martedì 28 aprile 2009

Non ne posso più di questa overdose di valori. Vittorio Feltri

Quest’orgia di valori è nauseante. I valori della resistenza, i valori della Costituzione, i valori della famiglia, i valori del cristianesimo... I valori i valori i valori. Più ne parlano e più li strapazzano e meno si ha la percezione di cosa siano. Nel linguaggio politico sono diventati luoghi comuni, tic lessicali, banalità, moneta bucata. Quando uno, nell’affanno di dover esprimere un concetto o concludere una frase, incespica e sta per annegare nel proprio eloquio stenterello si aggrappa al primo valore che gli viene in mente. Un ragazzo uccide la fidanzata o la mamma o il fratello o un amico o un passante? Chi è chiamato in tivù a commentare la tragedia, dopo aver dato fondo al bagaglio delle banalità, aggrotta la fronte e con aria da pensatore stitico afferma: il problema è che i giovani di oggi non credono più nei valori, nel valore della vita. Applausi del pubblico. Ogni uomo di partito si appella ai valori: i valori della destra, i valori della sinistra, i valori della democrazia, i valori della Patria. E i valori immobiliari? Quelli non si esaltano, si accumulano. Di Pietro ha addirittura fondato l'italia dei valori che rende di più della Borsa Valori.

Ieri i telegiornali erano inzuppati di valori della liberazione. Da sessantaquattro anni il 25 aprile, a pranzo e a cena, ci servono pane e valori della lotta partigiana, sempre lo stesso pane rancido. La liberazione è come il Festival di Sanremo e l'elezione di miss Italia: ci tocca.

Consola l'assenza di Pippo Baudo davanti al cippo dei caduti, ma non compensa il senso di stanchezza provocato dalla logorrea degli oratori resistenziali, da Napolitano all'ultimo presidente rionale dll'Anpi. Ai quali quest'anno – che Dio lo abbia in gloria – si è affiancato Berlusconi non sapendo rinunciare a unirsi al coro delle ovvietà patriottiche. Tu quoque, Silvio. Che depressione ascoltare il nostro Cavaliere errante in Abruzzo mentre elenca il menu “valoriale” di giornate.

Scusate lo sfogo, cari lettori, ma non ci importa nulla della liberazione, è storia antica, raccontata male, distorta a scopo propagandistico, deformata da vicende famigliari, e dal desiderio di rimuovere una colpa collettiva: l'adesione in massa al fascismo fino al 24 aprile, dopo di che tutti in piazzale Loreto a sputacchiare sul “Puzzone” e sulla ragazza giustiziata con lui in puro stile talebano; così per divertimento. Che è pur sempre un valore aggiunto.

A noi preme piuttosto la Libertà, quella che riusciamo con fatica a conquistarci giorno dopo giorno col lavoro e il rispetto delle leggi, persino quelle idiote approvate in mezzo secolo da un Parlamento dove prevale ogni interesse tranne quello del popolo considerato ormai una parolaccia. Altro che resistenza ci vuole per sopportare le insegnati finte malate da tre anni e la spesa sanitaria nelle regioni del Sud, miliardi (di deficit) sprecati in ospedali costruiti col lego, citando solo due cosette registrate ieri dalla cronaca.

In nome della libertà mi prendo la licenza di irridere alla liberazione e alle sue ipocrisie. E spengo il televisore sulla faccia di un Franceschini che si intorcina fra valori. (Libero)

