetti viene definito “ Il più aggressivo dei nostri capitani di avventura”, usando lo stesso termine “avventura” che aveva usato Agnelli alla Sorbona nel confronto con gli studenti.

Per comprendere De Benedetti non è di certo sufficiente ricordare questi episodi e queste citazioni. L'elenco è lunghissimo e dovrebbe ripercorrere vicende ben più complesse come l'affare Suez, tutta la vicenda Olivetti, il “mordi e fuggi” al Banco Ambrosiano, i complicati rapporti con Mediobanca, la Sme, il “lodo Mondadori” fino all'insediamento nel mondo della sanità e sopratutto alla testa del gruppo editoriale Repubblica-Espresso.

Anima inquieta, “attraversata” avrebbe sentenziato Gianni Brera, spirito imprenditoriale avventuroso, con alcune impennate che lo spingono pure a quelli che, appunto per Marco Borsa, appartenevano al mondo dei nostri “Capitani di sventura., Persino un “grande borghese, come Bruno Visentini fu prima attratto da De Benedetti e poi un poco deluso da questa personalità piuttosto complessa o complicata. (segue)

Il fatto è che l'ingegnere è sempre stato in grado di essere al centro dell'attenzione non solo per le sue incursioni nel mondo finanziario e industriale, ma soprattutto per il suo rapporto contrastato con alcune maggioranze di governo, particolarmente con quella di Bettino Craxi e oggi con quella di Silvio Berlusconi, In realtà, Carlo De Benedetti, che si dichiara alfiere della libertà di stampa, e censore dell'intreccio tra affari e politica, nel momento in cui non vede andare bene i suoi affari scatena i suoi giornalisti contro gli ostacoli che si pongono sulla sua strada.

In questo momento, l'ingegnere non riesce più a far quagliare i suoi affari. Si dice che sia persino contestato in famiglia per il suo eccessivo attaccamento al gruppo editoriale che presiede. Ma in tutto il resto sembra ai margini, naviga con un profilo di piccolo cabotaggio. Si guarda intorno, punta a un affare, ma poi non riesce a concluderlo come ai tempi d'oro Non è di certo un “disperato”, ma si sente come “tradito” da uomini politici su cui aveva puntato. Non aveva dichiarato, un tempo, di voler essere la “tessera numero uno” del costituendo Partito democratico ? Oggi, in un momento di temporanea marginalità nel mondo degli affari, De Benedetti sembra quasi aver rotto ogni sodalizio con quei “perdenti” e si è quindi lanciato, in una sorta di campagna furibonda, contro il premier Berlusconi, attaccandolo sul piano personale, per aprirsi varchi non tanto in campo politico, quanto per favorire una destabilizzazione dove, in genere, gli uomini della finanza e dei media, intrecciati insieme, riescono sempre a trarre ottimi risultati.

Il problema è che, questa volta, l'avventuroso destabilizzatore, l'amante dei colpi di scena, non arriva che a mettere in campo escort e “mutanda pazza”. Troppo poco per ritornare ai vertici di quei capitani che imperversavano nel mondo del sempiterno intreccio affari-politica italiano. Se si mette in campo la signora D'Addario, significa che “le armi sono proprio spuntate”. (il Velino)

