lunedì 31 dicembre 2012

Berlusconi risponde...

Giuseppe Intorre - Chiedo scusa, domando da profano: per quale motivo, visto che ha lavorato così male, fino all'altro ieri voleva Monti a capo della sua coalizione?

Silvio Berlusconi - Io non giudico la persona Mario Monti, giudico l'operato del governo dei tecnici e lo valuto a partire da tre aspetti: i dati economici oggettivi sono tutti negativi per gli italiani; l'enorme diffusione nel cuore dei cittadini di tristezza, sfiducia e pessimismo, sentimenti con i quali nessuno ha mai costruito nulla di buono; il fallimento del patto riformatore fondativo del governo: nonostante una maggioranza senza precedenti, il governo tecnico non ha saputo fare le grandi riforme - istituzioni, giustizia, costi della politica - per completare le quali avevamo appoggiato la sua nascita.
Ho chiesto a Monti di essere il federatore dei moderati italiani perché ho da sempre chiaro che i moderati sono la maggioranza in Italia e solo se si dividono fanno vincere la sinistra. 
Per questo dal 1994 ho lavorato per mettere insieme tutte le forze alternative alla sinistra. 
Per cercare di ricomporre l'unità dei moderati, nell'ultimo anno ho fatto tre passi indietro: dal governo, dal Popolo della Libertà, dalla prima linea della politica. Speravo che altri sedicenti moderati si unissero a noi. Così non è stato.
Ho voluto fare un ultimo tentativo, invitando il senatore a vita Mario Monti. L'ho fatto sapendo di fare un gesto indigesto alla maggioranza dei miei elettori: tuttavia lo reputavo necessario per aumentare le possibilità di battere la sinistra, ricomponendo l'unità completa dei moderati.
Oggi Monti ha scelto di dividere la sua strada dalla mia. Così è diventato di fatto un alleato della sinistra: ora indiretto, perché divide il fronte moderato; dopo le elezioni, nei suoi piani, prevede una esplicita alleanza con la sinistra. Moltiplicheremo il nostro impegno per evitare la vittoria di Bersani e Vendola, che renderebbe ancora più drammatica la già difficile situazione delle famiglie italiane e renderebbe permanente la recessione. (Forzasilvio.it)

venerdì 21 dicembre 2012

Tassa spazzatura. Davide Giacalone

La tassa sulla spazzatura è una tassa spazzatura. E’ la mascheratura dell’ennesima patrimoniale, un ladrocinio senza corrispettivo di servizi, un prelievo commisurato alle inefficienze comunali, un salasso per non risolvere i problemi e, come se non bastasse, un monumento all’idiozia legislativa e al sopruso incivile. Basti pensare che pagheremo ancora un’addizionale “ex Eca”, che sarebbe un di più che era dovuto agli enti comunali d’assistenza, istituiti nel 1938 e soppressi nel 1978. La Tares (fu Tarsu, fu Tia, fu TaRi), così ribattezzata dalla fantasia malata di chi cambia nome alle cose per lasciare le cose come stanno, è l’incarnazione del satanismo fiscale. Filiazione di uno Stato tanto più esigente quanto più inefficiente.


E’ una patrimoniale perché si paga in ragione dei metri quadrati e non dell’attitudine a produrre rifiuti. Una persona che vive da sola in 300 metri quadrati pagherà di più di quindici persone che vivono in un terzo dello spazio, laddove è evidente che i secondi produrranno assai più rifiuti (il pattume di ciascuno di loro varrà il 2,3% di quello del solitario). E’ giusto così, sento dire, perché è bene che paghino di più i ricchi. Ma è assurdo, perché già si paga una patrimoniale sulla casa (Imu) sicché questa è la seconda tassazione della stessa cosa. In più sono tenuti a pagare tutti quelli che possiedono, occupano o detengono, a qualsiasi titolo, qualsiasi tipo di locale, quindi ci sono cittadini che pagheranno due o tre volte per il medesimo servizio. E pagheranno cifre che non hanno nulla a che vedere con il servizio in questione.

Veniamo a quello, al servizio: peggio funziona e più si paga. Vorrà pur dire qualche cosa che la tassa più alta la pagano e la pagheranno i napoletani, periodicamente e ricorrentemente abbandonati ad annegare nella spazzatura! Più un comune è inefficiente, più gli costa gestire i rifiuti, più fa pagare ai cittadini. E andrebbe anche bene, se tutti i poteri e le responsabilità fossero del comune, perché, in quel modo, i cittadini saprebbero che c’è una cosa da fare, subito: sbarazzarsi del sindaco. Invece, posto che di molti sindaci sarebbe bene sbarazzarsi, i comuni hanno solo una parte dei poteri e delle responsabilità. Ad esempio: dare vita a un serio ciclo di smaltimento e sfruttamento dei rifiuti non è solo doveroso, ma anche economicamente conveniente, salvo il fatto che poi il termovalorizzatore non riesci ad aprirlo, complice una cittadinanza (mai dimenticarlo, perché ci sono anche colpe dei cittadini, mica solo quelle della politica) che è pronta a dire “no” a qualsiasi cosa, in questo modo avallando l’unica politica fin qui praticata: tassa e sperpera.

Poi ci sono le colpe specifiche dei comuni: non potrà mai funzionare una raccolta differenziata per la quale non vengono forniti gli strumenti e che, visibilmente, è una presa in giro. A Roma ho la casa da una parte della strada e l’ufficio dall’altra: a casa c’è la differenziata, ma non distribuiscono i sacchetti per metterci la roba, in ufficio non c’è, sicché tutto finisce assieme e marameo a chi s’affanna a dividere. Però pago due volte, per due servizi che non solo non sono uguali, ma che col piffero che hanno quel valore.

Quella dei rifiuti è un’emergenza nazionale, direttamente proporzionale al caos istituzionale delle autonomie locali. Siamo un Paese esportatore di spazzatura, arricchendo quelli che si prendono la nostra e sfruttano sia la nostra minchioneria che i nostri rifiuti. Roba da dare le craniate contro al muro. Quel che serve è un piano nazionale, con investimenti che non sono alla portata delle municipalità e che giustificherebbero un prelievo oggi ingiustificato. E’ la realtà che deve cambiare, non il nome della tassa.

Infine: con un emendamento alla legge di stabilità è stata spostata la prima rata da gennaio ad aprile. Questa sarebbe la ragione: dare respiro a contribuenti che hanno appena pagato l’Imu. Delle due l’una: o sono bugiardi o sono tutti evasori fiscali, posto che una cosa non esclude l’altra, perché ad aprile siamo alla vigilia della dichiarazione dei redditi e relativo versamento del saldo. Quindi questa è solo una miserrima trovata elettoralistica, posto che la Tares sarà più cara delle tasse che sostituisce e che, quindi, in un anno di ulteriore recessione, la pressione fiscale aumenterà. L’esatto contrario di quel che serve. Ecco perché questa è una tassa che, assieme all’intera politica fiscale, merita d’essere buttata nella spazzatura.
Pubblicato da Libero

domenica 2 dicembre 2012

La lezione Sea. Davide Giacalone

L’insuccesso della quotazione Sea non ha avuto nulla d’imprevedibile, in compenso dovrebbe servire da lezione per l’intero sistema Italia. Ove non si voglia farsi ripetutamente e costosamente del male. I giornali lo presentano come il frutto della lite fra azionisti, e segnatamente fra il comune di Milano e il fondo F2I, ma quello è un aspetto secondario, sebbene colorito. I due azionisti possono anche, se li diverte, continuare a suonarsele davanti a qualche giudice, ma noi tutti faremmo assai male a non capire il senso del giudizio espresso dal mercato. Decisivo, perché riguarda non solo quella quotazione, ma l’intero processo di vendita di parte consistente del patrimonio pubblico. Cui, meglio prima che dopo, si dovrà mettere mano.

Per conoscere i dati del problema non era necessario pagare, con generosità, uno stuolo di consulenti, noi li avevamo messi in fila su queste pagine. Erano accessibili allo strepitoso prezzo di un euro e venti centesimi. Un anno fa la società Sea (che gestisce gli aeroporti di Linate e Malpensa, controllata dal comune, per il 54,8%, e dalla provincia di Milano, per il 14,56) era stata valutata 1,3 miliardi. Valutazione non teorica, perché sulla base di quel valore era stata venduta una quota a F2I (il 29,75%). Dopo un anno, che gli amministratori hanno descritto come di grandi successi e guadagni, è stata presentata al mercato con una forchetta che andava da 800 milioni a 1 miliardo e 75 milioni. Come anche qui anticipato, il limite più basso è stato considerato troppo alto. Già questo doveva essere più che sufficiente per sconsigliare d’avviare il processo di quotazione.

La colpa del ritiro ora si attribuisce alla condotta di F2I (partecipata da Cassa Depisti e Prestiti e da fondazioni bancarie, quindi con una natura pubblica, ma con la disciplina di un fondo privato). Non c’è dubbio che il fondo ha fatto di tutto per evitare di incassare una svalutazione della propria quota, ma c’è da chiedersi se, in questo modo, ha ostacolato o favorito una seria politica di dismissioni. Perché se si ammette che quel che il pubblico vende possa svalutarsi anche della metà del valore, in un tempo così breve, chi mai comprerà? Se l’indicatore Sea fosse stato assunto a termometro generale, allora il mercato si sarebbe preparato a chiedere di pagare subito la metà di tutto quello che lo Stato italiano vorrà vendere. Non è neanche una zappata sui piedi, sarebbe stato come darsela direttamente in fronte.
I
l Comune di Milano, oggi, sembra lamentarsi del fatto che gli è stato impedito di prendere il patrimonio dei milanesi, svalutarlo e, non contento, di piazzarlo in Borsa a danno dei risparmiatori. Che è come dire che un risparmiatore milanese sarebbe stato fregato più volte. Vale per l’intero patrimonio pubblico: procedere in questo modo è suicida.

Come si è potuti cadere in un simile abbaglio? Semplice: pretendendo di andare in Borsa non a vendere un progetto di sviluppo, ma per fare cassa, per dare soldi alla provincia, con la pretesa, comunque, che a comandare sarebbe rimasto il comune, quindi la giunta, quindi la maggioranza politica, quindi la politica. Stavano quotando la politica. Ecco l’errore. E siccome dovremo fare vendite e quotazioni, meglio prendere nota dell’errore e non ripeterlo.

Le municipalizzate sono dei mostriciattoli. Le municipalizzate quotate sono dei mostri. Per venderle, com’è saggio fare, o ne quoti la contendibilità, quindi non tieni la mano pubblica in maggioranza e al comando, oppure fai entrare soggetti finanziari in grado di valorizzare e vendere. Era il caso di F2I, che non andava sfidato a svalutare la propria quota, ma, semmai, a prendere il resto alla medesima valorizzazione. Non lo hanno fatto solo perché volevano continuare a comandare, ma con i soldi degli altri. Non poteva che finire male.

La politica di dismissioni deve accompagnarsi a quella di valorizzazione e liberalizzazione, altrimenti è una truffa: vuoi per il cittadino, vuoi per il risparmiatore, vuoi per entrambe. Nel caso degli aeroporti, inoltre, vendere va di pari passo con il preparare un serio piano nazionale degli scali, altrimenti si prendono musate come questa e come quella incassata dal comune di Torino, che volendo vendere partecipazioni Sagat (società che gestisce Caselle) non trova compratori. Il mercato, quello vero, ambisce a far profitti, non a diventare socio del sindaco.