venerdì 24 aprile 2009

Una Repubblica fondata sulla bugia. Davide Giacalone

La Repubblica italiana è in gran parte fondata sulla bugia. Falsificazioni storiche che, a forza d’essere ripetute, snocciolando il rosario dell’ipocrisia, sono scambiate per verità. Domani è il 25 aprile, e noi ancora lamentiamo l’inesistenza di una “storia condivisa”, ancora dobbiamo fare i conti con Salò o con la guerra civile. Capita perché si è costruito sulla bugia.
Ho letto, con molta attenzione, il discorso del Presidente Napolitano, pronunciato a “difesa” della Costituzione. Vi ho trovato tutti i segni della storia letta con occhiali ideologici, quindi irreale. L’uniformità dei successivi commenti, il ridursi di tutto alla polemicuzza quotidiana, dà il senso di quanto quel veleno abbia assopito le menti. Il punto principale è quello iniziale, sede d’equivoco e bugia, dove Napolitano individua le fondamenta su cui poggia la Costituzione: “l’opposizione al fascismo e la Resistenza”. Nulla d’originale, solo che ci manca un pezzo e quel che c’è non regge.
La nostra Costituzione, la democrazia nella libertà, si fonda, prima di tutto, sulla conferenza di Yalta, conclusa l’11 febbraio del 1945. Anche i polacchi o gli ungheresi ebbero antifascisti e resistenti, ma non ebbero né democrazia né libertà. La differenza sta in Yalta: quegli europei finirono sotto la dittatura comunista, noi nel mondo atlantico, che ci stava ancora liberando. Cancellando questa verità si cancella l’orizzonte internazionale dalle nostre vicende storiche e, per reggere un racconto bugiardo si moltiplicano le fanfaluche.Riflettano, Napolitano ed i tanti che precedono e ripetono a pappagallo: se l’origine della nostra libertà e della nostra Costituzione fosse in antifascismo e Resistenza, ne deriverebbe che la democrazia appartiene ad una minoranza d’italiani. La grande maggioranza era fascista. Fascisti perché italiani. Per far finta di fondare la Repubblica sui valori e le idee di una minoranza, facendola passare per quasi totalità, si è falsificata anche la storia pregressa, che, difatti, ancora torna a gola, che dovrà essere vomitata, che non potrà mai essere “condivisa”, perché bugiarda.
Secondo Napolitano la Costituzione “non fu mai intesa come manifesto ideologico o politico di parte”. Lo è. Proprio nella sua prima parte, quella che nessuno dice di volere toccare, che tutti sono pronti ad osannare. Lì è antiliberale ed antindividuale, subordina l’interesse di ciascuno a quello collettivo (indefinito ed indefinibile), privilegia il sociale sul personale. La definirei cattocomunista, o forse, per maggiore precisione storica, vaticantogliattiana. E’ naturale, quindi, che abbia strutturato un sistema istituzionale in cui il governo conta poco ed il Parlamento molto. Non è (solo) perché si era appena usciti da una dittatura, ma perché Togliatti era un realista, cinico. Capì che dopo Yalta non c’era spazio né per la rivoluzione (roba cui poteva credere un Pajetta) né per il governo, quindi barattò la copertura della bugia fondativa con lo spostarsi del potere in Parlamento.
Così, da allora ad oggi, chiunque voglia darsi un tono ed impartirti una lezione costituzionale, ti ripete le solite fesserie, con l’aria compresa di chi ha appena pensato cose profonde. Il che porta a formidabili abbagli: citando Bobbio lo stesso Napolitano ha detto che “la denuncia dell’ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie”. Siccome la storia ha puntualmente e sempre dimostrato il contrario, ovvero che sono i governi rassegnati alla debolezza (modello Facta) a spianare la strada alle dittature, quel che in realtà si vuol dire è: chi denuncia le nostre bugie desidera tornare al fascismo. Invece si può essere antifascisti ed anticomunisti, amanti della libertà e della democrazia, pur non aderendo al club della bugia.
Adorando la dea menzogna, purtroppo, si costringe tutti a vivere il presente come tempo in cui regolare il passato, sopprimendo il futuro. Si proclama intoccabile una Costituzione che è già stata cambiata quindici volte, scassandola, per giunta fuori da sedi e contesti organici, senza clima costituente, procedendo a spizzichi e bocconi e riducendo la Carta a cassetta degli attrezzi, senza valori ideali viventi. Ecco: questi sono i nemici della Costituzione, che domani diranno le solite sciocchezze tonitruanti, ad imperitura memoria e gloria delle bugie.

martedì 21 aprile 2009

Il paese dei nemici. Michele Brambilla

Le puntate di «Annozero» sul terremoto non sono piaciute neppure allo scrittore Francesco Piccolo che ieri, sull’Unità, ha spiegato i motivi del suo non-gradimento: «C’era una forma evidente di violenza, di arroganza, tipiche delle persone che si sentono dalla parte giusta (e qualche volta lo sono) ma che per questo motivo sono convinte di poter esercitare una violenza, adottare una volgarità, un sarcasmo che io non solo non riesco a condividere, ma di solito, da queste serate, ne esco sempre con un sentimento di compassione per i maltrattati, anche se i maltrattati sono persone di cui non condivido una sola parola». Parole da sottoscrivere, e direi anche coraggiose.

Ci fanno piacere, ovviamente. Ma l’articolo uscito ieri sull’Unità è importante soprattutto per un altro motivo. Piccolo spiega - e in questo è ancor più coraggioso - il motivo per cui molti, a sinistra, non hanno avuto l’onestà di esprimere il proprio dissenso nei confronti di Santoro e dei suoi collaboratori. «Quindici anni di berlusconismo hanno prodotto un pensiero pericoloso e piatto, che è il seguente: tutti coloro che sono antiberlusconiani stanno dalla stessa parte. Un pensiero semplice, a cui ognuno di noi ormai si è abituato». Anche se si fa risalire il peccato originale al «berlusconismo», c’è comunque l’ammissione dell’esistenza di quel riflesso pavloviano che negli ultimi quindici anni ha falsato, e spesso avvelenato, ogni dibattito politico, e non solo politico: tutto ciò che viene da Berlusconi e il suo mondo è sbagliato; tutto ciò che è contro Berlusconi e il suo mondo è giusto.

La verità non conta; l’analisi dei fatti non serve. Il Paese è spaccato in due e spaccato in due deve restare. Chi non è con noi è contro di noi. L’Italia del bipolarismo non ha ancora smaltito questo vizio profondo che consiste nel considerare chi la pensa diversamente non come, al massimo, un rivale, ma come un nemico. E «nemico», infatti, è il termine che usa Piccolo nel suo articolo sull’Unità: «Queste cose (e cioè la critica ad Annozero, ndr), però, sono difficili da dire. Perché stai dicendo la stessa cosa che dice il tuo nemico. (...) Se Santoro fa una puntata violenta e poco condivisibile sul terremoto, se Vauro disegna vignette volgari, non importa, poiché sono sotto attacco del nemico, bisogna per forza stare dalla parte loro. E quello che ti piace per davvero, non conta più».

Quante volte questo pregiudizio ha impedito la ricerca non solo della verità, ma anche del bene comune? Quante volte ci si è schierati - in parlamento e sui media - contro scelte che magari si ritenevano, sotto sotto, ragionevoli e utili, ma che andavano comunque bocciate perché venivano «dall’altra parte»?

