mercoledì 3 dicembre 2014

Il M5S si avvia ad uscire di scena. Gianni Pardo

 
 
 
 
 
Il pessimismo riguardo al successo e alla sopravvivenza del M5S è stato di rigore anche nel momento del trionfo alle elezioni politiche. Gridarlo sui tetti sarebbe stato tuttavia sconsigliabile, perché in palese contraddizione con gli umori dell'elettorato, tanto da apparire una negazione della realtà. Attualmente invece quella formazione politica mostra vistose crepe e dunque, se non si arrischia qualche timida previsione ora, si potrà poi apparire profeti del passato.
 
Ciò che rende vitale e longevo un partito è una bandiera leggibile.
 
La Democrazia Cristiana ha prosperato per mezzo secolo solo perché sentita come anticomunista. Molta gente ne era disgustata, sapendo quanto poco cristiana e quanto poco anticomunista fosse, ma lungo i decenni milioni di italiani hanno continuato a "turarsi il naso e votare Dc". Né diversamente andavano le cose per il Pci: essendo il vessillifero del marxismo, ha proposto un diverso modello di produzione e di società. Un modello fallimentare, ma tanto è forte il richiamo di una speranza e perfino di un'illusione. Anche la rozza Lega Nord si è data un'immagine riconoscibile, costituita da un paio di idee correnti nei bar, come l'uscita dall'euro, la stanchezza di svenarsi per il Sud, l'insofferenza per gli immigranti illegali: dei programmi populistici, se si vuole, ma non un semplice rifiuto dell'esistente. E per questo ha successo.
 
Il M5S è partito perdente perché la sua bandiera contiene un monosillabo: "No". E col "no" non si va da nessuna parte. Negare tutto, disprezzare tutto, voler distruggere tutto è un moto di malumore, non un programma politico. E se un giorno, spinti dall'insofferenza, si può votare per chi grida "vaffanculo", presto si vede che l'invettiva in sé è una parola vuota. La caratteristica del movimento lanciato da Beppe Grillo è la più totale assenza di programmi, mitigata dalla presenza di alcuni progetti economicamente assurdi, come il reddito di cittadinanza.
 
La posizione di voluta estraneità alla comunità politica è stata inoltre premessa di insuccesso assicurato: infatti, se il M5S si fosse associato con l'implorante Pd di Pierluigi Bersani, si sarebbe compromesso col sistema. Non avrebbe più potuto dire semplicemente "no", avrebbe dovuto dire dei "sì", e si sa che i "sì" spesso producono fatalmente l'opposizione di chi avrebbe voluto qualcos'altro. Se viceversa non si fosse associato con nessuno, sarebbe rimasto fedele al suo schema di partenza, ma sarebbe diventato folcloristico e irrilevante. Come di fatto è divenuto.
 
Di tutto ciò s'è reso conto lo stesso Grillo, quando ha vagheggiato di ottenere il 51% dei voti, per governare da solo e cambiare l'Italia nella direzione (quale?) da lui voluta. Ma questa affermazione è velleitaria. Forse ha potuto servire da alibi per la raggiunta irrilevanza, ma ignora volutamente che gli elettori sono tutt'altro che disposti a votare coralmente per un solo partito, soprattutto senza neanche sapere quali programmi concreti poi applicherebbe. E giustamente ne diffidano. A queste insuperabili aporie si aggiungono le gaffe, le espulsioni, le beghe miserelle. Tutta una serie di fatti che, giorno dopo giorno, hanno mostrato i "grillini" come dei rumorosi rompiscatole senza importanza. Non è facendosi espellere dall'aula che si guida la nazione.
 
Il Movimento è nato morto. Mancando di spina dorsale, la facile previsione era che si sarebbe a poco a poco sgonfiato. Alle elezioni europee si è avuta la prima riprova di quanto s'è detto. Il centro-destra, proprio in quei giorni, sembrava anemico e difficilmente guaribile, e dunque la paura di un autentico e ancor maggiore successo del M5S ha spinto moltissimi a votare per il partito che sicuramente sarebbe stato - per consistenza - in grado di sbarrargli la strada: il Pd. In questo senso l'interpretazione che Renzi ha sempre dato del suo famoso "quaranta per cento" è discutibile. La Democrazia Cristiana è vissuta per mezzo secolo del pericolo comunista e, caduto il Muro di Berlino, è caduta anch'essa. Nello stesso modo, il successo di Renzi non si ripeterà, quando il pericolo grillino sarà passato di moda. Ché anzi, il quasi venti per cento raggiunto dal Movimento in occasione delle europee è stato l'ultimo miracolo. Oggi, prevedibilmente, la tendenza delle percentuali dovrebbe continuare a subire molto l'influenza della forza di gravità. Le stesse ultime espulsioni somigliano al delirio di onnipotenza di chi, mentre la nave affonda, crede di poter dare ordini alla tempesta.
 