giovedì 23 luglio 2009

I rossi Kim. Davide Giacalone

Kim Il Sung, il Presidente Eterno. Kim Jong Il, il Caro Leader. Kim Jong Un, l’Intelligente Leader. E’ quel che resta di un osannato regime comunista, trasformato in monarchia militarista e psicopatica, dove al fondatore segue il figlio, che ancor prima di morire (non è mai troppo presto) designa successore il pargolo di secondo letto, mentre il primogenito continua indisturbato la sua vita fra casinò e gozzoviglie varie. Intanto, in attesa di trovare un barbiere degno di questo nome, il dittatore in carica prosegue la sua corsa verso la conquista dell’arma atomica.
Doveva essere, quello di questa famiglia rossa, il governo della parte buona, sana e progressista della Corea, la Repubblica Democratica Popolare, mentre l’altra, il sud, era consegnata alla corruzione della democrazia amerikana ed allo sfruttamento connaturato al capitalismo. Peccato che, oggi, i coreani del sud sono ricchi e felici, mentre quelli del nord trasformati in un gregge dolente e sterminato, soggetto alle mattane di una dinastia senza altra legittimità che l’uso della forza repressiva.
E’ andata meglio al Vietnam, che rimane una Repubblica Socialista ma s’è convertito alla globalizzazione ed è entrato a far parte dell’organizzazione che regola gli scambi internazionali, ristabilendo le relazioni con il mondo libero. Anche il Laos è rimasta una Repubblica Democratica Popolare, ma si è aperto al commercio ed al turismo (che in tutta l’area imperversa anche nella versione sessuale). La Cambogia, invece, è tornata ad essere, nel 1993, una monarchia parlamentare, dopo essersi liberata dalla dittatura dei Kmer Rossi.
Chi non è ancora sbarbato ricorda il nome di questi Paesi, e dei rispettivi capi militari e politici, regolarmente comunisti, quali bandiere agitate contro il militarismo occidentale, per la libertà e l’autodeterminazione dei popoli. Alla faccia! Perché non tornano, inflacciditi e sdrucidi, o arrampicati, integrati ed arricchiti, i giovani comunisti di allora e non ci spiegano come mai il loro sogno asiatico è un incubo a cielo aperto? Cos’è: non hanno applicato a dovere la ricetta comunista, o l’hanno presa troppo alla lettera?
Guardate i Kim coreani. Per la libertà e l’autodeterminazione dei popoli, nonché per la nostra sicurezza, si dovrebbe farli fuori. Oggi, come ieri.

mercoledì 22 luglio 2009

C'è da fare nel mondo. Christian Rocca

L'Amministrazione Obama ha deciso di aumentare di 22 mila unità il numero dei soldati in forza all'esercito americano per affrontare le guerre in Iraq, Afghanistan e le missioni nel resto del mondo. (Camillo)

Troppi appartamenti sfitti. *Stefano Boeri

Immaginatevi di creare dal nulla in cinque anni una città di circa duecentocinquantamila abitanti, estesa su quindici chilometri quadrati. Come Mestre, o Messina, o Prato.

E di realizzare questa città grazie a una importante quota di finanziamenti statali (200 milioni di euro di partenza) e al supporto di fondi privati; cioè di costruttori, proprietari, banche interessate a investire per realizzare dell’edilizia residenziale destinata ai ceti meno abbienti.

Ecco visualizzato in un’immagine il Piano Casa varato ieri dal Governo. È tanto? È poco? È sufficiente a rispondere al disagio abitativo di migliaia di cittadini italiani (famiglie a basso reddito, studenti fuori-sede, giovani coppie, sfrattati, immigrati)? Per rispondere a queste domande dobbiamo fare tre considerazioni.

La prima è che si tratta di un atto politico opportuno e utile, che riprende una promessa di stanziamento del governo Prodi e ne attua una prima cospicua parte. Ma resta un atto parziale e limitato, se pensiamo che una sola Regione italiana, la Campania, avrebbe, da sola, bisogno di tutte le 100.000 nuove abitazioni previste nel prossimo quinquennio dal Piano Casa per dare risposta alla drammatica domanda di case a prezzi contenuti che proviene dai suoi abitanti. In altre parole, è come se una nuova Mestre o una nuova Messina servissero per ospitare i cittadini bisognosi di una sola, seppur grande, regione italiana. Lasciando insoddisfatto per i prossimi cinque anni il resto del Paese.

La seconda considerazione è che questo Piano Casa è un intervento salutare e però anche monco. Gli manca quel pezzo importantissimo, anzi fondamentale, che riguarda tutti gli interventi di recupero, ristrutturazione e ampliamento che - grazie a facilitazioni e incentivi legati alla possibilità di rottamare edifici fatiscenti e di sostituirli con architetture sostenibili dal punto di vista energetico - il governo prevede di concordare con le Regioni italiane.