L’articolo di Piccolo fa doppiamente piacere perché uscito su un giornale che a lungo ha adottato questa «logica del nemico» di cui la sinistra italiana si è nutrita per decenni. La tecnica della demonizzazione dell’avversario ha forse toccato il suo apice con Berlusconi (c’è perfino chi ha smesso di tifare per il Milan, da quando Berlusconi è entrato in politica) ma ha sicuramente origini più antiche. Prima del Cavaliere il demonio è stato incarnato via via da De Gasperi, Fanfani, Moro, Andreotti, Craxi e ovviamente da Almirante e gli ex fascisti in genere. Andate a rileggere che cosa si scriveva, anni fa, di questi personaggi che oggi la stampa di sinistra contrappone nostalgicamente a Berlusconi.

Tuttavia, anche questa nostra analisi peccherebbe di faziosità e pregiudizio se non riconoscessimo che pure dall’altra parte, quella del centrodestra, scatta spesso una scomunica preventiva che impedisce di riconoscere le ragioni e i valori altrui. Siamo, purtroppo, nel Paese dei nemici. E lo resteremo fino a quando non ci arrenderemo all’evidenza di quella vecchia massima secondo la quale una cosa è giusta o sbagliata, ed è vera o falsa, a prescindere da chi la dica. (il Giornale)

domenica 19 aprile 2009

Leggete e vergognamoci. Davide Giacalone

C’è un’Italia che viene nascosta, inguardabile. E’ doveroso violare il silenzio. Leggete, e vergogniamoci tutti. Carmelo Canale è un tenente dei Carabinieri. Fu strettissimo collaboratore di Paolo Borsellino, che lo chiamava “fratello”. Quasi tutti ne hanno sentito parlare, ma arrivate in fondo per toccare la vergogna.
Canale era anche il cognato di Antonino Lombardo, altro Carabiniere, suicidatosi il 4 marzo del 1995. Il 23 febbraio precedente Leoluca Orlando lo aveva accusato, televisivamente ospite di Michele Santoro (è sempre lì, sempre), d’essere connivente con la mafia. Il 26 Lombardo sarebbe dovuto partire per gli Usa, incaricato di prelevare Tano Badalamenti, mafioso temuto dalle procure, capace di smentire qualche teorema, che chiedeva fosse quel Carabiniere a garantire per la sua sicurezza. Il viaggio è annullato.Prima di spararsi, Lombardo scrive: “Mi sono ucciso per non dare la soddisfazione di farmi ammazzare e farmi passare per venduto e principalmente per non mettere in pericolo la vita di mia moglie e i miei figli che sono tutta la mia vita (…) la chiave della mia delegittimazione sta nei viaggi americani”. Due giorni dopo, Canale, dichiara: “A quanti pensano che mio cognato Antonio sia morto suicida, rispondo: sbagliate. Questo è un assassinio calcolato da tempo”. Succede qualche cosa? Sì, che dodici “pentiti” di mafia, dei mantenuti a spese dei cittadini, che escono di galera dopo avere squagliato i bambini nell’acido, accusano Canale d’essere al servizio della mafia. Indagato subito, rinviato a giudizio nel 1998 e poi sospeso dal servizio.
E’ stato assolto due volte, in primo e secondo grado. Manca la cassazione. In tredici anni la malagiustizia italiana non è riuscita a condannare un colpevole o liberare un innocente. La sospensione, però, ha influito sulla carriera di Canale, che non essendo diventato maggiore ora viene messo in pensione, forzatamente. Per opporsi dovrà attendere che la giustizia si svegli. I “pentiti” sono in gran parte a spasso. Nessun magistrato ha pagato per gli errori. Le parole di Lombardo restano lettera morta. Le accuse ingiuste non sono state punite. Nessuno è responsabile di un accidente, ma Canale se ne deve andare, perché sul fratello di Borsellino, sul cognato di Lombardo, pesa ancora il sospetto. Vergogniamoci.

venerdì 17 aprile 2009

Mafia aquilana, giustizia italiana. Davide Giacalone

Il primo scandalo, a terremoto ancora in corso, sono le parole del capo della procura aquilana. Teme che arrivi “un fiume di soldi” e che, pertanto, mafia e camorra s’infiltrino. Temo, invece, che la giustizia non sappia essere tale e che cerchi di nascondere le proprie colpe con denunce tanto rituali quanto inutili.
Fa sapere, il procuratore capo, di avere acquisito gli atti della commissione parlamentare che già esaminò e descrisse lo scandalo dell’ospedale. Crollato. Perché il signor capo si muove solo oggi, non gli avevano detto prima, della commissione? La notizia di reato non è il crollo, ma l’edificazione! Perché non si è mossa la corte dei conti, contestando il danno erariale di lavori avviati nel 1960 e conclusi quaranta anni dopo? L’impunità dei responsabili, procurata, nel migliore dei casi, dall’incapacità degli inquirenti, è una delle cause dei disastri. Edilizi e morali.
E veniamo alle mafie. Esistono, lo so. Ma se l’affluire di finanziamenti, il partire delle opere pubbliche, fa temere che i delinquenti facciano affari vuol dire che a governare la spesa ci sono o dei loro colleghi o dei deficienti, e che, in ogni caso, la giustizia è una barzelletta. Che dovremmo fare: tenerci le macerie per salvare la virtù? I criminali sfruttano le opere pubbliche quando queste consentono di moltiplicare i guadagni, grazie alle pressioni politiche ed amministrative. Basterebbe fissare tre paletti: a. esatta data dell’inizio dei lavori; b. data entro cui devono finire; c. natura e valore dell’appalto. Nessuno dei tre può essere spostato. Si utilizzino tre strumenti: 1. trasparenza su ogni singolo sub appalto; 2. così anche nelle transazioni e nei flussi di denaro; 3. accesso delle autorità ai cantieri per verificare il rispetto delle tecniche e dei materiali pattuiti.
Se a queste cose s’aggiungesse un’autorità giudiziaria capace di leggere le carte, e le denunce, prima e non dopo i disastri, non guasterebbe. Se poi ci fosse una classe politica interessata ad accreditarsi come capace e non a ritirarsi da sistemata, ancora meglio. Pensare che, con gli sfollati nelle tende, il rischio sia nella ricostruzione, è una follia. I denuncianti in servizio permanente effettivo facciano il loro dovere, che non consiste nel proporre alle telecamere quel che si dice al bar.