Naturalmente, tutte queste argomentazioni valgono quello che valgono. Il futuro è sempre imprevedibile e quello che s'è detto potrebbe benissimo essere smentito dai fatti. Se avverrà, lo si riconoscerà umilmente.
 
Gianni Pardo
 
 
 

martedì 25 novembre 2014

Orgoglio & pregiudizio. Davide Giacalone


Dal Ministero dell’economia hanno fatto benissimo a non lasciar correre, usando anche Twitter per ricordare quali sono i punti di forza dell’Italia. Siccome, però, sono le cose che qui scriviamo da anni, senza (noi) cambiare opinione a seconda del colore dei governi, conosciamo anche il retro di ciascuna medaglia. Dal Ministero hanno lanciato l’ashtag #prideandprejudice. Vediamone i sei punti.

1. L’avanzo primario italiano, dicono dal governo, è fra i più alti e stabili del mondo. Nel 2013 secondo solo a quello della Germania. Se è per questo, aggiungo, è il più alto al mondo, se si considera il cumulo degli ultimi ventuno anni; c’è sempre stato, a eccezione di un leggero scivolare nel 2009; e, se calcolato su base annua, abbiamo fatto numeri che la Francia non s’è mai sognata. Non c’è dubbio: possiamo dar lezioni globali, in quanto a rigore finanziario produttivo di avanzi primari.

Però: mentre accumulavamo avanzi primari il debito pubblico cresceva, talché il bilancio statale si chiudeva regolarmente in deficit. Il deficit di oggi è il debito di domani, così siamo i campioni mondiali di avanzi & dissennatezza. Non è un caso, del resto, che nel corso della seconda Repubblica i governi, costantemente alternandosi fra destra e sinistra, si siano vantati e vicendevolmente rimproverati di tutto, ma non gli avanzi primari. Sarebbe stato imbarazzante dover dire che fine facevano: gettati nella fornace del costo del debito crescente.

2. Abbiamo tenuto il rapporto deficit/pil entro il 3%, così chiudendo la procedura d’infrazione che subivamo. Siamo fra i pochi a rispettare quel parametro. Verissimo. E ci costa dolore. Ma tale nostra virtù la dobbiamo agli avanzi primari di cui sopra, quindi a soldi che i cittadini versano per pagare il costo del debito. E la nostra tenuta del deficit la scontiamo con l’essere gli unici europei ancora in recessione.

Altri hanno potuto comportarsi diversamente, perché all’appuntamento con la crisi dei debiti sovrani non sono arrivati con un debito pubblico smisurato.

3. Negli anni della crisi il nostro debito pubblico è cresciuto meno di quello di altri europei (e non), sia in assoluto che in rapporto al pil. Vero, siamo stati i soli, fra i grandi, a far funzionare il freno a mano.

Ma l’altra faccia della medaglia è drammatica: il nostro debito è cresciuto perché spinto dal suo stesso costo, mentre il debito di tutti gli altri (tranne la Svezia, la sola ad aver fatto meglio di noi) è cresciuto per spese anticicliche. Il nostro debito cresce da solo, annientando la politica. Il debito tedesco o francese cresce per scelta politica. Non è una differenza da poco.

4. Il nostro debito pubblico è fra i più sostenibili, mentre il rischio connesso, sia nel breve che nel lungo periodo, è inferiore alla media europea. Non solo è vero, ma aggiungerei un dettaglio: noi e i tedeschi, dal punto di vista statale, siamo coetanei, solo che noi i nostri debiti li abbiamo sempre pagati, mentre loro, per due volte, li lasciarono insoluti. Quelli affidabili siamo noi.

La sostenibilità, però, è anche il frutto di un patrimonio privato enorme e di un indebitamento privato minuscolo (rispetto agli altri), cui si aggiunge l’accondiscendenza a farsi tassare per pagare il costo del debito. Peccato che questo sia l’inferno del socialismo fiscale. Se il debito non lo si abbatte, e se non si vuol perdere l’affidabilità, si corre verso la patrimoniale (ulteriore, perché già ne paghiamo diverse). Quindi: piano con l’orgoglio e in alto il pregiudizio, perché quello è il modo per autoevirarsi.