Serve una politica nazionale delle dismissioni, servono scelte che rendano libero e prezioso quel che si vende e serve che i vari pezzi della troppo vasta e onnipresente mano pubblica non giochino a fregarsi a vicenda. Senza ciò si può solo svendere e impoverirsi, subordinando l’interesse collettivo a piccole convenienze. La lezione è chiarissima. Speriamo gli scolari non siano troppo testoni.

giovedì 15 novembre 2012

Botte di orbi. Davide Giacalone

Lo hanno chiamato “sciopero europeo”, ma non è vero. Gli scioperi ci sono stati nell’Europa che affoga, non in quella che galleggia o nuota. Ci sono stati dove i morsi della crisi hanno già strappato le carni, come in Grecia, Italia, Portogallo e Spagna. Nelle lande della transnazionalità recessiva. Altrove qualche manifestazione o raduno. Se fosse stato “europeo” sarebbe stato un buon segno, tutto sommato, perché, che si condividano o meno gli slogan della protesta, avrebbe messo in luce un comune sentire e la necessità di un comune interlocutore. Invece le proteste si sono concentrate sulle conseguenze della crisi, indirizzandosi contro i governi nazionali che ne sono i gestori contabili. Con l’assurdo che si sono paralizzate le città epicentro della recessione, così amplificandone le dimensioni.


Protestare e scioperare è lecito, in democrazia, ci mancherebbe altro. Spero sia lecito anche segnalare la confusione mentale e culturale della protesta. Da una parte non si vogliono i tagli alla spesa pubblica, dall’altra si assaltano le banche che non prestano i soldi e strozzano i clienti. Ma per finanziare la spesa pubblica le banche hanno ricevuto soldi dalla Banca centrale europea, con cui comprare titoli del debito statale. Nel momento in cui scarseggia, o diventa troppo caro, il credito internazionale i soldi o li metti a finanziare la spesa pubblica o li metti nel circolo della vita civile, per imprese e famiglie. E siccome la spesa pubblica è largamente improduttiva, siccome i tagli a quella hanno effetti recessivi inferiori all’aumento della pressione fiscale, le proteste europee dovrebbero chiedere il contrario di quel che urlano: basta con la spesa pubblica, basta con le tasse troppo alte. Se i portatori d’interesse non conoscono i propri interessi diventano interpreti d’astratti furori. Che non portano a nulla, o portano a credere che si è tanto più convincenti quanti più cordoni di polizia si forzano. Così finisce male.

Meglio dirlo subito: ogni violenza deve essere punita. Nulla può giustificare lo scendere in piazza come se si andasse in guerra.

In Italia i protagonisti della protesta sono stati gli studenti. Hanno di che protestare, eccome. Ma non ho sentito chiedere una scuola più selettiva e meritocratica, nonché più vicina al mondo produttivo. Non ho sentito reclamare università capaci di osmosi con le imprese. Ho sentito la solita gnagnera de: la scuola pubblica non si tocca e no ai tagli. E’ grazie a questo genere di idee che ci troviamo con i peggiori risultati comparati, in quanto a preparazione degli studenti. E’ grazie a quel genere di diplomificio fine a sé stesso che il numero dei laureati è ridicolo. Mica scappano perché è difficile, se ne vanno perché è inutile.

Gli studenti dovrebbero chiedere tagli alla spesa pubblica corrente e cancellazione della scuola ottocentesca, fatta di libroni, quaderni, gesso e lavagne. Dovrebbero far vedere che il cellulare, e spessissimo lo smartphone, lo hanno in tasca, sicché si potrebbe utilizzarlo non solo per la socialità, ma anche per la didattica e l’interazione amministrativa. Da anni i governi rinviano la scuola digitale, cedendo alla lobby degli stampatori. Non m’è giunta notizia di proteste.

In uno striscione, retto da giovanissimi, ho letto che le ore d’insegnamento non devono essere più di 18, con evidente riferimento al (fallito) tentativo governativo di portarle a 24. Ma il loro interesse non è mica quello di avere la classe docente più affollata della media europea, salvo essere la meno pagata al mese e la più pagata a ore. Il loro interesse, semmai, è che la meritocrazia si faccia valere anche fra le cattedre, che i bravi professori siano premiati e che i tanti somari, specie all’Università, siano cacciati. Sono proprio quei lavativi cattedratici, quegli ignoranti che insegnano a gioire della difesa a spada tratta del modello pubblico, così passeranno direttamente dall’esamificio alla pensione. A spese di quelli che oggi protestano e domani reclameranno ancora spesa pubblica, per pagare la pensione degli altri.

Certo che servono una coscienza e una protesta europee. Come serve un’autorità, democratica, europea. Ma quelli visti ieri sono i brontolii di un corpo messo a troppo ridotta dieta, non assistiti dall’intelligenza che avverta il veleno dell’ingrasso precedente. Se non ci fosse l’Unione europea ciascun Paese conterebbe meno, e se non ci fosse l’euro si potrebbe sì svalutare, ma rodendo con l’inflazione i redditi familiari che mantengono i manifestanti. Non serve a nulla neanche avere ragione, se non si conoscono le proprie ragioni e si marcia difendendo i torti.

martedì 30 ottobre 2012

Un popolo odiato. Ida Magli

Sembrerebbe incredibile che si possa odiare la propria terra, la propria patria, i propri concittadini, addirittura lo Stato del quale si è il Presidente, al punto da auspicarne al più presto la consegna agli stranieri, la perdita della sovranità e dell’indipendenza. Eppure agli Italiani è successo anche questo nella loro terribile, lunghissima storia di odi e di tradimenti da parte dei loro governanti, re, imperatori, papi, parlamentari di ogni tendenza e di ogni partito. Quello che è nuovo nella situazione attuale è che i detentori del potere sembrano odiare anche se stessi, uccidono anche se stessi nel momento in cui odiano e uccidono gli italiani. Il quadro politico, infatti, dice chiaramente soltanto questo: se tutti si affaccendano per prepararsi alle prossime elezioni significa che non si rendono conto di aver ridotto a grottesca finzione il parlamento approvando in massa i dittatoriali decretoni dei “tecnici”.

È successo ancora ieri e non si può non rimanere stupiti di fronte alla perseveranza con la quale il Pdl si condanna a morte. Una cosa è certa: ogni volta che vota per il governo Monti, il centrodestra perde il diritto a esistere (per non parlare dell’odio che suscita nei suoi elettori). È in ballo infatti la sopravvivenza dell’Italia come stato, la sua sovranità come “nazione”, una sovranità che con Maastricht e con l’euro, con la Merkel e con la Bce, l’Europa ha già quasi del tutto eliminato. Dato che i temi della patria, della libertà, dell’identità, della memoria storica, della religione, della famiglia, sono (o forse bisogna dire “erano” ) precipui delle destre, è evidente che è questo il motivo fondamentale per cui il Pdl appare ormai sotto shock, in fase di disintegrazione. Si sente ripetere da ogni parte che bisogna trovare volti nuovi, gente giovane e capace di entusiasmo, ma è inutile sottolineare il fatto che si riuscirà a trovare soltanto persone ancora più affamate di potere e di benefici di quelle vecchie e più abili nell’afferrarli. Il parlamento è oggi il luogo dove chi è privo di rispetto per se stesso e per qualsiasi valore, svolge la funzione di servire i banchieri e i loro superiori incogniti.

La sinistra appare meno disastrata della destra semplicemente perché la marcia verso l’internazionalismo, verso il primato economico-finanziario nella gestione del potere, verso l’annullamento dello stato nella solidarietà con in popoli di tutto il mondo è, fino dalle origini, la sua meta ideale. Da lì scaturisce l’eccesso di baldanza e al tempo stesso le esitazioni che in questo momento esibiscono i partiti dato che probabilmente non si erano accorti di aver completato il percorso nel momento in cui, con gesto concreto ma anche altamente simbolico, è stato un presidente della repubblica comunista, chiamando l’Europa, a sventolare la bandiera del traguardo vittorioso. La sinistra è giunta impreparata, infatti, davanti a una situazione di cui le era sfuggito il significato anche se l’ha sempre desiderata e ha lavorato incessantemente per realizzarla: un’Europa marxista, dominata dall’economia, molto simile alla Russia bolscevica. Passetto dopo passetto l’arma della “uguaglianza” ha eliminato tutte le differenze, e dunque tutti i ruoli: Genitore 1, Genitore 2… Niente più padre, niente più madre, niente più famiglia, niente più religione, niente più proprietà, niente più patria, niente più nazione, niente più italianità, fino a: niente più libertà. Il sistema è soltanto più sofisticato: il controllo di tutti i movimenti nei conti correnti attraverso la denuncia delle banche sostituisce la presenza in ogni gruppo delle spie staliniane e rappresenta una forma surrettizia dei “passaporti interni” in vigore nell’Unione Sovietica. La sinistra comincia però a sentire anche molto sapore d’amaro nelle sue vittorie e si accorge all’improvviso che perfino il prediletto “gioco” della democrazia, nel quale si è esercitata ininterrottamente lungo il trascorrere degli anni, adesso non serve più. Il traguardo era, anche in Europa, il governo dei “tecnici”. Si erano dati questo nome, infatti, Lenin e i suoi compagni rivoluzionari assumendo il potere al posto dei politici. I partiti se ne convincano: hanno perso tutti. (Italiani Liberi)

lunedì 29 ottobre 2012

Potere politicosindacale. Davide Giacalone

Raffaele Bonanni non è un’eccezione, ma l’ennesimo leader sindacale che programma per sé un futuro politico. Non c’è niente di male, quel che ci si deve chiedere è come mai sono stati tutti dei fallimenti. Nella risposta si trova molto che riguarda sia la politica che il sindacato.

Al momento Bonanni s’è limitato a firmare un appello, assieme a Luca Cordero di Montezemolo, invocando la nascita di un centro moderato e ragionevole, capace di raccogliere il testimone elettorale di un centro destra che ha perso la sua guida. Non si parla di candidature, al momento, anche in omaggio al nuovo costume, secondo cui presentarsi alle elezioni è quasi uno scendere di condizione sociale e politica, laddove l’essere direttamente chiamati, o sentirsi irresistibilmente vocati, alla salvezza Patria è ritenuto di più consono livello. Un tempo si pensava l’esatto contrario, essendo più fresco il valore e la conquista della democrazia. A parte ciò, c’è un dettaglio che non vedo emergere, da tanti commenti: si crede davvero che il richiamo ai valori cattolici (?!) e il posizionamento centrista siano sufficienti a celare o trasformare il fatto che se si trovano accanto, in un comune afflato, l’ex presidente di Confindustria e l’attuale segretario di Cisl è segno che o il documento è troppo generico o il suo reale contenuto consiste nella continuità concertativa? Detto in modo più diretto: se è il riflesso delle politiche sindacali degli ultimi lustri non solo non si vede né novità né modernità, ma si sente il soffocante peso di contrattazioni a carico del contribuente. Una ricetta a me sempre dispiaciuta, ma oggi resa impossibile dalla spremitura definitiva del citato pagatore di tasse.