martedì 14 aprile 2009

Islam, il terrorismo delle querele. Maria Giovanna Maglie

Siamo un gruppetto di tutto rispetto, giornalisti, politici, studiosi che provano a raccontare, denunciare, attività e scopi veri dell’Ucoii in Italia, ovvero dell’Unione delle comunità islamiche in Italia. Quando ho ricevuto la prima e la seconda querela, l’ho ritenuta motivo di orgoglio. Sapevo di non essere né la prima né la più esposta. Ma negli ultimi tempi il passaparola dei querelati e minacciati ha rivelato che è una strategia, ora attuata in Italia, ma già sperimentata dagli integralisti in molti altri Paesi. La formula della querela è sempre la stessa e recita: «Nell’articolo, il cui contenuto è integralmente diffamatorio, vengono propalate notizie false e giudizi denigratori nei confronti della mia assistita (Ucoii). È evidente la lesione ingiustificata e gratuita all’onore, all’immagine e alla reputazione dell’Ucoii arrecata dalla pubblicazione del citato articolo, il cui contenuto si contesta integralmente». Segue l’invito a risarcire immediatamente tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali. Cito qualcuno dei nomi, ma la lista andrà certamente aggiornata: Magdi Cristiano Allam, il primo e il più perseguitato, Valentina Colombo, Souad Sbai, Andrea Ronchi, Andrea Nardi, Antonello Palazzi, Giancarlo Loquenzi, Carlo Panella, Dimitri Buffa, Massimo Introvigne, Alberto Giannoni, Massimiliano Lussana, Andrea Morigi, Ahmad Giampiero Vincenzo, Daniela Santanchè, Yassim Belkazei. Cito qualche giornale: il Giornale, Libero, La Stampa, il Corriere della Sera, Tempi, l’Opinione, l’Occidentale, la Padania. L’elenco, ripeto, è approssimativo e minimo. Ogni articolo, questo è sicuro, nel quale sia citata l’Ucoii, è oggetto di richiesta di risarcimento.
Ai metodi terroristici tradizionali ora l’islam vicino al movimento dei Fratelli musulmani, ha progettato di aggiungere un altro tipo di jihad, quello che si svolge nei tribunali e che ottiene lo scopo di spaventare personalmente ed anche economicamente. Chiunque, giornalista, politico o studioso che sia, si occupi di islam, rischia di venire citato in tribunale per «oltraggio nei confronti di un gruppo di persone in ragione della loro religione». Gruppi minoritari e perfino isolati nella popolazione musulmana si spacciano per suoi rappresentanti unici.
Uno degli ultimi esempi è stato il processo intentato in Francia dall’Unione delle Organizzazioni islamiche di Francia e dalla Grande moschea di Parigi contro la rivista Charlie Hebdo per avere ripubblicato le vignette satiriche di un giornale danese su Maometto. Nel marzo 2008 la corte d’appello di Parigi ha per fortuna respinto ogni capo d’accusa perché le caricature «si riferiscono chiaramente a una frazione e non all’insieme della comunità islamica, non costituiscono un oltraggio, né un attacco personale e diretto contro un gruppo di persone in virtù della loro appartenenza religiosa e non valicano il limite ammesso della libertà di espressione». Ma altre querele sono arrivate. Negli Stati Uniti il Cair (Consiglio per le relazioni americano-islamiche) ha portato in tribunale il responsabile del sito Anti-Cair per avere diffuso false notizie a danno della reputazione dell’Associazione, ma ha dovuto ritirare l’accusa; la Islamic Society di Boston ha accusato di diffamazione diciassette persone nel maggio 2005 anche in questo caso per ritirare l’accusa due anni dopo.
La risposta è stata possibile anche grazie all’azione del Middle East Legal Project Forum, che spiega: «Queste cause sono spesso capziose, avviate senza una seria aspettativa di successo, ma intraprese per causare la bancarotta, per distrarre, intimidire e demoralizzare gli accusati. Non si cerca tanto di vincere in tribunale, quanto di portare allo sfinimento giornalisti e analisti». Pensate che il solo Cair americano ha annunciato nell’ottobre 2005 di avere raccolto in un mese un milione di dollari, per «difendere gli attacchi diffamatori ai musulmani e all’islam». Possiamo provare a fare un Legal Project anche in Italia, per rispondere ai metodi dell’Ucoii?
Due parole per ricordare che cos’è. L’Ucoii è l’estensione in Italia dei Fratelli Musulmani egiziani. I rapporti di polizia e dei servizi, le documentazioni dei tribunali italiani, provano i suoi chiari propositi eversivi per instaurare in Occidente una società dominata dal diritto coranico. Una recente sentenza avvisa come «sia opportuno compiere attente indagini prima di individuare l’Ucoii quale principale interlocutore per quanto riguarda i rapporti con i musulmani evidenziando inoltre che le moschee in Italia possano essere un serbatoio di kamikaze e terroristi». In Italia controllate dall’Ucoii ci sono settecentocinquanta moschee illegali. L’Ucoii non ha firmato la Carta dei Valori preparata dalla Consulta istituita dal ministero degli Interni perché rifiuta qualsiasi forma di concordato con il nostro Paese e le sue Istituzioni. Nel 2006 l’Ucoii ha fatto pubblicare a pagamento sui quotidiani italiani un manifesto con il titolo «Ieri stragi naziste, oggi stragi israeliane» che si chiudeva con «Marzabotto = Gaza = Fosse Ardeatine = Libano».
Purtroppo la preghiera islamica per i nostri morti nel sisma che ha colpito l’Abruzzo è stata guidata proprio dal presidente dell’Ucoii, Nour Dachan. Noi querelati e minacciati siamo certi che si sia trattato di un clamoroso equivoco, che rischia però di dare legittimità a un’organizzazione fondamentalista. Aspettiamo chiarimenti e ci organizziamo per resistere. (il Giornale)