È come se dopo aver discusso per mesi del Piano Casa vero, che potrà sul serio cambiare - nel bene e nel male - la situazione dell’edilizia residenziale dei territori del nostro Paese, ieri se ne fosse rubato il nome per metterlo sul cappello di un progetto molto più limitato, anche se importante. Se è dunque un bene che si sia partiti con l’intenzione di rispondere alle situazioni più drammatiche, va anche detto che proprio perché il disagio abitativo è oggi un fenomeno trasversale, che riguarda fasce diverse della popolazione urbana, è necessario che al più presto i due strumenti legislativi vengano riaccorpati e portati a coerenza.

La terza considerazione, la più importante, è piuttosto un appello. Siamo ancora in tempo - anche per le ragioni appena esposte - a convincere il governo a varare un Piano integrato di politiche sulla casa che non eviti di affrontare il primo grande paradosso delle città italiane: sono città che continuano a crescere, a divorare annualmente in misura maggiore di ogni altro Paese europeo terreni verdi e campi agricoli, nonostante siano per gran parte degli immensi gusci vuoti, dei deserti di cemento.

Siamo ancora in tempo a capire che senza una politica che si occupi con forza e ostinazione di recuperare alla vita quotidiana le migliaia e migliaia di vani oggi disabitati, ogni previsione di nuova edilizia residenziale assume dei toni caricaturali e addirittura minacciosi.
Come abbiamo già scritto su queste pagine, per rendersi conto di questo paradosso basterebbe guardarsi attorno; memorizzare le offerte di affitto e vendita sui portoni delle case e soprattutto quelle infinite persiane chiuse delle abitazioni e quei serramenti senza vita degli uffici che - come le palpebre di occhi che non vedono più - ci guardano con una sospetta fissità nei nostri percorsi quotidiani in centro, in periferia, nella città diffusa. A Roma, su 1.715.000 abitazioni, 245.000 - una su sette - sono oggi vuote. A Milano su 1.640.000 appartamenti, più di 80.000 non sono abitati, e quasi 900.000 metri cubi di uffici sono deserti (l’equivalente di 30 grattacieli Pirelli vuoti). Muri, pavimenti, soffitti, arredi che aspettano da anni che qualcuno entri, li abiti, vi riporti le pulsazioni della vita quotidiana.

Una seria politica di rivitalizzazione di questo immenso patrimonio sfitto o abbandonato muoverebbe le energie molecolari di migliaia di piccole imprese edili, l’intelligenza delle innumerevoli associazioni che si occupano di instaurare (ecco la vera sussidiarietà) uno scambio fiduciario tra proprietari e inquilini, aumenterebbe il reddito di migliaia di famiglie impaurite da un sistema dell’affitto sregolato e darebbe casa a prezzi calmierati a altrettante migliaia di cittadini bisognosi ma esclusi dai requisiti a volte rigidi delle politiche centralizzate. Qualcosa che sta accadendo, per fare un esempio vicino, in Spagna, a Barcellona, dove un’Agenzia di immobiliare sociale in pochi anni ha reimmesso sul mercato più di 20.000 abitazioni ad affitti calmierati.

Altro che una nuova Mestre o una nuova Messina... Le case di cui abbiamo bisogno stanno già, costruite e vuote, dentro le città del nostro Paese. Recuperarle, ridar loro una linfa vitale è il primo modo di rispondere al fabbisogno abitativo; ed è il miglior modo per difendere da un’inutile - ripeto inutile - cementificazione le campagne che, ancora per poco, circondano le nostre bulimiche città.