C’è una ragione per cui i capi sindacali sono costantemente indotti a trasferirsi in politica. Si vabbe’, lo so cosa alcuni di voi stanno pensando: tutto, pur di non andare a lavorare. Ci sto, è anche così, ma si può vedere la cosa in modo più raffinato: il sindacato è una macchina di potere, capace di mobilitare soldi e interessi, avvinghiata alla struttura pubblica. Chi la amministra, ogni volta che il mandato volge al termine, suppone di potere capitalizzare tanto potere facendone un centro politicamente aggregante. Invece capita che aggreghino poco e finiscano in un angolo buio, campando di rendita in qualche più grossa e diversa struttura politica. Perché succede? Trovo una sola risposta: perché il sindacato è veramente un grande centro di potere, ma che gli deriva dal posizionamento all’interno di un’economia non libera e largamente assistita, nonché concertativa. Quel potere non è il frutto del consenso e dell’adesione dei lavoratori. Quando leader sindacali potentissimi, come D’Antoni o Pezzotta, fanno flop e raccolgono pochi voti non c’è da stupirsi troppo, perché anche quando erano in cima al sindacato raccoglievano pochi iscritti. Ma non si vedeva, perché tutto era coperto dalla grande esposizione mediatica e dall’imponente intermediazione d’interessi.

Posto che il sindacato è una componente essenziale del mercato, è il caso di accorgersi che da noi raccoglie pochi consensi perché non è parte di quello economico, ma di quello politico. Sicché, dopo tutto, certi leader non traslocano dal sindacato alla politica, ma provano disperatamente a restare lì dove si trovano. Solo che, perso il paravento e il potere, le loro debolezze appaiono allo scoperto. Magari accanto all’ex capo della controparte, Confindustria. Non è un loro problema personale, è il nostro problema collettivo di aver dato troppo peso all’economia assistita e di avere negato la rappresentanza a lavoratori e imprenditori che vivono esposti ai rigori del mercato. Gente che, giustamente, non intende certo seguire certe avventure, cui si sentì, si sente e si sentirà estranea.

giovedì 25 ottobre 2012

Prof. Scafetta, Duke University: le variazioni del clima collegate ai movimenti del sistema solare. Corrado Fronte

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Secondo il blocco scientifico e politico dominante, che fa capo all’IPCC, la scienza del clima sarebbe ormai definita (science is settled) sulla base dei modelli sviluppati al computer che attribuiscono alla CO2 prodotta dall’uomo quasi tutto il riscaldamento globale osservato dal 1970. Ma secondo il prof. Nicola Scafetta in realtà nessuno lo pensa veramente. Le proiezioni avvalorate dall’IPCC predicono un riscaldamento catastrofico nel 21° secolo, a meno che non vengano prese misure drastiche per la riduzione delle emissioni dei gas serra. Ma questi modelli, chiamati General Circulation Climate Models (GCM) secondo il prof. Scafetta sono inattendibili in quanto non rispondono ad un requisito fondamentale: non riescono a rappresentare le variazioni della temperatura terrestre del passato. Quale valore possono allora avere le proiezioni future? Scafetta ha sviluppato un modello empirico in cui si assume che il clima è sincronizzato al movimento del sistema planetario solare, e per la maggior parte a Giove e Saturno. Questo modello dà risultati in linea con le temperature realmente misurate ed è quindi più attendibile dei modelli usati dall’IPCC (1)
Scafetta prende in considerazione il periodo dal 1850, perché da qui sono disponibili misurazioni termometriche di una certa affidabilità, e osserva che l’andamento reale si discosta significativamente da quello ottenuto con i modelli GCM. Consideriamo il grafico seguente, che riporta l’andamento delle temperature misurate sovrapposto a quello ottenuto da uno dei modelli GCM (GISS ModelE, svilupato dal Goddard Institue fo Space Sdudies della NASA).

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Si vede anche ad occhio che il tracciato delle temperature misurate presenta a distanza di circa 60 anni tre “gobbe”, nel 1880, 1940 e 2000, in una tendenza di fondo comunque ascendente. Queste gobbe, in particolare quella del 1940, non sono rappresentate dal modello GCM, e quindi esso non rappresenta un fattore di periodicità di circa 60 anni che è invece presente in natura. Questa carenza è presente in tutti i modelli GCM sviluppati. Dice Scafetta: Ho studiato tutti i modelli di simulazione riguardanti il 20° secolo raccolti dal Programma per la Diagnosi Comparativa dei Modelli Climatici (Program for Climate Model Diagnosisi and Intercomparison – PCMDI) , disponibile come allegato all’articolo). Ebbene, si può agevolmente riscontrare che la capacità di questi modelli di riprodurre il clima riscontrato è veramente scarsa.
In realtà la discrepanza non era passata inosservata. Il prof. Franco Battaglia da tempo mette in evidenza la contraddizione: le temperature reali sono diminuite nel periodo 1940 al 1975, quando in realtà c’è stato un boom della attività industriale e le emissioni antropiche di CO2 sono salite di conseguenza(2). Anche la temperatura del mare fu oggetto di contestazioni, al punto che importanti istituti coinvolti nella elaborazione dei modelli, la CRU britannica e la NOAA americana, decisero di apportare un fattore di correzione per spianare la gobba imbarazzante del 1940. A tale proposito si veda un mio precedente articolo (3). Ebbene, usando analisi di regressione e compensando per il trend di aumento del valore medio il prof. Scafetta ottiene questo grafico sorprendente:
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E’ subito evidente una periodicità di circa 60 anni, ma utilizzando tecniche di analisi più sofisticate si possono evidenziare almeno altri 3 cicli periodici di circa 9, 10 E 20 anni. Ebbene, questi cicli sono correlabili ai movimenti dei pianeti del sistema solare, i quali si trovano periodicamente in allineamento o in opposizione tra di loro e rispetto al sole. Gli attori più importanti sono Giove e Saturno. Il prof. Scafetta fa notare che oltre a questi cicli, che sono stati oggetto di questo suo studio, ce ne sono altri di periodo più lungo, pluri-centennale o pluri-millenario, i quali però per essere studiati necessitano di dati cosiddetti “proxy”. Cioè, non essendo ovviamente disponibili dati termometrici, ci si basa su osservazioni di tipo geologico e biologico collegabili alla temperatura. Questi dati peraltro presentano un certo grado di incertezza. A titolo di esempio Scafetta riporta un grafico apparso in uno studio di Hole Humlum, del Department of Geosciences, University of Oslo, Norvegia (4)

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Lo studio di Scafetta sviluppa la rappresentazione geometrica dei fenomeni, limitandosi a citare altri ricercatori che indagano sulle cause naturali, di natura fisica e astronomica, che potrebbero originarli. Ad esempio Abibullo Abdussamatof ha identificato oscillazioni bicentennali dell’ Irraggiamento Solare Totale (5); Jasper Kirkeby e Henrik Svensmark attribuiscono ai cicli solari una azione di schermo nei confronti dei raggi cosmici, i quali sarebbero responsabili della formazione delle nuvole (6); Nir Shaviv e Jean Veizer, sostengono che il sistema solare attraverserebbe zone dello spazio in cui l’intensità dei raggi cosmici varia (spiral arms della Via Lattea) e questo porterebbe a variazioni climatiche su ampia scala correlabili alle ere glaciali (7)
Un'altra importante osservazione del prof Scafetta riguarda l’influenza delle eruzioni vulcaniche. Si ritiene che queste, immettendo nell’atmosfera una grande quantità di aerosols, limitino l’irradiazione solare con conseguente raffreddamento della terra. Nel periodo esaminato ce ne sono state 3. L’ultima grande eruzione, quella del Pignatubo del 1991, avrebbe protratto i suoi effetti fino ad oggi, assorbendo alcuni decimi di grado che l’attività antropica avrebbe nel frattempo generato. Ma secondo Scafetta nei grafici delle temperature reali queste importanti deviazioni non si riscontrano, e questo, indica che gli effetti raffreddanti delle eruzioni vulcaniche sono stati esagerati nei modelli GCM. Inoltre le misure di temperatura potrebbero essere influenzate dall’ampliarsi delle isole di calore urbano.
Scafetta allora ricostruisce il grafico IPCC mantenendo le assunzioni riguardanti le emissioni antropiche, ma introducendo le oscillazioni decennali e sessantennali, e correggendo l’effetto attribuito erroneamente alle eruzioni vulcaniche.

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In pratica attorno al 2000 si sarebbe raggiunto il massimo sessantennale, e da quel momento in poi le temperature non sarebbero più aumentate. Quindi la tendenza all’aumento della temperatura riscontrato nel periodo 1970-2000 non si ripeterebbe nel trentennio successivo, ma riprenderebbe eventualmente attorno al 2030 per raggiungere un nuovo massimo nel 2060 e poi rallentare nuovamente. Al netto l’aumento di temperatura nei prossimi 100 anni si ridurrebbe a 0,3-1,2 °C; sarebbe quindi di gran lunga inferiore alle proiezioni dei GCM, tanto da non essere più preoccupante; il livello del mare, ad esempio, salirebbe di solo 5 pollici, un terzo di quanto proiettato dall’IPCC. Non è quindi giustificato il gigantesco sforzo che viene richiesto all’economia mondiale per ridurre le emissioni di CO2. E questo senza tenere conto dei cicli pluricentennali, che sovrapponendosi a quanto descritto poterebbero portare, secondo alcuni studiosi, addirittura ad un drastico raffreddamento, una nuova era glaciale.
Contrariati dal mancato riscaldamento negli ultimi 10 anni, i cervelloni dell’IPCC cercano soluzioni al problema quali un effetto sottostimato delle piccole eruzioni vulcaniche, una ipotetica emissione di aerosol da parte della Cina, un imprevisto “red noise” decennale dovuto alla fluttuazione del contenuto calorico degli oceani. Ma tutto questo, commenta Scafetta dimostrerebbe solo che il modelli GCM possono essere convalidati solo a posteriori e non darebbero alcuna garanzia di avere capacità predittiva.
Con tutte queste incertezze e contraddizioni, e con gli spunti nuovi della ricerca libera, quanto ancora potrà resistere il dogma “science is settled” ? Ci auguriamo che crolli al più presto, e con esso finiscano anche le speculazioni miliardarie che si alimentano sul teorema del riscaldamento globale antropogenico.
Il professor Nicola Scafetta, uno scienziato di 40 anni originario di Gaeta. Nel 1998, dopo essersi laureato in fisica a Pisa, è andato a continuare i suoi studi negli US dove ha conseguito il PhD. Si è poi trasferito nel ruolo di ricercatore ed insegnante al Free-electron laser laboratory della Duke University, uno dei più prestigiosi atenei degli Stati Uniti, fondato nel 1838 a Durham, nella Carolina del Nord. Scafetta è membro dell'Acrim (Active cavity radiometer irradiance monitor), centro mondiale di studio dell'irradianza solare associato alla Nasa (8).
(il Legno storto)

Nodo Finmeccanica. Davide Giacalone



Finmeccanica è uno dei gioielli della Repubblica. Si occupa di prodotti ad alto contenuto tecnologico che, per loro natura, anche con riferimento al settore militare, richiedono un procedere armonico con l’indirizzo e il sostegno politico del governo. Oltre tutto il governo ne è il proprietario di fatto, detenendone il 30% delle azioni. E, infine, ci sono diversi competitori internazionali che brinderebbero nel vederla crollare, né si risparmiano sforzi in tal senso. Queste sono le premesse da cui partire, sia per capire meglio quel che è successo, sia per valutare le responsabilità politiche (quelle penali si esaminano altrove, vale a dire nei tribunali e non nelle procure), sia per stabilire quel che dovrebbe succedere. Subito, oggi stesso.