giovedì 9 aprile 2009

Terremoto, eccellenze e scandali. Davide Giacalone

Le disgrazie esistono, ma anche i disgraziati. Non si ferma la forza della natura, ma si può arrestare quella d’incapaci e malfattori. Quattro problemi accompagnano il terremoto: 1. la prevedibilità; 2. l’emergenza; 3. la ricostruzione; 4. la normalità. Riguardano le vite di molti ed i soldi di tutti.

Non sono un geologo, ho cani e gatti e vedo anch’io che se ne accorgono. Leggo che nessuno, nel mondo, prevede luogo ed ora di un terremoto, ma solo il rischio potenziale. Osservo, però, che sia per l’eventuale allarme nell’immediatezza dell’evento, sia per la gestione del panico successivo, manca una rete di comunicazione. Quella notte radio e tv sono rimaste in sonno. Internet non forniva informazioni ufficiali. Creare una rete, utilizzando le comunicazioni mobili, non presenta complicazioni tecniche, e costa molto poco.
Non c’è.
Nella gestione dell’emergenza siamo bravi. Dobbiamo esserne orgogliosi. Non tutto può essere fatto subito, e lo capiscono meglio le vittime di chi parla a vanvera, ma, nella disgrazia, la generosità italiana si sposa con l’organizzazione, ed i risultati si vedono. Merito di molti, ma vorrei ricordare il lavoro di Giuseppe Zamberletti, che creò la protezione civile.
Le cose si mettono male, invece, nel periodo successivo, con la ricostruzione. Ci sono zone dove i nipoti dei terremotati vivono ancora da terremotati. Qui si sposano due difetti italiani: fatalismo privato ed inefficienza pubblica. Con i tempi si dilatano anche i costi, e la disgrazia diventa prima ruberia e poi scandalo. Chi edificherà ci guadagnerà, ed è lecito. Di più: è giusto. Ma sarebbe meglio affidare i lavori a progetto: si fissano i costi, i tempi e le caratteristiche del lavoro. Chi non rispetta i termini paga, di tasca propria.
Si edificherà in zona sismica. E’ così in gran parte d’Italia. L’importante è che si edifichi in modo antisismico. A L’Aquila il vecchio ospedale è in piedi, quello nuovo al suolo. Che crolli un campanile fa male al cuore, ma se crolla il cemento armato vien voglia di fare del male. Siamo pieni di leggi, in materia, per non dire di regolamenti e circolari. Carte quasi tutte redatte all’indomani di disastri, per poi restare lettera morta. Tumulata in tribunale. Questo è scandaloso. Lo scrivo sottovoce, perché siamo ad un funerale, ma con rabbia.

mercoledì 8 aprile 2009

Finalmente orgogliosi dello Stato dopo tante tragedie gestite male. Peppino Caldarola