*Architetto, docente di Progettazione urbanistica al Politecnico di Milano. Dirige la rivista Abitare
(la Stampa)

giovedì 16 luglio 2009

Quelle domande ai giudici usa. Angelo Panebianco

Come è nella tradizione della democrazia americana, l'audizione di fronte alla Commissione giustizia del Senato di Sonia Sotomayor, designata come giudice della Corte Suprema dal Presidente Obama, è stata, per lei, una prova assai dura. Ha dovuto difendere il proprio passato come giudice della Corte d'Appello federale di fronte alle domande incalzanti dei senatori. La Sotomayor è di origine ispanica. La sua affermazione secondo cui una «saggia donna ispanica» sarebbe un giudice migliore di un «uomo bianco», l'ha esposta alla accusa di alcuni senatori repubblicani di praticare una sorta di razzismo alla rovescia. La Sotomayor ha dovuto spiegare che quel discorso era solo volto a interessare alla carriera giuridica un pubblico latino giovane che, per lo più, se ne tiene lontano. Ha dovuto poi replicare all’obiezione di essere una «attivista liberal », più interessata a modificare la legge che ad applicarla. E ha dovuto render conto delle posizioni assunte in cause riguardanti dispute razziali. La Sotomayor non è il primo giudice designato alla Corte Suprema che viene messo in graticola dai senatori e non sarà l'ultimo. L'audizione è un interrogatorio ove abbondano le domande scomode, che serve al Senato per confermare o rifiutare la designazione presidenziale del candidato (e all'opinione pubblica per valutare le qualità del giudice designato e l'operato del Senato) ed è un'istituzione cruciale della democrazia americana. Dà trasparenza al processo decisionale mediante il quale un’assemblea rappresentativa avalla o respinge la nomina di un giudice della Corte. Per la sensibilità europeo- continentale ciò può apparire strano ma questo modo di procedere non toglie affatto prestigio alla Corte Suprema. Al contrario, lo rafforza. Le istituzioni americane sono diversissime dalle nostre. Figlie di un'altra storia e di un'altra cultura politica. Però in quelle istituzioni c'è un insegnamento che vale anche per noi. La nostra (europea, e italiana in particolare) è una tradizione di chiusure corporative e di mancanza di trasparenza. Basti pensare al fatto che in Italia le critiche al modus operandi della magistratura vengono spesso trattate dai suoi rappresentanti come delitti di lesa maestà, subdoli tentativi di «delegittimazione ». Oppure, si pensi a come vengono designati i giudici della Corte Costituzionale. Siamo sicuri che il prestigio della Corte verrebbe indebolito se i candidati designati dovessero affrontare pubblicamente una batteria di domande, sul modello americano, da parte del Senato? L'America è una democrazia che combina la gelosa difesa dell'indipendenza dei giudici (a tutti i livelli) con il rifiuto dell'esistenza di caste burocratiche chiuse, impermeabili al controllo democratico. Nella tradizione europeo-continentale, invece, le magistrature sono tecno- burocrazie separate dal processo democratico. In considerazione dell'accresciuto peso che queste tecno- burocrazie svolgono nella nostra vita associata, avvicinare un poco, su questi aspetti, le due sponde dell’Atlantico, non sarebbe forse sbagliato. (Corriere della Sera)

martedì 14 luglio 2009

Se Anm e Csm sentissero la Sotomayor... Daniele Capezzone

Non sappiamo se Sonia Sotomayor, designata dal presidente Obama, supererà indenne il fuoco di fila parlamentare dei repubblicani, e riuscirà effettivamente a divenire la prima giudice ispanoamericana della Corte Suprema Usa.

Ma quel che importa, qui, è altro, e cioè le sue parole d’esordio pronunciate dinanzi alla commissione Giustizia del Senato americano: “Il compito di un giudice non è fare le leggi, ma applicarle”.

La cosa è a maggior ragione significativa se si considera che, in un sistema di common law, la latitudine dell’intervento interpretativo - e dunque in qualche modo “creativo” - del giudice è infinitamente più ampia rispetto a quanto dovrebbe accadere nei sistemi di civil law, fondati molto di più sul diritto scritto, come il nostro. Eppure, la Sotomayor non ha avuto esitazioni nell’esordire così, e nel presentare questo biglietto da visita ai parlamentari americani.