In Brasile, tanto per restare ad un caso concreto, che riemerge in sede penale, c’era la possibilità di aggiudicarsi una commessa assai importante, relativa a fregate militari. Non ora, non con il senno di poi, ma allora, per primi e da soli scrivemmo che i francesi avevano giocato sporco: prima si erano tenuti Cesare Battisti, sostenendo che quell’assassino non doveva essere consegnato alla giustizia italiana, che lo aveva condannato, con ciò stesso mollandoci uno schiaffone che nessun governo avrebbe dovuto tollerare; poi, quando la loro stessa magistratura stava per rispedircelo, il Battisti scomparve, per riapparire in Brasile; qui la cosa fu gestita, dalle nostre autorità, come peggio non si poteva, abboccando ad uno scontro che si sarebbe dovuto fare con i francesi, non con i brasiliani. La mia è solo un’ipotesi, ma nessuno mi toglie dalla testa che i francesi lo fecero apposta. E’ un’ipotesi anche la seconda, ma ho l’impressione che i brasiliani se lo presero (e ancora se lo tengono) per facilitare l’affare fregate con i francesi. Noi ci perdemmo, sia in dignità politica, che in credibilità della nostra giustizia (già scarsa), che in quattrini.

In quel contesto non solo non avrei trovato sconveniente un passo ufficiale del governo italiano, tendente ad appoggiare l’offerta di Finmeccanica, ma mi pare sconveniente il contrario. Se qualche nostro ministro è intervenuto, ha fatto bene. Naturali sono due cose, tanto per non girarci attorno: a. nei contatti fra governi non si parla di tangenti; b. nei lavori di quel tipo si pagano intermediazioni che generano liquidità a disposizione dell’acquirente, che ne fa quel che crede. Il venditore, in questo caso la parte italiana, fa firmare un bel contratto in cui si ribadisce che il mediatore non deve corrompere nessuno, dopo di che si disinteressa e lascia che la faccenda rientri nella competenza delle autorità del Paese acquirente. Cavoli brasiliani. Aggiungo un dettaglio, rilevantissimo: se un qualche esponente della parte italiana, facente capo all’azienda o, peggio ancora, facente capo al governo o suo componente, approfitta della situazione per chiedere soldi per sé, o per suoi amici, o per chi diavolo gli salta in mente, si tratta non solo di un criminale, ma anche di un miserabile traditore degli interessi nazionali.

A questo si aggiunga che in Brasile, nella squallida vicenda di Telecom Italia, a due mandate successive, s’è assistito ad un indaffararsi degli italiani per derubare una società italiana, utilizzando sponde brasiliane. Questo (qui dettagliatamente, a suo tempo, raccontato, anche con due libri), assieme all’incapacità nazionale di far giustizia, già ci espone ad una fama triste. Che pesa sulle spalle di tantissimi nostri connazionali, ancora capaci di fare affari seri. Se ora si accertasse roba del tipo cui ho accennato, per la qual cosa serve un processo, i responsabili meriterebbero il massimo della pena. Da scontare in carcere.

Non serve un processo, invece, perché il governo prenda una decisione. Che spetta al presidente del Consiglio, Mario Monti. Faccende come questa, comunque si risolvano le inchieste, dimostrano, ove ve ne sia bisogno, l’intrecciarsi fra la diplomazia economica e quella politica. Che devono andare all’unisono. Siccome il mondo è pieno di trappole, come di opportunità, e di malfattori, come di operatori capaci, è necessario ci sia un rapporto di fiducia fra il governo-azionista e l’azienda, nella figura del suo amministratore. Non a caso dotato di poteri assai vasti. Così non è, oggi.

Sappiamo che Giuseppe Orsi ha avuto modo di dire che Finmeccanica elargì denari al ministro dell’economia, Vittorio Grilli, mediante consulenze fasulle, assegnate alla sua ex moglie. Grilli, che siede nel dicastero intestatario delle azioni Finmeccanica, nega. Se ha ragione lui (come spero) è evidente che Orsi ha tentato di ricattarlo, oppure è uno che apre la bocca e parla a vanvera. Se ha ragione Orsi, invece, è chiaro che il ministro non è nelle condizioni di esercitare il suo ruolo. Qui non si tratta di aspettare alcun esito di alcuna vicenda giudiziaria, perché è irrilevante ai fini dell’interesse nazionale. Qui si tratta di mettere l’uno o l’altro, subito, fuori dal posto in cui si trova. Tocca a Monti.

mercoledì 17 ottobre 2012

L'economia che ci salverà

Scritto da Gianni Pardo
   

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Dietro la crisi mondiale dell’economia c’è un problema di "modello". Cioè dei suoi principi generali. Nel modello socialista alla base di tutto c’è l’idea che lo Stato possa guidare l’economia meglio e con migliori risultati di quanto possano fare i privati, soprattutto per quanto riguarda la giustizia sociale. Nel modello liberista c’è l’idea che la cosa migliore che si possa fare, per l’economia, è lasciarla operare senza intralci: al resto penserà la "mano invisibile" degli interessi contrapposti di cui parlava Adam Smith. I migliori esempi dei risultati delle due concezioni si osservano nell’Unione Sovietica e nella Cina degli ultimi anni.
 
Stranamente, in ambedue i casi si tratta di Paesi comunisti. La stranezza tuttavia viene meno se si pensa che, per imporre un marxismo "puro", o un liberismo "puro", bisogna sbarazzarsi dell’incomodo della volontà popolare. Infatti il socialismo reale ha reso i russi più miserabili che sotto gli zar, e se i cinesi sono stati resi "benestanti" come non erano mai stati in passato, ciò è stato fatto senza chiedere il loro parere. Senza concedergli il diritto di sciopero e senza preoccupazioni di giustizia sociale.
 
La storia economica dell’Occidente ha invece visto un lento smottamento dal liberismo, come lo si intendeva agli inizi della rivoluzione industriale, ad una concezione "compassionevole ed egalitaria" (cioè socialista) dell’economia. Questa versione morbida dello statalismo marxista ha influenzato tutte le società sviluppate e l’ha fatto per via democratica, tant’è vero che nei Paesi avanzati i suoi adepti si sono chiamati "socialdemocratici". Ciò non è avvenuto nell’Italia di cultura comunista dove si mirava alla rivoluzione proletaria e per lunghi decenni "socialdemocratico" è stato sinonimo di "traditore".
 
Nel Novecento i modelli imperanti sono dunque stati due: il marxismo, di cui era incarnazione l’Unione Sovietica, e la socialdemocrazia, di cui erano esponenti tutti i grandi Paesi dell’Occidente. Il liberismo più o meno puro è stato considerato "selvaggio" ed è stato visto come un’inammissibile aberrazione. L’imbrigliamento "socialista" delle regole del mercato è stato per tutti un obbligo e – più o meno inconsciamente – una sotterranea marcia verso il comunismo. La retorica di sinistra infatti ha sempre parlato di "conquiste", come se, ottenendo una nuova nazionalizzazione, una nuova norma "a favore dei lavoratori", si facesse un passo avanti nel territorio del nemico: l’economia classica. Finché un giorno il nemico si sarebbe arreso.
 
Alla lunga il procedimento ha mostrato la corda. Da un lato, il modello marxista è imploso insieme con l’Unione Sovietica, dall’altro, a forza di "conquiste", si è eccessivamente eroso il margine di produttività. Quelli che producevano si sono progressivamente ridotti di numero mentre sono sempre aumentati quelli che beneficiavano delle spese dell’erario. Si parlava di "giustizia sociale" e si dimenticava che "ogni volta che qualcuno ottiene un’utilità che non ha prodotto, c’è qualcun altro che non ottiene un’utilità che ha prodotto".
 
Il risultato è che l’Occidente è stato sconfitto dai Paesi emergenti ed è affondato fino al collo nella crisi attuale. La situazione non sarebbe drammatica se almeno si identificassero i nostri errori: invece la tendenza all’ideologia non è venuta meno. È vero che nessuna persona ragionevole parla più del modello marxista (perché tutti ne hanno visto le conseguenze) ma del modello socialdemocratico si è fatto un principio religioso, e si sono paralizzati i cervelli. Nessuno intravede un terzo modello e siamo in un vicolo cieco.
 
Ciò che avviene da noi è il migliore esempio di questa impasse intellettuale. A forza di socialismo compassionevole, l’Italia è arrivata ad una crisi drammatica e il suo governo, anche su suggerimento dei soloni di Bruxelles, ha risposto ad essa nel modo più controindicato: non ha diminuito la pressione fiscale sui ceti produttivi, l’ha addirittura incrementata. L’inevitabile risultato è stato una recessione senza ritorno. Si è curata una grave crisi di glicemia con fette di cassata siciliana. O meglio, si è curato un avvelenamento con massicce dosi di arsenico.
 
Eppure né i governanti italiani né i dirigenti dell’Unione Europea sono degli imbecilli. Il loro comportamento deve dunque spiegarsi con l’incapacità intellettuale di concepire la possibilità che il modello socialdemocratico contenga degli errori. Tanto che, nel momento della difficoltà, invece di correggerne i difetti, li hanno accentuati.
 
Se questa conclusione è esatta, l’Europa non ha speranza. O solo quella di un disastro tale che perfino i medici più ottusi si chiedano se la cura non peggiori la malattia. Fino ad allora, rimarrà una bestemmia l’idea che si debba certamente realizzare qualche "conquista", ma nella direzione opposta a quella dei socialisti. (il Legno Storto)

martedì 16 ottobre 2012

ArchivioAndrea's Version

16 ottobre 2012

E’ stato il primo segretario del Pd. E il primo a diventare primo con le primarie. Era stato il primo kennediano che, per sentirsi più stretto al primo dei Kennedy, s’era iscritto al partito di Kruscev. Il primo comunista a sua insaputa. Il primo che stava con Cuba, ma parteggiava per i nemici di Cuba. E il primo segretario collezionista dichiarato delle figurine Panini. E la prima Liala del Pci Pds Ds Pd. Fu il primo che, tenendosi abitualmente a Venezia il Festival del cinema di Venezia, lo fece a Roma. Il primo a dire che sarebbe andato in Africa, mandandoci in avanscoperta la Melandri. E adesso il primo capace di portare al diapason la nota standard di Nanni Moretti: mi si nota di più se ci sono o se non ci sono? Di più se non c’è. Ma per primo. Buona mossa. Se è vero che i doveri di un uomo si moltiplicano via via che aumenta la sua conoscenza, l’impressione è che Veltroni abbia maturato parecchi diritti.

lunedì 15 ottobre 2012

Protestino per il contrario. Davide Giacalone

Non ha senso che gli studenti protestino contro i tagli alla spesa pubblica, dovrebbero protestare contro la strutturazione di tutta intera quella spesa. A sentire certi slogan e a leggere certi resoconti ci si rende conto che il vecchio e il nuovo non hanno confini necessariamente anagrafici. Alcuni di questi giovani sembrano non aspirare ad altro che ad avere la vita dei loro genitori e dei loro nonni. A loro andrebbe detta una parola sincera: non è possibile. E neanche bello. Supporre che la difesa dei loro interessi coincida con quella dei loro docenti, all’interno di una scuola i cui risultati sfigurano rispetto ai sistemi istruttivi nostri diretti concorrenti, non è una semplice bischerata: è una truffa.