Questa volta abbiamo visto lo Stato. Non era mai accaduto prima. In Irpinia qualcosa cominciò a muoversi dopo le aspre parole di Pertini e la sua requisitoria contro gli uomini di governo. Napolitano non ha avuto bisogno di fare discorsi a tv unificate. La Protezione civile di Bertolaso si è confermata una delle macchine più efficienti della Repubblica. Le forze di polizia sono state mobilitate in poche ore. I nostri pompieri hanno mostrato lo stesso coraggio di quelli di New York l’11 settembre. I soccorritori non hanno avuto il tempo di chiedersi cosa fare e dove andare. Ricordo l’angoscia dei volontari dell’Irpinia quando la generosità di tanti si smarriva di fronte all’inefficienza dell’intervento pubblico.Berlusconi si è immediatamente assunto la responsabilità di dirigere in prima persona l’intera macchina dei soccorsi. Come ha fatto per Napoli, anche per L’Aquila il premier non ha delegato nulla, ma è sceso in campo direttamente. L’impresa era ed è difficile. Il terremoto ha distrutto un’intera città e paesini appollaiati sulla montagna. Quello che colpisce è stata la chiarezza del comando. Penso solo alla scelta di aver bloccato l’autostrada per impedire l’afflusso disordinato di persone che avrebbero ostacolato il flusso dei soccorsi. Penso alla notte fra lunedì e martedì quando, raccontano le agenzie di stampa, grazie alla presenza dello Stato non un solo atto di sciacallaggio è stato compiuto ai danni della popolazione indifesa.
Lo Stato presenta all’Aquila ha mostrato tutti i suoi volti. È stato amichevole verso chi ha perso tutto, ha cercato d’impedire che si diffondesse il panico, ha mobilitato risorse e le ha coordinate, è stato severo verso i malintenzionati. Il volto dell’Italia che viene fuori dai primi giorni post-terremoto è quello di un Paese ferito ma non piegato. C’è anche l’immagine di un Paese orgoglioso. Il rifiuto degli aiuti stranieri reso possibile dalla nostra capacità di fronteggiare la crisi sicuramente accrescerà il prestigio dell’Italia. All’emergenza pensiamo noi, aiutateci nella ricostruzione investendo su di noi. Questo è stato il messaggio forte che in queste ore l’Italia sta dando a tanti governi, a cominciare da quello americano, che generosamente si sono offerti di inviare denaro e medicinali.
Diciamo la verità: la reazione dello Stato questa volta è sembrata sorprendente. Eravamo abituati a popolazioni abbandonate a se stesse, a sindaci costretti a implorare interventi immediati, alla confusione di interventi senza coordinamento. Si dice: nei momenti eccezionali l’Italia mostra il meglio di sé. Questa volta è stato il governo a mostrare il meglio di sé. Non ho alcuna reticenza a scrivere che tutto questo è merito di Silvio Berlusconi. Si era appena spenta la ridicola «querelle» su inesistenti gaffe internazionali che il premier ha mostrato una capacità di intervento nella crisi che non ha eguali nel passato. Ha fatto bene Franceschini a proporre la mano tesa. Ha fatto bene anche perché poche ore prima il leader Pd e il suo staff si erano prodotti in una nuova manifestazione di antiberlusconismo di maniera che lasciava temere il peggio.
Berlusconi ha mostrato in queste ore capacità di leadership generali. Dopo il successo di Napoli, l’intervento su L’Aquila e le zone terremotate accresceranno il suo indice di popolarità. È un bene solo per lui e per la sua parte? No, da uomo di sinistra penso che sia un bene per tutti. Abbiamo bisogno di voltare pagina, di chiudere quindici anni di «guerra civile parlata» che hanno logorato il Paese. Ora si può entrare in un’altra fase. L’Italia ha un capo di governo che dà garanzie di guida, che ha una propria visione del mondo, che sa parlare e sa fare. Chi è contrario lo dica, chi ha un’altra proposta la faccia. Ma è ora di farla finita con le vecchie demonizzazioni. Berlusconi ha rimesso in moto lo Stato due volte: a Napoli e ora in Abruzzo. Questo si chiede a un uomo politico di governo e questo è accaduto.
So che scrivendo queste cose attirerò sulla mia testa gli improperi e gli insulti di tanti miei compagni di schieramento. Un tempo si diceva che la verità è rivoluzionaria. Ne sono convinto tuttora. Riconoscere al «principale esponente dello schieramento a noi avverso» di aver dato una prova di capacità di governo è il minimo che si può fare oggi. Non bisogna aver paura di criticare il governo, ma neppure di apprezzarlo quando lo merita. (il Giornale)

martedì 7 aprile 2009

Cilecca Cgil. Davide Giacalone

Il raduno romano della Cgil ha fatto cilecca. Non certo per una questione di partecipazione. Anzi, sulla contabilità dico subito e passo oltre: le piazze italiane sono diventate come i vasi di fagioli della Carrà, con una capienza immaginaria. Taluni sfidano la fisica dei solidi, i più direttamente il ridicolo. Le spara grosse la Cgil (2 milioni e 700 mila sono gli abitanti di Roma, non i manifestanti, distribuiti su 1.285 chilometri quadrati, non concentrati al Circo Massimo), ma le sparano colorate tutti quelli che organizzano le trasferte di truppe sfilanti. Erano tanti. Punto.
Il guaio è che erano tanti, organizzati dal centro, ma ascoltando Epifani non hanno colto lo scopo del viaggio. Giornata di sole e gita a parte. Il capo di un altro sindacato, Raffaele Bonanni, della Cisl, ha detto che gli scopi dell’adunanza non erano sindacali. Epifani gli ha risposto che non c’è “nulla di più sindacale che chiedere un tavolo di confronto”. Su questo ha ragione, è proprio sindacalese allo stato puro, difatti non significa un accidente. Ha sborsato i soldi, grazie alle banche finanziatrici, ha scomodato tutta quella gente, ha massacrato il sabato dei romani, solo per farsi ricevere a Palazzo Chigi e poggiare i gomiti su un tavolo? Ma dategli una stanza! No, osserva Epifani, il fatto è che adesso “faremo pesare” la manifestazione. E’ già pesata, ma per il futuro non si faccia illusioni, è già dimenticata. Per due ragioni.
La prima è di ordine sindacale, visto che la Cgil ha preferito il protagonismo solitario, anche per ricucire le divisioni interne, le altre confederazioni preferiranno che continui a coltivare l’isolamento, mentre loro trattano. Visto che non c’è un solo sindacalista di vertice che non sia passato alla politica, che nessuno è tornato (tornato? vabbe’) a lavorare, è normale che ciascuno si regoli secondo convenienza politica. Il guaio dei sindacati, però, non è il non avere piattaforme comuni, bensì il difettare di lavoratori iscritti. Rappresentano una minoranza dei lavoratori, più che altro nel settore pubblico, ed i tesserati sono in maggioranza pensionati. Sapete quanto gliene importa, agli altri sindacati, che la Cgil abbia scarrozzato una piazzata di gente? Appunto.
La seconda ragione d’insuccesso è che, come i suoi predecessori e come i sui successori (accetto scommesse), Epifani sbarcherà, se non si spappola, nel partitone della sinistra. Quindi convoca la manifestazione, come a dicembre convocò lo sciopero generale, per far la conta di chi c’è e chi manca e per far vedere chi ha ancora quattrini da spendere e gente da mobilitare. Questa volta, però, lo hanno gabbato, perché ci sono andati tutti. Giulivi, indossando i soliti costosi casual da marcia, dichiarando adesione. Zero a zero e palla al centro.E veniamo alla sostanza, tanto si fa presto. Chiedono “una verifica attenta degli ammortizzatori sociali”. Formula gemella e significativa tanto quanto la richiesta del tavolo. In pratica chiedono più soldi per finanziare la cassa integrazione ed evitare i licenziamenti. Non dicono chi debba metterceli, ma questo è un dettaglio: la controriforma pensionistica la misero in conto ai precari. Resta sbagliato l’obiettivo. Quegli “ammortizzatori” sono, in realtà, degli incollatori, utili a non cambiare nulla e costituiscono una gran fregatura per i giovani. Epifani la spunterà, su questo, perché avrà dalla sua il governo, che preferisce evitare tensioni, la Confindustria, che detesta i fallimenti e contiene l’impresa assistita, gli altri sindacati, intenti ad amministrare il loro potere contrattuale. Quello che li regge non è la forza delle manifestazioni, che sono l’inutile esercizio di un diritto, ma quella della conservazione e della stagnante continuazione nel sempre uguale. La crisi poteva essere l’occasione per rompere e cambiare. Questo avrebbe dovuto chiedere un vero sindacato, rappresentativo degli interessi dei lavoratori. La burocrazia conservatrice, invece, chiede un tavolo. Per dare un senso alla poltrona.