Verrebbe voglia di prendere l’audiovideo di quelle parole, farne un dvd (opportunamente sottotitolato a scanso di equivoci nella traduzione...), e inviarlo ai membri del Csm, sempre così lesti nell’invadere il terreno delle Assemblee legislative, e anche ai vertici dell’Anm, ormai compulsivamente lanciati a promuovere “campagne politiche” contro l’una o l’altra riforma della giustizia, contendendo competenze proprie del governo e del Parlamento.

Ormai, in Italia, quando si parla di giustizia, anche i princìpi più semplici, da abbecedario liberale, devono essere ricordati, riproposti, e soprattutto difesi dalle insidie del travaglismo diffuso. Il piccolo ma combattivo Velino non cesserà di farlo. (il Velino OreSedici)

giovedì 9 luglio 2009

A scuola di giornalismo da Buscetta. Perla Scandinava

La campagna di stampa ridicola, esasperata e disperata, lanciata contro la persona del presidente del consiglio e che gli italiani stanno pagando a caro prezzo in termini non soltanto di immagine, di sicurezza interna ma anche di pazienza ormai alla fine, non si è ancora arenata. Per settimane il ping pong “gruppo De Benedetti-referenti stampa estera” si è svolto come descritto da Luca Sofri:

“C’è un intero fenomeno giornalistico che sta prosperando in queste settimane, e che ricade nella categoria “notizie che non lo erano”. Il meccanismo è questo, e riguarda le accuse e le analisi contro il Presidente del Consiglio di queste settimane: i giornali italiani pubblicano delle ricostruzioni ipotetiche e delle dietrologie quotidiane, che i lettori italiani sono ormai abituati a dimenticare il giorno dopo (le dimenticano gli stessi giornali, peraltro). Quelle ipotesi vengono però riprese dai giornali stranieri, che le hanno lette sui giornali italiani e le sintetizzano per i loro meno attenti lettori. E il giorno dopo i giornali italiani riprendono gli articoli stranieri, a sostegno delle stesse ipotesi che loro stessi avevano azzardati.”.

Il torneo del rimpallo si sarebbe dovuto concludere in pochi set, grazie ai colpi ben assestati con foto shock e scandalose testimonianze di una donna che si è meritata il titolo di portabandiera del prostituta-pride. Ma le foto senza contenuto shockante, le testimonianze piccanti in libertà senza nessun riscontro di autenticità hanno fallito l’obiettivo e Silvio Berlusconi non si è dimesso.

Tanto battage sulla vita privata del premier ha finito con l’evocare scene di noia mortale, tra documentari con Bush e foto di famiglia affatto sexy. Ma se tutta l’operazione sa di uso criminale dell’informazione, a cominciare dalla figura del fotografo, più simile a un cecchino appostato sulle colline intorno a Pristina che a un free lance, per tacere del modo suggestivo di raccontare il nulla arricchendolo di fantasiose descrizioni, la piega che la vicenda ha preso negli ultimi giorni sa di giornalismo di stampo mafioso.

Dalle pagine dei giornali impegnati nel ping pong di cui sopra sono partiti avvertimenti minatori: pronte altre foto mortali, trascrizioni di intercettazioni micidiali, come pallettoni in canna. Un picciotto di Buscetta lascerebbe la testa mozzata di un capretto davanti alla porta del nemico Berlusconi, ma un repubblicones prova a intimidirlo con l’effetto preannuncio di foto saffiche. Insomma o Silvio Berlusconi se ne va o la bomba, come la chiama mafiosamente Repubblica, lo farà saltare!

Fuori le foto, direte voi, no, le foto sono blindate, quindi fidatevi!