L’interesse degli studenti dovrebbe essere quello di far prevalere la meritocrazia, prima di tutto fra le cattedre. E’ vero che quando si è ragazzi non si disdegna punto la supplente impreparata, nel corso delle cui ore si può far caciara, ma è anche vero che se non si è ragazzi stupidi ci si rende conto che con quel sistema si diventa polli allevati in batteria, senza eccellenze che non siano dono di natura. Senza altro privilegio che non sia la condizione economica della propria famiglia. Sicché, se ci tengono alla democrazia e all’apertura del nostro sistema formativo, affinché sia trampolino di lancio verso i successi della professione e del mercato, devono chiedere il contrario di quel che reclamano: scuola selettiva e di altro profilo. Altrimenti si fermano gli ascensori sociali che, difatti, sono già inceppati.

In quanto alla spesa, posto che la sua pressoché totalità è destinata ai costi correnti, vale a dire al pagamento degli stipendi e della gestione, si vorrebbe sapere cosa gliene importa agli studenti dei suoi eventuali tagli. Credono di avere meno opportunità, nella vita, se il loro docente è tenuto a insegnare più ore? Semmai dovrebbero mobilitarsi proprio per chiedere la compressione della spesa corrente e il ritorno degli oramai scomparsi investimenti.

In piazza dovrebbero protestare perché i governi (plurale) continuano a ignorare il dettato delle leggi e a imporre l’uso di libri di testo stampati e rilegati, a solo sollazzo e giovamento degli stampatori. E protestando per far nascere la scuola digitale dovrebbero reclamare maggiore libertà per le proprie famiglie, affrancandole da una spesa alta e inutile. La sgradevole impressione, invece, è che il rito della protesta si ripeta uguale a sé stesso, di anno in anno, senza neanche aggiornare ragionamenti e parole d’ordine. Una specie di dannazione, una coazione a ripetere gli errori di sempre, una voglia di conservare quel che, invece, andrebbe cambiato.

In ultimo: è sbagliato protestare contro l’aumento delle tasse universitarie, che restano molto basse, mentre sarebbe saggio protestare sia per l’assenza di borse di studio degne di questo nome, cui i meritevoli svantaggiati possano accedere, sia la mancanza di dati dettagliati sul valore selle singole università, dei singoli corsi e dei singoli professori. Avere tasse basse in cambio di bassa qualità, in un ambiente di falsificata eguaglianza, significa solo propiziare un futuro di alta povertà. Prima culturale e poi economica. O viceversa, a piacere.

sabato 13 ottobre 2012

Incapacità, follia o interesse? Mario Giardini


Perseguendo il nobile fine di contribuire alla riduzione delle emissioni di CO2, nel 2007 il governo italiano (presidente del Consiglio Prodi, inistro dello Sviluppo Economico Bersani, e ministro dell’Ambiente, il mai abbastanza rimpianto, Alfonso Pecoraro Scanio) decisero di dotare il nostro Paese di un adeguata quota di energia elettrica proveniente dalle cosiddette fonti “rinnovabili” (va detto che il governo Berlusconi, e la sig.ra Ministra Prestigiacomo hanno continuato a sostenere il progetto). In particolare, si fece un piano per avere, nel 2020, circa 9,5 GW di potenza forniti dal fotovoltaico. Cioè 9500 MW, equivalente, per intenderci, a 10 centrali a ciclo combinato da 1000 MW, o a sei centrali nucleari di III gen. da 1600 MWe.
Per poter “stimolare” i privati a costruire i parchi fotovoltaici necessari, si definì una tabella di “incentivi”. In pratica, si obbligavano i produttori di energia (fra cui l’Enel) ad acquistare, per legge e a prezzo maggiorato, l’energia proveniente da fotovoltaico. E li si autorizzava a rivalersi, caricando l’onere relativo, sulle bollette di tutte le loro utenze. E cioè quelle domestiche (case, uffici), quelle a media e alta tensione (industrie) e quelle ad altissima tensione (rete di trasporto nazionale).
Gli incentivi sono stati così bene congegnati da aver generato una corsa affannosa al fotovoltaico. A fine 2010 la capacità totale installata di fotovoltaico era di circa 2,9 GW. Questa capacità corrispondeva a circa il 6% della potenza totale installata nel Paese. Il contributo però alla quantità di energia generata, nel 2010, fu pari allo 0,20% (zero virgola venti per cento) del totale consumato (fonte Agenzia Internazionale dell’Energia). Cioè nulla.
Il peggio doveva arrivare nel 2011 e nell’anno corrente. A fine 2011, si stimava che gli impianti costruiti (anche se non allacciati alla rete, cioè non produttivi) assommavano una potenza totale pari a circa 8 GW. I 9,5 sarebbero stati raggiunti quest’anno, con otto anni di anticipo rispetto alle previsioni.
Solo nel 2011, gli incentivi pagati per le rinnovabili sono stati circa 4,6 Miliardi di Euro, e metà circa sono andati al solare. Quest’anno è facile prevedere che saranno ancora di più: le stime variano, in realtà nessuno lo sa. Ci verrà presentato il conto a piè di lista.
Il contributo alla quota totale di energia generata è incerto. Ma fra fotovoltaico, biomasse ed eolico non si supererà il 2 – 2,5% del totale.
Se qualcuno si chiedesse perché continua a salire la bolletta dell’energia, ecco la risposta.
Così, con questa politica dissennata, si è ottenuto di costruire in tre anni quello che si doveva costruire in oltre dieci. Si pagheranno “incentivi” a full power per 8 anni anziché distribuirli nel tempo. E si avrà, nel 2020, un parco fotovoltaico obsoleto.
Chapeu: impossibile far peggio.
Quanto costa questa follia?
Ecco. Di incentivi veri e propri, stiamo parlando di oltre 30 (trenta) miliardi di euro a valori correnti (2012), nel periodo 2011 – 2020. Sessantamila miliardi di vecchie lire. Sessantamila.
Alla fine della fiera chi tira fuori i soldi è sempre il cittadino. O perché paga la bolletta dell’elettricità di casa. O perché paga le tasse (quota di incentivi addebitata all’illuminazione pubblica). O perché compra un prodotto che ha come elemento di costo l’energia elettrica.
Quel che è certo è che dalle sue tasche usciranno molti più di 30 miliardi di euro. Perché anche ammesso che la quota riversata sulle bollette delle utenze domestiche sia sic et simpliciter la stessa pagata come incentivo, tutte le volte che l’energia è un elemento del costo di un prodotto verrà riportato sul prezzo finale dello stesso con un fattore moltiplicativo maggiore di 1. Per inciso: la stima di incentivo, a valori di euro 2012, che verrebbe riportata sulle bollette di casa sarà, nel periodo 2012 – 2020, di circa 8 miliardi di euro.
Si è aiutato l’ambiente? Ma per favore. Abbiamo visto il dato per il 2010: prodotto con il fotovoltaico lo 0,20% dell’energia totale necessaria al Paese. In numeri tondi: 1.740 GWh.
Nella sola Cina, ogni anno, vengono messi in servizio circa 50.000 GW di potenza elettrica con centrali a carbone. Una centrale a carbone da 1000 MW a settimana. Che, in un anno, produce circa 10 000 GWh. Cioè produce cinque volte tanto inquinamento, questa sola centrale, dell’inquinamento salvato dal nostro fotovoltaico. Moltiplicate per cinquanta. Ogni anno. Non solo l’inquinamento, viene dalla Cina, ma anche i pannelli fotovoltaici.
E’ del tutto ovvio che il contributo dell’Italia alla riduzione delle emissioni, su scala globale, pagato a così caro prezzo da nostro Paese, è sconsolatamente irrilevante.
Di impieghi di queste risorse, assai più utili, specialmente adesso, ciascuno di noi può indicarne a centinaia.
Dunque una follia della politica o pura e semplice incapacità? Forse. O forse no.
Chi sono i signori del fotovoltaico in Italia? Bella domanda. Una risposta, parziale, è però già stata data in Calabria: in parte, la ‘ndrangheta. (the Front Page)

Quando l'Italia vendette gli ebrei ai terroristi. Giulio Meotti

                           
Nell'antico ghetto di Roma la memoria è ancora fresca della strage alla sinagoga del 9 ottobre 1982. Un commando palestinese di Abu Nidal lanciò granate e raffiche di mitra sugli ebrei all'uscita dalla sinagoga, il giorno dopo la festa delle capanne. Un bambino di tre anni, Stefano Gay Taché, rimase ucciso. E' stato il primo ebreo assassinato in Italia in quanto tale dal 1945. All'epoca non c'era politico, dal presidente Pertini ai comunisti di Berlinguer, che non flirtasse con Arafat, mentre i giornali all'unisono paragonavano il sionismo al nazismo. Quel giorno il quartiere ebraico venne lasciato misteriosamente senza protezione. L'unico terrorista condannato per l'eccidio, Abdel Al Zomar, oggi è a piede libero a Tripoli. Pochi giorni prima della strage, i sindacalisti di Luciano Lama lasciarono una bara vuota di fronte al tempio ebraico, mentre Pertini aveva esaltato la "resistenza" al fianco di Arafat, che sebbene avesse sulla coscienza qualche centinaio di ebrei uccisi in Israele o all'estero era stato anche appena ricevuto in Vaticano. I socialisti di Bettini Craxi erano soliti paragonare Arafat a Giuseppe Mazzini, mentre la cosiddetta giustizia italiana si sarebbe presto dimostrata molto lesta nel rilasciare i terroristi legati agli attentati (l'ultimo è Youssef al Molqi, l'unico condannato per l'uccisione sull'Achille Lauro dell'ebreo americano Leon Klinghoffer, che sebbene fosse su una sedia a rotelle venne gettato in mare come un cane). Se il 16 ottobre 1943 è il giorno in cui gli italiani tradirono migliaia di connazionali ebrei diretti a Birkenau, il 9 ottobre 1982 deve essere ricordato come il giorno in cui l'Italia ha venduto gli ebrei ai terroristi.
 

venerdì 12 ottobre 2012

Storia politica del Cav.

Tutto su Silvio Berlusconi in venti puntate

Uscito dal campo di battaglia (chissà se sia vero), appartiene già all’autobiografia della Repubblica italiana. Il Foglio si è portato avanti col lavoro, ne è nato un manualetto sine ira ac studio. Nel Foglio di oggi in edicola (disponibile in digitale qui e su iPad) la prima di venti puntate firmate Alessandro Campi e Leonardo Varasano.