sabato 4 aprile 2009

Se il razzismo è politicamente corretto. Maria Giovanna Maglie

Ma quanti armoniosi minuetti, quali sofisticati distinguo, che sfoggi di fantasia letteraria, abbiamo letto ieri sui quotidiani italiani di solito scatenati e furiosi come Erinni quando un minimo rischio di comportamento o anche solo intenzione razzista sfiora il Bel Paese. Stavolta no, stavolta la mascalzonata l’hanno fatta i compagni, una bella giunta di centro sinistra e un sindaco eletto nelle liste del Partito Democratico, Orazio Ciliberti, a Foggia; stavolta non è successo nel bieco nord leghista, in specie nell’infame triangolo nordestino dove vivono e affamano amministratori come Tosi e Gentilini, ma nel sud, nella Puglia di Nichi Vendola, che in ritardo e flebilmente si dissocia. Allora sui giornali partono le esercitazioni di fioretto, le situazioni si fanno ingestibili, gli immigrati sono troppi, soprattutto «non è razzismo», perché «si fa presto a dire razzismo», per dirla con il manifesto. Il tutto, invece del consueto titolone di prima pagina grondante sangue e ritorno al fascismo, è stato ben occultato nelle cronache e con trucco di impaginazione avanzata.
Il fatto. Da lunedì viaggeranno separati - gli immigrati su un pullman, i residenti su un altro - sulla linea 24 dell’Ataf, l’azienda di trasporti locale, che da Borgo Mezzanone porta a Foggia. «Nessuna segregazione», ha detto il sindaco Ciliberti. Nessuno infatti, stando alle spiegazioni ufficiali, impedirà al migliaio d’immigrati del centro di accoglienza «Cara» di Borgo Mezzanone di salire sullo stesso autobus dei cittadini della borgata. Solo che non ne avranno più bisogno. È stata creata una linea «dedicata» ai rifugiati che li trasporterà dal centro d’accoglienza al centro della città e ritorno. Gli abitanti del borgo invece potranno viaggiare su un’altra linea, sempre per lo stesso tragitto, ma partendo da un luogo diverso. Ancora Ciliberti precisa che si tratta di una decisione presa per ragioni di sicurezza, una misura di prevenzione, studiata d’intesa con la prefettura, per eliminare gli attriti tra la popolazione e gli immigrati. Perciò da lunedì la linea 24 diventa anche 24/1.Il centro d’accoglienza, realizzato per ospitare cinquecento persone, è arrivato un mese fa ad accoglierne milleduecento, e in questi giorni è a quota ottocento. Sono clandestini che dopo lo sbarco in Italia hanno chiesto lo status di rifugiati politici, e sono in attesa di una risposta. A quanto pare il comportamento pubblico non era dei più decorosi, al capolinea volavano schiaffoni, gli autisti sono stati malmenati, di pagare il biglietto non se ne parlava, le vetture arrivavano a fine corsa cariche di rifiuti e residui sgradevoli. Dopo numerosi interventi della forza pubblica, chiamata a presidiare il capolinea della tremenda linea 24, è stata presa la decisione di raddoppiare per separare, al costo di 120mila euro l’anno.
La morale, ammesso che ce ne sia una, e che ci consoli. Se gli immigrati in attesa di status di rifugiati sono così numerosi, a Foggia come in altre città, evidentemente non siamo così intransigenti e chiusi al mondo, come volentieri invece veniamo dipinti, noi italiani e il governo attuale. Piuttosto siamo generosi e accoglienti, e se ci vuole qualche tempo per vagliare il diritto allo stato di rifugiato, è perché un minimo di rigore e di verifiche sono la garanzia che non ci mettiamo dei delinquenti o dei millantatori in casa, considerazione che dovrebbe rassicurare tutti. Invece no, perché sempre per citarne uno solo, il manifesto, è pur vero che «il messaggio che passa è di separazione fra italiani e immigrati», ma è sacrosanto che «va sempre a finire così quando si costruiscono situazioni ingestibili». Capito? Ascoltate la descrizione, che è da manuale del politically correct, servito un tanto al chilo. «Esasperazione terreno fertile per il razzismo: gli abitanti del borgo che protestano, e che cominciano a lamentarsi anche per la sicurezza, se ci sono dei ragazzi del centro che si fermano al bar a bere una birra, o per l’igiene, perché hanno visto qualcuno urinare per la strada». I termini sicurezza e igiene sono rigorosamente virgolettati, ad evocarne la pretestuosità. È giusto, solo l’effetto nefasto che promana dal governo di Silvio Berlusconi può indurre gli abitanti del paese foggiano a non gradire che si vada al bar per provocare risse al momento del passaggio alla cassa, o che si dia libero e pubblico sfogo a impellenti necessità di minzione. Gli scontrini e i gabinetti sono un dovere richiesto agli italiani, ma sconveniente da esigere con gli immigrati. Che può fare a questo punto un povero sindaco sinceramente Democratico? Può, anzi deve, prendere una decisione che appare di separazione, che odora di razzismo, ma che è invece dettata dal bisogno e dalle responsabilità altrui.
Sia chiaro, la misura non desta in me il minimo scandalo, non mi viene in mente il Sudafrica, l’apartheid, o sciocchezze del genere. Immagino che si sia fatta la scelta meno dolorosa per la popolazione, già provata dalla convivenza forzata, anche se controversa. Quel che non va bene, anzi va malissimo, è l’esercizio dell’antirazzismo eroico e del mito dell’accoglienza a tutti i costi solo quando serve a fare propaganda politica e a disorientare l’opinione pubblica. Da oggi sappiamo che esistono sempre eccezioni, la doppia morale e il doppio peso, vizi capitali della sinistra italiana e dei suoi giornalisti, funzionano anche per l’immigrato. (il Giornale)