mercoledì 8 luglio 2009

Indovina chi giudica la cena. Davide Giacalone

Un mondo alla frutta è facile s’impicchi ad una cena. Il desco altolocato ha suscitato polemiche accese e meravigliate, sebbene di stupefacente vi sia, prima di tutto, l’assoluta assenza di riservatezza. Il potere snudato può esser gaglioffo, ma più che la trasparenza va prendendo piede lo spionaggio. A condannare, poi, è chi dovrebbe tacere. Intanto s’apprende che il Consiglio Superiore della Magistratura, incline al perdono dei magistrati pedofili ed alla solidale comprensione verso gli analfabeti, ha trovato un sussulto di rigore, rivolgendolo alla toga che utilizzò internet per far vedere quanto i colleghi fossero incapaci e balordi.
Il tema vero, pertanto, è quello della giustizia italiana, la cui credibilità pareggia l’efficienza. Al discredito concorre la Corte Costituzionale, e ricordo che noi, qui, con precisione e dettagli, ne raccontammo la triste decadenza, denunciandone apertamente i costumi, tendenti al debosciato. Ma, allora, le odierne fiere ruggenti erano micioni sonnacchiosi, intenti a far le fusa sul grembo dei sentenzianti. Castrati erano, e tali rimangono.
I magistrati dovrebbero starsene lontani dalla vita politica, ivi comprese le frequentazioni sociali. I giudici costituzionali, per giunta, sono gli unici non di carriera, meglio piazzati per dare il buon esempio, ove mai il carrierismo non l’avessero nel sangue. Certo, può capitare che si sia stati compagni di banco o commilitoni, che ci s’incontri periodicamente. Ma c’è modo e modo. La cosa pazzescamente ridicola è che a pretendere di denunciare il cadere in tentazione sia gente che incassava soldi e favori da quelli che sarebbero stati i loro indagati, e che poi, per riscuotere il premio del populismo togato, si buttano in politica. E’ immorale che si passi dalla procura alla candidatura, propiziata dall’esibizionismo giudiziario. Si tratta di un malcostume talmente diffuso che non se ne vede più il contrasto con l’indipendenza.
E che dire della magistratura che continua a pretendere i propri uomini in ministeri, enti, società e centri di spesa? Questa è commistione bella e buona, anzi, brutta e cattiva. Ci sono magistrati contabili che giudicano le spese disposte dai colleghi. Consiglieri di Stato che amministrano la cosa pubblica e danno pareri su come sarebbe meglio farlo. Poi capita che capi di gabinetto (la vera ossatura del potere ministeriale) di lungo corso, passati per molti ministeri e molti ministri, finiscano a giudicar le leggi. Che volete chiedergli, di rinnegare se stessi? E chi glielo chiede, dei presidenti che stanno lì solo sei mesi, violando la Costituzione che dovrebbero difendere? Chi lo reclama, quelli che alla Corte volevano mandare il proprio capo della corrente giudiziaria, quello che aveva isolato e neutralizzato Falcone? Se raccontassimo la storia delle contaminazioni, in Italia vorrebbero restare solo i clandestini.
Siamo arrivati al punto, oramai più ridicolo che drammatico, di avere un magistrato che tiene un blog per segnalare gli sfondoni dei colleghi (da quello che legge la verità negli occhi dei testimoni a quello che obbliga al mantenimento dei morti). Ha un nome, Gaetano Dragotto, ma quando fu accusato per quella sua attività si difese sostenendo che la svolgeva in modo anonimo e senza fare i nomi dei colleghi. Come se la viltà e l’omertà fossero attenuanti, laddove, al contrario, si sarebbe dovuto accusarlo di non averlo fatto con esposti da lui firmati, ed indicando il nome dei mentecatti. Insomma, al Csm restano convinti sia bene il cane non morda il cane, sicché, dopo avere assolto ogni devianza e promosso ogni ignoranza, hanno stabilito che no, Dragotto la deve pagare. Quello fa marameo e se ne va in pensione. Altra bocca da sfamare, a cura di quelli cui tocca lavorare.
Ho una visione quasi sacrale della magistratura, credendo nella giustizia più di quelli che vestono la toga. Hanno soldi e carriera assicurati, per essere indipendenti e separati. Ma non s’accontentano e s’arrampicano. Basta con l’ipocrisia: o li si considera, anche nel più alto consesso, portatori d’interessi, nominandoli od eleggendoli in modo coerente, oppure taccia l’appiccicosa e disonesta doppiezza di chi si scandalizza a corrente alternata.