Folle anche nella disfatta, candido, non faceva i suoi affari di Giuliano Ferrara
Le motivazioni dell’entrata in politica di Berlusconi nel mio ricordo erano chiare e riconosciute, anche se il nostro testo, che è di andamento storico e non memorialistico, le lascia giustamente in sospeso. A mezzo di interviste, e di cose dette in tv e in riunioni pubbliche, Berlusconi non ha mai nascosto di volersi anche difendere da un assedio che prometteva male per il suo business, il che non significa farsi gli affari propri come pensano i semplificatori per gola e stupidità. Sono stati convocati referendum popolari per chiudere le sue televisioni commerciali negando le interruzioni pubblicitarie durante i film; gli italiani votarono e scelsero Berlusconi contro i suoi nemici ideologici e di business, e le battaglie intorno a Canale5 furono eminentemente politico-parlamentari, a un certo punto si dimisero cinque ministri della sinistra democristiana, insomma il nucleo d’acciaio della lobby integrista spietatamente avversa, e non solo per ragioni di interesse, al grande diseducatore delle coscienze italiane. Non erano affari suoi, era un capitolo della storia nazionale, dell’esperienza estetica, etica ed economica della comunità civile, un pezzo di storia segnato dalla intraprendenza di un geniale outsider a fronte di un pigro establishment esclusivo e blasé.
Ma non basta, per le motivazioni. Quando ci consultavamo nel gruppo dei dubbiosi, con Fedele Confalonieri e Gianni Letta, all’ultimo miglio prima del famoso discorso all’Italia-paese-che-amo, quello che lo conosceva meglio, Fedele, diceva che non c’era più niente da fare, da dire, l’ego del suo amico era ormai ipertrofico, tardi per una marcia indietro. Vero. Un sondaggio lo aveva dato popolare come e più di Gesù Cristo fra i bambini. L’eroe dei Puffi, del Milan che vinceva, l’eroe fatto da sé che sfidava tutto e tutti era un mito innanzi tutto per sé stesso. Berlusconi credeva di avere un’investitura popolare, un’unzione democratica naturale derivante dalla estrema popolarità personale, dalla fiducia che sentiva di poter raccogliere. Si considerava un campione e, snobismi a parte, lo era (anche di coraggio o impudenza). E questo fu un altro motivo o ragione forte per l’avventura politica.
Poi c’era la congiuntura politica in sé. Berlusconi era prudente, cauto, era culturalmente lontano dal linguaggio e dalla tecnica della politica (“lei è il mio maestro”, mi diceva con un sorriso dolce e burlesco, “ma io imparo presto”); però l’idea del comando, del cambiamento riformatore, del nuovo ordine da affermare, del grande casino creativo che non era più nel mercato della tv, chiuso all’estero con l’avventura francese e minacciato in patria dalla possibile vittoria dei suoi avversari storici (ex pci e dc di sinistra), insomma l’avventura che non annoia, questo lo tentava fatalmente e comprensibilmente.
Riceveva in casa i politici smarriti e sotto schiaffo della magistratura in crociata. Arcore diventò una reggia. La Repubblica prese un tratto monarchico. Il linguaggio politico si scartò dal suo involucro di arcaismi cattolici e comunisti e anche socialisti. Berlusconi dava scandalo, stupiva, al partito sostituiva una persona e una squadra. Non mi era chiara la direzione di marcia, ovviamente, e dopo la conquista napoleonica del governo, nel 1994, un pomeriggio approfittai di un momento di sosta, e guardando quei mazzi di fiori molto Fiorella Pierobon che aveva fatto mettere nelle stanze del potere, seduto con lui su un divanetto a Palazzo Chigi, gli domandai: “Ma che vuol fare dell’Italia”. “Una grande Fininvest”, mi rispose.
L’Italia che fece da scenario all’entrata in politica di Berlusconi faceva paura. Giustizia sommaria, codardia della politica, poche idee e riscrittura della storia costituzionale dei partiti a firma di una magistratura codina, di media e patti di sindacato finanziari e industriali assai loschi, tutti soggetti che perseguivano scopi non dichiarati e li travestivano da “questione morale” (niente di nuovo sotto il sole). Berlusconi, con quei denti da pescecane, in realtà era un candido, e si rivelerà nella sua parabola un vincitore e uno sconfitto dolorosamente sublime.
Giuliano Ferrara

giovedì 11 ottobre 2012

Tobin dei poveri. Davide Giacalone

Da ieri il moralismo fiscale ha conquistato una dimensione quasi continentale, con l’adesione di undici Paesi europei alla Tobin tax. Non è un mal comune mezzo gaudio, ma un mal comune doppio danno. Tutto è sbagliato, in quell’idea, a cominciare dal fatto che alcuni europei, e gli italiani fra questi, hanno dovuto chinare il capo innanzi a un diktat, che in tedesco significa “dettato”. I più entusiasti sono i francesi, il cui governo socialista gode all’idea che si tassino le transazioni finanziarie, così colpendo i ricchi. Fra breve si accorgeranno che, ove un simile disegno vada in porto, le transazione disposte a farsi tassare saranno pochine, mentre a pagare saranno i poveri. A spingere sono i tedeschi, che tanto si finanziano gratis, grazie all’euro e agli spread.

Il progetto è quello di tassare allo 0,1% le transazioni relative a azioni e obbligazioni, e allo 0,01 quelle dei derivati. Un piccolo prelievo che, proiettato sull’enormità degli scambi quotidiani, darebbe un grande gettito. Solo che lo proietteranno esclusivamente al cinema, perché quelle transazioni saranno allocate fuori dall’area dell’arroganza fiscale. Se il fantasma di James Tobin si presentasse ai governanti europei il rumore che si sentirebbe non sarebbe quello delle catene trascinate, ma l’ululato di rabbia per il modo in cui è stata distorta la sua idea. Supporre che i proventi di quella tassazione possano servire ad alimentare la spesa pubblica o diminuire i debiti di questo o quello Stato è non solo difforme dall’originale, ma destinata a insuccesso. A dispetto della fregola tassatoria il mondo va dove lo porta il portafogli. La regola è: i soldi soggiornano dove li si tratta meglio.

I mercati finanziari spostano ricchezza per un volume pari a 70 volte il prodotto annuo mondiale. Pensateci: una follia. Nessuno chiede di tornare all’epoca del baratto, scambiando mele contro uova. Ma neanche possiamo restare in un mondo in cui si assume che un chilo di pere vale dieci milioni e un uovo cinque, sicché scambiando un chilo contro due ovi si realizza una transazione da venti milioni. Le cose si sono terribilmente complicate da quando il globo è diventato piccino, il che è successo a partire dal giorno in cui abbiamo smesso di farci la guerra e s’è diffusa la telematica. Due fatti positivi. Bellissimi. Ma che possono essere utilizzati per farci del male.

Muovendo denari per 70 volte il pil mondiale, facendolo da ogni dove e 24 ore al giorno, questa roba ha superato la fantasia della Spectre, accumulando un potere largamente superiore, non imbrigliabile da nessuno stato nazionale. A guidarla, poi, non c’è un Tizio che liscia il micio, ma migliaia di Caio e Sempronio anonimi che se ne stanno dietro i computers, a far da protesi umana del programma che guida acquisti e vendite. Nel 1795 Immanuel Kant scrisse della necessità del governo mondiale per porre fine alle guerre, vivesse oggi proporrebbe la stessa cosa, ma per regolare la finanza.

L’idea di Tobin era tassare le transazioni a breve e in valuta straniera, in modo da stabilizzare i mercati. Solo che è stata fatta nel 1972 e si riferiva al mondo post Bretton Woods, quando Nixon liberò il dollaro dall’essere la valuta stabile, cui gli altri avevano il dovere di riferirsi. Quel mondo lì e il nostro non hanno nulla in comune. Ma, comunque, Tobin pensava, correttamente, a un accordo globale, con proventi da mettere a disposizione della comunità internazionale. Se si tassano le transazioni solo in un’area del mondo si ottiene il risultato di vederle migrare da un’altra parte, in virtù del principio che i soldi vanno dove rendono di più e sono meno tassati. Cameron, che guida il Paese dove si trova la piazza di Londra, ha già detto che non se ne parla nemmeno. Ma ove anche cedesse (e non lo farà) il risultato non sarebbe maggiore gettito, ma più veloce transumanza dei quattrini, alla ricerca di verdi pascoli.

Lo snaturamento di quell’idea viene venduto come se fosse possibile tassare gli speculatori, i profittatori, i porcelli della finanza, secondo un’iconografia cara ai fascisti, ai nazisti e ai comunisti. In realtà si interviene fiscalmente in un momento in cui i tassi d’interesse su alcuni debiti sovrani, come il nostro, sono troppo alti, quindi, alla fine, pagheranno i poveri, che dovranno meglio remunerare gli investitori, anche per averli voluti tassare. All’errore s’unisce la finzione: gli stessi Paesi che oggi aderiscono continuano a farsi concorrenza fiscale fra di loro, e chi non ci credesse vada a vedere quante aziende chiudono da noi e non riaprono in Cina, ma in Austria o in Polonia.

Imbrigliare i mercati finanziari è necessario, ma gli strumenti non possono che essere diversi e globali. Tutto questo per dire, quindi, che i governanti europei sono miopi e piccini, affetti da statolatria fiscocentrica, quindi destinati a prender sganassoni dagli statunitensi, che esportano la loro crisi, e lezioni di mercato dagli asiatici, che importano i nostri soldi. Speriamo il fantasma di Tobin (defunto nel 2002) visiti le loro notti.