mercoledì 1 aprile 2009

Avanti! alla riscossione. Davide Giacalone

Gas, luce e colf. Tre modi per mettere le mani nelle tasche delle famiglie, per prendere troppo e male, facendo anche fare la figura dei delinquenti alle persone per bene. Tre esempi d’ipocrisia e mancate riforme, che rendono difficile la vita di cittadini ed imprese. Su luce e gas la notizia dovrebbe essere positiva: oggi ribassano le tariffe. Peccato che sia una mezza presa in giro.
I prezzi del gas e dell’energia elettrica hanno seguito, con scostamenti vari e non decisivi, quello del petrolio. Il greggio ha ripreso a crescere nel 2004, raggiungendo vette impetuose nel 2007-2008. Le nostre bollette hanno seguito l’andazzo, adeguandosi progressivamente (e dolorosamente). Già nel corso della seconda metà dell’anno scorso il prezzo del petrolio, però, non è diminuito, è crollato, riducendosi ad un quarto di quello di partenza. Le nostre bollette, invece, hanno continuato ad essere sempre più care nel corso del 2008, anche nella seconda metà, mentre oggi diminuiscono di circa l’8% per l’energia ed il 7% per il gas. Sommate due cose: la sproporzione fra la crescita di ieri e la diminuzione di oggi, specie in riferimento al prezzo della materia prima, più il ritardo nell’adeguamento al (minimo) ribasso. Risultato: ci stanno pelando. Dopo di che i gestori di società statali e municipali ci diranno quanto sono bravi e si pavoneggeranno degli splendidi bilanci.
La tariffa, non dimentichiamolo, è composta in modo tale che la parte del leone la fa il fisco. Quindi, a tutelare il consumatore dovrebbero essere autorità che rappresentano uno Stato intento a guadagnare dalle alte tariffe. Non aggiungo altro.
Anche per le colf, la notizia dovrebbe essere positiva: l’Inps dichiara guerra agli evasori. Ma, e ci risiamo, ci rimetteranno le famiglie e non ci guadagneranno i lavoratori. Le cifre dell’Inps sono consapevolmente fasulle: a loro risultano 562mila lavoratori domestici. Le più numerose sono le lavoratrici italiane, seguono le rumene, le ucraine e via andando. Ci credono talmente poco anche loro, che sono in partenza 700mila lettere di richiamo. Più dei lavoratori.La realtà è che di italiane ce ne sono pochissime, mentre si tratta di lavori massicciamente affidati agli immigrati. Spesso in evasione, totale o parziale, perché al lavoratore interessano i soldi, per poi tornare a casa, ed alla famiglia pagare il meno possibile. I loro interessi convergono, quelli dell’Inps no. Il mercato reale ha reso possibile, anche per il ceto medio, il ricorso agli aiuti domestici, che siano per badanti (dato che non ci sono strutture per anziani), per bambinaie (dato che, dopo una certa ora, mancano anche per i bambini), o per le pulizie (dato che si cerca di lavorare in due). Le lettere dell’Inps sono una tassa su questi bisogni familiari, destinata a finanziare un sistema pensionistico che si ostinano a non riformare, pur essendo in strutturale squilibrio.
Formalmente è tutto a posto, tanto per il gas, che per l’energia elettrica, che per i collaboratori domestici. Nella sostanza, però, ci tocca pagare l’incapacità di cambiare, continuando ad avere l’energia più cara d’Europa, ed a considerare le famiglie come fossero aziende. Prendiamo una famiglia borghese e la trattiamo come una sfruttatrice latifondista: sciur padrun da li beli braghi bianchi …. Devono sentirsi in colpa e tirare fuori “li palanchi”, perché, che cavolo, mica è normale avere l’aria condizionata e la cameriera! Che paghino, il prezzo dell’ipocrisia nazionale. Con quei soldi dobbiamo mantenere le rendite di posizione, gli ostacoli alla competitività, l’arretratezza del mercato del lavoro e tante belle postazioni, assegnate per nomina politica. Avanti, oh popolo, alla riscossione.