Seguendo la stampa. Lodovico Festa

“Bersani sta costruendo una proposta politica veramente innovativa” Dice Filippo Penati al Riformista (8 luglio) E Penati è il vero vincitore delle elezioni per la Provincia di Milano, i rossoneri stanno facendo una squadra più forte di quella dei nerazzurri. E, naturalmente, se mio nonno avesse avuto le ruote, sarebbe stato un tram

“Berlusconi è ‘malato’ come con cognizione di causa ha autorevolmente detto Veronica Lario” Dice Valentino Parlato sul Manifesto (8 luglio) Il sangue non è acqua, i bei comunisti di una volta, quelli che mandavano gli avversari in manicomio, qualche eredità l’hanno lasciata

“E’ vero che alle volte i direttori del ‘Times’ lanciano campagne finalizzate a fare contento il loro direttore” Dice Bill Emott alla Stampa (8 luglio) Ormai gli ultimi giornalisti all’inglese, che notoriamente se ne fregano del loro editore, sono alla Repubblica

“No a interferenze della politica” Dice Corrado Faissola alla Stampa (8 luglio) Bei tempi quando i banchieri tutti in fila andavano a votare per le primarie dell’Ulivo o del Pd. Allora sì che si interferiva per bene. (l'Occidentale)

giovedì 2 luglio 2009

Se Viareggio in lutto si spacca su Berlusconi. l'Occidentale

Il breve viaggio di Berlusconi nella Viareggio colpita dalla terribile sciagura ferroviaria dell'altra notte si è trasformato in una piccola, ma non per questo meno preoccupante, rappresentazione di guerra civile. Da un lato gli odiatori imbestialiti, con le urla e con i fischi; dall'altro i sostenitori con i viva e gli applausi. In mezzo una tensione che si tagliava col coltello.

Al solo apparire di Berlusconi, il lutto, il dolore per le vittime, l'impegno per il soccorso e per la compassione, tutto questo è stato spazzato via da una gelida ventata d'odio. A cui ha fatto da contraltare una improvvisata manifestazione di sostegno. Nel complesso non è stato un bello spettacolo.

Erano settimane, se non mesi, che Berlusconi non si faceva vedere in piazza, tra la gente. Persino in campagna elettorale aveva evitato apparizioni all'aperto. Così ieri Viareggio è stato l'incolpevole scenario di un'altra esplosione. La rabbia della gente non era quella tipica delle vittime di un disastro insensato e ancora tutto da spiegare. No, le urla e gli insulti erano piuttosto il frutto diretto e avvelenato della campagna di stampa contro Berlusconi da Casoria in poi. "Puttaniere", "pedofilo", "vergognati!", questo era il tenore della protesta. Era la voglia matta di togliersi la soddisfazione di cantaglierla al mostro di Berlusconi di cui tanto si è letto, mormorato e discusso in queste ultime settimane. E poco importa se dietro sullo sfondo c'era ancora la città ferita e fumante.

Se il frutto delle campagne della libera stampa contro il presidente del consiglio si ripercuote così ciecamente e violentemente sulla gente, se il giudizio sulla persona di Berlusconi apre fossati così profondi tra i cittadini, se la seminagione di odio ha così rapidamente attecchito, c'è davvero poco da scherzare. Paradossalmente anzi, la tregua invocata da Napolitano che nella sfera politica ha avuto ascolto e forse anche qualche effetto, davanti alle immagini della contestazione di piazza suona come un flatus vocis.

Si dirà che la colpa è di Berlusconi medesimo, della sua intemperanza, della sua mancanza di sobrietà , dei suoi vizi privati. E che la libera stampa non ha fatto altro che far trionfare i fatti. La Repubblica ne sarà certamente convinta. Anche quando cita (pag.8) l'opinione di una manifestante viareggina che dice: "Non è vero che Berlusconi ha risolto il problema della spazzatura a Napoli, lo ha solo spostato in campagna, gli ha dato fuoco e poi chissenefrega della diossina!". Anche lei certamente una lettrice di Repubblica e dei suoi "fatti".