venerdì 28 settembre 2012

Note sulla Costituzione - X - Arte e risparmio. Gianni Pardo

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Art. 41, art.42, art.47. Se qualcuno, guardando fuori dalla finestra, dice: “Non piove!” non significa soltanto che non sta cadendo acqua dal cielo; significa che quel signore si aspettava che piovesse. Oppure che prevedeva continuasse a piovere. Anche le semplici constatazioni sono rivelatrici.
Quando per esempio, nell’art.33, leggiamo che L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento” non possiamo evitare di ripensare al realismo socialista e a Lysenko. Ci accorgiamo di averla scampata bella e ringraziamo la Costituzione che ha voluto essere tanto buona da lasciarci questa libertà.
Nello stesso modo, quando all’art.41 leggiamo che “L'iniziativa economica privata è libera”, dobbiamo essere lieti che la Costituzione abbia rinunciato ad imporci il capitalismo di Stato ed abbia spinto lo scrupolo fino a sentire il dovere di chiarircelo.
In realtà, un Paese liberale codifica solo i divieti, non i permessi. Sulla carta dell’Oceano Pacifico si scrivono solo i nomi delle isole, non si scrive dappertutto, parallelo per parallelo, “oceano, oceano, oceano, oceano...”. Analogamente, scrivendo così spesso in Costituzione le parole “libero” e “libertà”, si contraddice uno dei principi fondamentali dello Stato liberale.
Come se non bastasse, l’articolo 41 prosegue: “[L’iniziativa economica] Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Lasciamo da parte queste ultime tre cose, cui provvedono i codici, e chiediamoci: qual è l’utilità sociale della filatelia, della pornografia o del culturismo? E se essi non sono socialmente utili, solo per questo bisognerebbe vietarli? In realtà nello Stato liberale ognuno ha il diritto di intraprendere qualunque attività che non sia in contrasto con la legge e corrisponde soltanto agli interessi di produttori e consumatori.
Per fortuna questo articolo tra il sovietico e il teocratico è stato placidamente dimenticato. Il buon senso degli italiani ha prevalso sull’ideologismo balordo dei Catoni. E non ha neppure applicato la conclusione: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. L’Italia ha disobbedito alla Costituzione e non è divenuta uno Stato totalitario.
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Inutile dire che considerazioni analoghe valgono per l’art.42 cpv quando statuisce che “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Già nella Russia sovietica era permesso possedere la casa di abitazione: siamo dunque stati a un pelo di battere l’U.R.S.S. sul suo terreno?
Ma soprattutto, che funzione sociale ha la proprietà di un canarino, di un corno rosso o di libro pornografico? A meno che queste cose non servano a far sì che si possa dire che la proprietà “è accessibile a tutti”: chi possiede un corno rosso fa felice l’art.42.
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Art.47, primo comma: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito”. Parole chiare, nette e inequivocabili. Peccato che siano bugiarde.
Facciamo l’ipotesi che un tizio non spenda tutto quello che guadagna e tenga da parte un po’ di denaro. Lo Stato naturalmente non gli bada. Se invece volesse incoraggiarlo dovrebbe diminuirgli le tasse, aumentargli la paga, dargli una medaglia, insomma fare qualcosa per lui: questo è “incoraggiare”. Se al contrario gliene rubasse una parte, chi potrebbe dire che lo incoraggia e lo tutela? E tuttavia è proprio ciò che avviene. Non solo lo Stato tassa il ricavato degli eventuali interessi (perfino quelli, miserrimi, dei conti correnti bancari, che non compensano nemmeno l’inflazione), ma la mentalità del Paese va in direzione opposta, dimostrando che l’art.47 è una presa in giro. Ogni volta che ci sono difficoltà di bilancio mezza nazione invoca la patrimoniale. Ultimamente la Presidente del Pd ha proposto di andare a togliere agli abbienti una parte di ciò che hanno senza altra giustificazione che il fatto che lo hanno. In base alla teoria economica degli analfabeti frustrati secondo cui se alcuni hanno di più, è perché hanno rubato a quelli che hanno di meno. Infatti la ricchezza – sempre per gli analfabeti economici – è una quantità fissa i cui spostamenti sono a somma zero.
E questo vale anche per il risparmio che la Costituzione “tutela e favorisce”. L’imbecille al contrario dice: se qualcuno ha dei risparmi, è segno che ha potuto mettere qualcosa da parte. Io non ho potuto. Dunque date a me il suo denaro.
Per la sinistra la megapatrimoniale è la soluzione per i problemi economici della nazione, Non solo gli applausi non le mancano, quando ne parla, ma forse con questo programma vincerà le elezioni del 2013.(il Legno storto)

mercoledì 19 settembre 2012

Così Diego lo Scarparo e Sergio il Carrettiere fanno baruffa al mercato. Alessandro Giuli.

                                   

Nella comune terra medioadriatica si sarebbe detto un tempo che lo Scarparo e il Carrettiere hanno preso a fare baruffa al mercato. Diego Della Valle contro Sergio Marchionne. Il padrone di un calzaturificio divenuto negli anni il florido marchio per le élite di massa (Tod’s) contro il grande manager di un impero immiserito in patria e rinato negli Stati Uniti (Fiat). Dicendo che “la Fiat è un bersaglio grosso, più delle scarpe di alta qualità e alto prezzo che compravo anch’io fino a qualche tempo fa: adesso non più”, Marchionne si tradisce ingenuo e stizzito, lui stesso preda di quello “starnazzare nel pollaio più provinciale che c’è” sdegnosamente denunciato per richiamare la volgarità delle accuse di Della Valle. Certo, a sua parziale discolpa c’è che nell’arco di tre giorni il patron della Fiorentina gli aveva dato di “furbetto cosmopolita” e rappresentante cadetto di una famiglia (gli Agnelli) avvezza a “spararla grossa” salvo poi andarsene “alla chetichella”. Dunque uomo dalla mancata parola, Marchionne, nell’impeto accusatorio del suo antagonista. Ma sopra tutto cittadino del mondo, déraciné, traditore di un malriposto orgoglio per la stanzialità patriottica: non più un figlio degli Abruzzi natii (Chieti, città degli antichi Marrucini, guerrieri dal dialetto osco-umbro presto romanizzati), ormai soltanto un rampollo qualunque del melting pot italo-canadese (con residenza in Svizzera, peraltro).
E’ anche questo il sottotesto implicito nella requisitoria di Diego Della Valle da Sant’Elpidio a Mare (Sallupijo, in dialetto locale, Marche rivierasche). In realtà pure l’uomo delle scarpe coi pallini non scherza quanto a irraggiamento internazionale, diversamente non sarebbe il commerciante che è, come lo è Marchionne. Ma, a differenza di quest’ultimo, Della Valle sembra voler insistere sguaiatamente su una differenza di status (io sono un padroncino, tu resti un salariato) che vela appena la dissimiglianza dei caratteri. Perché la bottega di Della Valle è rigonfia di quattrini (in gergo: liquidità) e lui ci tiene da morire a farlo sapere. Lo si arguisce dalle sue parole – è diventato un urlatore nei salotti che gli fanno fare anticamera, eppure ha tirato giù Geronzi dalla vetta di Generali e ora vuole fare stragi omeriche in Rcs – e più ancora dalle sue movenze, dai tic e dalle smorfie in cui solitamente si manifesta l’ego di una persona (dall’etrusco Phersu=maschera). Ecco, quello di Diego lo Scarparo è un ego impaziente di riconoscimenti che si condensa nella capigliatura ravviata di continuo, nei braccialetti seriali ai polsi, nei gessati da paesano metropolitano. “Guardami – sembra sempre gridare anche quando è muto – sono tanto ricco da poterti fare la lezione di vita”.
E così è andata con Marchionne, che di suo ha scelto un’altra teatralità non meno egolatrica ma più efficace. Stessa sprezzatura, magari, però espressa con il profilo basso di uno che può vestirsi di stracci (costosissimi) e di barba penitenziale perché tanto, quando gli va, alza il telefono e dall’altra parte risponde Barack Obama. Sergio il Carrettiere è a modo suo uno che ha fatto fortuna in “Ammerica” e poi è diventato famoso grazie alla prima industria manifatturiera italiana, quella Fiat che ha deciso di spiantare dal giardino inaridito di un’Italia di cui non ha bisogno né rimpianto. Pur sempre noblesse de robe, quella di Sergio, ma sciacquata nell’Atlantico, aristocratizzata dal marchio sabaudo di cui è espressione, distante quanto basta dall’attuale coda di cometa del vecchio stile Agnelli; e fin troppo luccicante se messa a paragone di certa arrembante foga bottegaia. Se vuole fare rumore, discolparsi, contrattaccare, minacciare o promettere pace, Marchionne ha un direttore come Ezio Mauro a fargli da interlocutore e un’intervista baritonale assicurata in prima pagina su Repubblica. Della Valle, quando è mosso da un attacco di moralismo politico, deve acquistare le pagine interne ovvero, per conquistarsi le copertine, prendere a scarpate un Marchionne al giorno e poi attraversare con cura sulle strisce per non finire investito dal suo carretto.
Leggi Corriere e Stampa, due grandi ossessioni del capitalismo italiano - Leggi I perché della strategia flemmatica di Palazzo Chigi su Fiat di Alberto Brambilla - Leggi La carta a sorpresa di Marchionne ora si chiama modello Canada
 

martedì 18 settembre 2012

A scuola d'Italia. Davide Giacalone

  

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Venite a scuola, per capire il perché l’Italia è inchiodata e non riesce a muoversi. Entrate in segreteria o nelle classi, e toccherete con mano cosa la tiene ferma: non sono le forze oscure della reazione in agguato, e neanche i potenti interessi delle lobbies, è il non credere che si possa cambiare, la paura, la pigrizia, l’assenza di direttive chiare e inderogabili, le iperboli ministeriali che non diventano realtà. A scuola, come in tanti altri posti, si registra il trionfo dell’Italia burocratica su quella che ha voglia di crescere.
Sono anni che si parla di scuola digitale, però si va indietro anziché avanti. Si lamenta l’assenza di soldi, ma il problema è che se ne spendono troppi. Male. Da tre anni è già disponibile, per tutti gli studenti, tutte le famiglie e tutte le scuole il servizio d’interazione digitale. Valeva per le assenze, come per le comunicazioni, le pagelle, i programmi e via discorrendo. Era anche gratis, nel senso che si era fatto un accordo con i gestori di telefonia mobile, in modo da non far pagare né le famiglie né le scuole. Solo che non lo si rese obbligatorio (come opportunamente, invece, si fece con le dichiarazioni dei redditi). Il governo di allora (Berlusconi) accettò, sbagliando, di far convivere il digitale con l’analogico. Risultato: la risacca porta via anche il buono che c’era e si ricomincia sempre da zero. Senza memoria.

Dicono dalle scuole: per avere il registro digitale ci vuole un computer o un tablet per ogni professore. Non è vero: basta che il bidello raccolga i dati e in segreteria li introducano nel computer. Se vogliono un’indennità speciale, per questo lavoro, meritano il licenziamento. Per mandare l’uomo sulla luna s’impiegò meno elettronica di quel che c’è in una segreteria scolastica. Siccome lo usano solo per approntare gli stipendi è ovvio che la macchina rincula. Ora il ministro dell’istruzione annuncia: un computer per ogni classe (spesa 24 milioni) e un tablet per ogni insegnante del sud (spesa 32 milioni). Non sanno come spendere i soldi dei fondi convergenza, di provenienza europea, sicché la gara è a chi li spende prima. Ma male: comprare computer significa attrezzare un parco che presto sarà tecnologicamente arretrato e progressivamente danneggiato. Soldi che evaporeranno, ammesso che riescano a spenderli veramente. Se si vuol far crescere un mercato e puntare all’innovazione questa roba si esternalizza, chiedendo ai fornitori servizi, non l’ennesima overdose di computer da buttare, magari ancora incartati.

Neanche ci si è liberati dei libri di testo. Ogni anno ne compriamo un quintale (e chi scrive ama i libri, ma quelli veri, non i manuali o le raccolte d’esercizi che cambiano numero per giustificare la diversa edizione). Quest’anno le famiglie spenderanno un centinaio di euro in più rispetto all’anno scorso, come se i soldi abbondassero. Con quei quattrini si potrebbe tranquillamente dotare ogni studente di un computer e dei testi (sempre esternalizzando), senza differenze di reddito e classe sociale. Però si dovrebbe rendere obbligatoria l’adozione dei testi digitali e non si dovrebbe cedere alla misera lobby degli stampatori, che frenano l’innovazione e lucrano su una rendita di posizione che impoverisce l’Italia. Risultato: ancora una volta si adottano testi sia stampati che digitali, con il risultato che in classe entrano solo i primi. Eppure l’Eni aveva già messo a disposizione, due anni fa, la propria piattaforma di e-learning, per far nascere veramente la scuola digitale. Era gratis. Forse per questo si dimentica.

In compenso, dicono al ministero dell’Istruzione, si farà un concorso per assumere gli insegnanti. Solo che si attinge alle graduatorie del passato, con il risultato che i nostri insegnanti sono vecchi. Nella scuola primaria (con i bambini) il 77,2% ha più di 40 anni, con il 39,3 che ne ha più di 50. Nella secondaria gli over 50 sono la metà. Medie nettamente superiori sia a quelle dell’Ocse che a quelle dell’Unione europea. Sono i più bravi? Non lo sappiamo, perché i concorsi non si fanno da lustri. Moltissimi sono bravissimi, tanti sono ciuchissimi, altrettanti non gliene frega nulla. Ma li trattiamo tutti allo stesso modo. Si dice: hanno diritti acquisiti. E i diritti dei ragazzi? Il diritto a stare in una scuola seriamente formativa? Non contano, questi diritti. Salvo poi, con i test Pisa e Invalsi, misurare la desertificazione culturale e lo svantaggio concorrenziale.

La spesa pubblica per l’istruzione, in Italia, ammonta al 4,7% del prodotto interno lordo, mentre la media Ocse è il 5,9. La quota di spesa pubblica destinata all’istruzione è il 9%, meno di noi spende solo il Giappone. E’ povera, la scuola italiana? Sì, è povera, ma non è povera la spesa totale, perché le famiglie spendono un botto. Solo che è la qualità a essere bassa, perché i cittadini spendono senza potere scegliere, senza che siano pubblicati i dati con cui orientarsi. E’ la meritocrazia a essere stata espulsa. Prima dalle cattedre e poi dai banchi. Risultato: i giovani economicamente svantaggiati non hanno ascensori sociali, mentre noi tutti perdiamo la qualità dei migliori.

Ci fermano miserrime resistenze che, però, non trovano davanti a sé governi (plurale, perché sono anni che non si schioda) e politiche degni dei loro nomi. Solo annunci e superficialità, quindi rassegnazione esibizionista. Adesso la digitalizzazione è stata inserita nella spending review e nelle varie “agende”, ma la cruna dell’ago resta vergine: la si smetta di considerare tutto “sperimentale”, perché non c’è un bel niente da sperimentare, e si passi all’obbligo. Fuori da questo c’è solo il parolaismo inconcludente, sicché prende corpo l’abominio di un Paese che dovrebbe essere eccellente nella cultura (e che diamine, se non riusciamo neanche in quello!) e invece affoga nel rivendicazionismo miserando. Alla fine produciamo meno laureati degli altri paesi Ocse.

Venite a scuola e guardate in faccia quel che ci affonda. Poi facciamo pure gli auguri ai nostri figli che, in questi giorni, tornano a scuola. Studiate, non accontentatevi. Protestate.

lunedì 17 settembre 2012

Note sulla Costituzione - VII La salute. Gianni Pardo

  

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Art. 32 – Lo Stato italiano, per come lo vedevano i nostri costituenti, doveva essere una sorta di educatore, di padre amorevole e perfino di tenera madre. Non è strano che essi l’abbiano immaginato trepidamente preoccupato della nostra salute. Scrissero infatti, ottimisticamente (art. 32): «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti».
Bella formulazione che tuttavia non riesce a sfuggire alla retorica e al linguaggio immaginifico. Che senso ha dire che la salute è un “fondamentale diritto”? La salute sarà un fondamentale interesse, magari una fondamentale speranza e perfino un fondamentale vantaggio, se la si ha: ma un diritto? A chi ricorrere, se non si ha? Naturalmente i costituenti, ancora una volta, non parlavano in termini giuridici. Intendevano, piuttosto che un diritto alla salute, un diritto a quelle cure che la salute possono assicurare, o almeno migliorare. Ma anche in questo caso: gratuitamente? Perché se le cure non sono gratuite, neanche questo diritto esiste. E se sono a pagamento (anche in parte) si ha tanto diritto ad ottenerle quanto si ha il diritto di ottenere il cono gelato che si è pagato alla cassa.
L’ambizione era forse quella di offrire gratis tutto a tutti ma l’esperienza ha mostrato che la Repubblica questa generosità non se la può permettere. Ha per esempio provato un paio di volte ad abolire il contributo per i farmaci ed ha dovuto fare marcia indietro: perché la gente sprecava i medicinali e il costo diveniva insostenibile. Insomma ci si è scontrati con la realtà.
La regola del buon senso dice che tutti devono essere assicurati e che tutti devono poi quanto meno contribuire alle spese per le loro cure: solo questo permetterà alla sanità di Stato di sopravvivere, pur rimanendo sempre deficitaria. Le stesse cure gratuite agli indigenti devono essere concepite solo in caso di necessità, e in ospedale. Per non dire che rimane sempre il problema di determinare chi sono gli indigenti. Insomma “il diritto alla salute”, come altri famosi “diritti” della nostra Legge Fondamentale, non esiste.
Il secondo comma «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Che nessuno, salvo il caso del pazzo furioso, debba subire cure mediche non volute, è giusto. Ma come mai non si permette che una persona normale rifiuti preventivamente l’accanimento terapeutico o la nutrizione forzata, nel caso rimanga in coma irreversibile? Come mai non si permette l’eutanasia? Come mai non si considera doveroso il rispetto del cittadino quando vuole decidere della propria vita? Questo non oltrepassa i “limiti imposti dal rispetto della persona umana”? Se dal punto di vista giuridico e morale è sacrosanto il diritto alla vita, come mai non si sancisce anche il diritto alla propria morte? La legislazione è fondamentalmente un mezzo per regolare i rapporti fra gli uomini, non il modo come ciascuno deve comportarsi con sé stesso, e queste norme scavalcano un limite del diritto: la sua fondamentale “alterità”.
Le difficoltà che le leggi italiane hanno frapposto all’esercizio dei poteri sul proprio corpo – pure teoricamente sanzionati dalla Costituzione – non dipendono da motivi giuridici ma dall’idea (cristiana) che l’uomo non può disporre della vita che gli ha dato Dio. Questa rispettabile dottrina appartiene però solo ai credenti ed è ingiusto applicarla ai non credenti. Fra l’altro quando già si permette una pratica, come l’aborto, che riguarda, oltre la donna, un altro essere umano, se pure in fieri.
Ancora una volta la mentalità della società prevale sul diritto. Ecco perché la Gran Bretagna non ha una Costituzione. Gli inglesi, gente pragmatica, hanno capito prima di altri che quella Carta è di fatto il riassunto del livello sociale e giuridico raggiunto da una nazione. E dunque è inutile scriverla. Se un certo principio (il divieto dell’eutanasia) è sentito come giusto, sarà applicato anche se non è inserito in un testo magniloquente. E se non è sentito come giusto, anche se è inserito in quel testo, non è applicato. Per esempio in Italia le regole per lo sciopero non sono state applicate per più di quarant’anni. (il Legno storto)

Note sulla Costituzione - VI - Il carcere - La famiglia. Gianni Pardo

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Secondo l’Art. 27, terzo comma, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Questa norma, indiscutibile per i “trattamenti contrari al senso di umanità”, è allarmante per le ultime parole.
Nell’Italia attuale fanno pensare a biblioteche all’interno delle carceri, a corsi di storia o di informatica per i detenuti, o al coinvolgimento dei carcerati nell’amministrazione della comunità, ma esse potrebbero essere applicate in modo ben diverso da un governo divenuto autoritario ed ideologico. Lo Stato potrebbe prima emanare leggi contro il dissenso e poi mettere in carcere le persone che criticano l’autorità. La nobile finalità del miglioramento morale del condannato potrebbe portare, come in Cina, ai “campi di rieducazione”: “Non solo starai in carcere ma, dal momento che tendo a rieducarti, dovrai studiare la dottrina del partito e dire che ne sei convinto”. Nessuno nega che ne siamo lontani, ma quando si tratta della libertà di parola e ancor più di pensiero, è meglio soffrire il solletico.
Finché si vieta di percuotere il carcerato o di tenerlo in galera senza un ordine del magistrato, sia lode alla Costituzione: ma perché concedere allo Stato il diritto di porsi a maestro di etica? Perché consentirgli di insegnare la morale, mentre tiene qualcuno in galera? È già molto che, per fini di ordine pubblico e di sicurezza, gli si consenta di tenere rinchiuso il corpo di un cittadino: non deve in nessun caso essergli permesso di rinchiuderne anche l’anima. Non molto tempo fa gli avrebbe insegnato che è male essere omosessuali, che è vietato essere atei o infine, come nella Cina di Mao, che non è ammesso essere anticomunisti.
Un liberale ha paura dei moralisti e di una Costituzione che tende chiaramente “al bene”. Ancor più se pensa che il tentativo di insegnarlo, quel bene, sarà poi affidato ai singoli magistrati e ai singoli carcerieri.
La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. In realtà l’art.27 avrebbe dovuto rinunciare all’indicazione di ciò cui deve tendere la reclusione. La pena costituisce un “pagamento” delle proprie colpe e la società “creditrice” dovrebbe accontentarsi di esso, senza pretendere che il debitore si cosparga inoltre il capo di cenere.
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L’Art. 29, secondo comma, statuisce che: "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare”.
Nel primo comma si fa riferimento alla società naturale, prevedendo con essa solo la coppia eterosessuale. Ma l’omosessualità non è meno naturale dell’eterosessualità. Anche chi volesse considerarla una deviazione rispetto alla normalità non può negare che essa sia naturale, come sono naturali l’albinismo o l’alluce valgo. Paradossalmente dunque, con l’accenno alla società naturale, la Costituzione non vieta affatto il pur inutile matrimonio degli omosessuali. Se si fosse scritto “i diritti della famiglia fondata sul matrimonio”, senza parlare di società naturale, non avremmo rimpianto le parole mancanti. Poi il legislatore avrebbe potuto regolare l’istituto nel modo meglio rispondente alla sensibilità collettiva e nel testo ci si sarebbe risparmiata una delle tante tracce di discutibili ideologie.
Più criticabile è il secondo paragrafo, lì dove parla di limiti all’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi: limiti che, ci scommetteremmo, quando esistenti sono a favore dell’uomo e contro la donna. Prova ne sia che un tempo nei reati di adulterio e concubinato per la donna bastava un congiungimento carnale con una persona diversa dal marito (l’art.559 parlava soltanto della moglie adultera) mentre per l’uomo il reato di adulterio era previsto esclusivamente a querela del marito dell’amante, e non della sua propria moglie! Quanto al concubinato, per essere punibile era necessario che il marito tenesse (art.560) la “concubina nella casa coniugale, o notoriamente altrove”. Se l’altra donna non era nella casa coniugale, o se il fatto non era di pubblico dominio, il reato veniva meno. Bisognava proprio che la mancanza di rispetto per la moglie fosse conclamata e scandalosa: sempre che l’articolo non proteggesse in realtà più l’onorabilità della famiglia che della moglie.
Poco importa che queste norme siano state cancellate (anche se parecchi anni dopo il 1948): esse servono almeno a mostrare come la Costituzione sia tutt’altro che quel testo di sovrumana saggezza che molti pretendono sia. (il Legno storto)
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