5. Siamo terzi per contributi versati ai paesi europei in crisi. E’ così. Ma questo è un punto molto delicato: perché fummo costretti a versare soldi che, aiutando i greci, servirono a salvare le banche tedesche e francesi che se ne erano rimpinzate? Siamo terzi per la semplice ragione che si paga in percentuale sul pil, e il nostro è il terzo pil. Perché, dovendosi salvare le banche, non si è pagato in rapporto all’esposizione delle proprie? Ci sarebbe costato meno e avremmo fatto rimarcare che le nostre sono state meno ciniche e incapaci di quelle altrui.

Forse questo punto avrebbero fatto meglio a non metterlo, perché dietro c’è una storia ancora non raccontata. O forse non lo sanno. O forse pensano che gli altri siano tutti analfabeti fessi.

6. Infine: le nostre banche hanno ricevuto aiuti statali infinitamente inferiori a quelli che si sono visti altrove. Germania, Regno Unito e Francia in testa. Vero, ma va aggiunto quanto appena detto: abbiamo aiutato più le banche altrui che le nostre.

Però, quando si sono fatti i test sulle banche le nostre si sono rivelate fra le meno capitalizzate. Ed è vero che le abbiamo aiutate poco, ma pure che fanno sempre meno le banche e sempre più le casse di riscossione. Il sistema delle fondazioni bancarie è al capolinea, mentre in Germania Stato e Lander sono soci delle banche.

Per i nostri lettori sono cose non nuove. Direi vecchie. Il fatto è che se i punti di forza non sei capace di farli valere, anche sfruttando le debolezze altrui (che ci sono, eccome), mentre quelli di debolezza te li fai rinfacciare notte e dì, con il di più delle polemiche interne, va a finire che di pregiudizi ne subisci tanti e con l’orgoglio ci fai poco.

Pubblicato da Libero

martedì 23 settembre 2014

Giustizia Carogna. Davide Giacalone


Se il cittadino Gennaro De Tommaso, meglio noto alle cronache come “Genny ‘a carogna”, fosse stato arrestato il 3 maggio scorso, quando scavalcò il reticolato che divide il pubblico di uno stadio di calcio dal campo di gioco, sfoggiando una maglietta in cui s’inneggiava a chi aveva ammazzato un poliziotto, trattando con le autorità sportive la possibilità di far iniziare, o meno, la partita, dopo che dei tifosi s’erano accoltellati e sparati a vicenda, il tutto sotto gli occhi dei rappresentanti del governo e delle istituzioni, se, dicevo, lo avessero arrestato in quel momento, anziché considerarlo interlocutore di una trattativa, avrei scritto: che lo processino subito, che si difenda secondo i suoi inviolabili diritti e, se condannato, che sia assicurato alle patrie galere. Genny, invece, divenne una star. Ove mai qualche tifoso non avesse ancora capito il suo ruolo di capo e caporione, a quel punto il dubbio gli sarebbe passato. Lo arrestano adesso, invece. Sicché non so chi me lo fa fare, ma ho il dovere di osservare che questo è un ulteriore sfregio al diritto.

Le prove non le può inquinare. Intanto perché sono in gran parte filmate, poi perché se avesse voluto intimidire qualche testimone avrebbe già provveduto. Che scappi all’estero non è fra le cose imminenti. E anche questo, del resto, se lo avesse voluto fare, lo avrebbe già fatto. Reiterare il reato gli risulta difficile, perché s’è beccato un Daspo di 5 anni. Si dirà: ma può sempre incitare gli altri tifosi alla violenza. Certo, così ragionando però, in galera andiamoci tutti, perché è sempre possibile che ciascuno sia preso dalla voglia di scuoiare quello che continua a ciucciare la caramella, standoti accanto, che si cada nella tentazione di rubare, che si coltivi un pensiero lascivo su questa o quel passante.

Da maggio a settembre, con quel genere di prove, con quel tipo di condotta, si dovrebbe già essere a processo. Concluso. Le accuse sono evidenti. I precedenti penali si raccolgono in pochi minuti. Gli si da il tempo di trovarsi un avvocato e si va davanti a un giudice. E questo non è un film, ma, per reati di questo tipo, il minimo che si dovrebbe pretendere. Ma da noi no. Da noi partono le indagini, dopo cinque mesi si scopre che il soggetto potrebbe anche essere pericoloso, si applica la misura cautelare, così che chi in galera è probabile ci debba stare per scontare ce lo si sbatte da innocente. Un capolavoro. Qualcuno osserverà, rivolgendosi a chi qui scrive: faccia poco il sofistico e la smetta con questo garantismo assai mal riposto. Già, chi me lo fa fare? Me lo fa fare il fatto che il diritto si difende proprio con gli indifendibili, perché con gli innocenti e con le vergini è piuttosto banale lanciarsi nell’esercizio. E sarà pur vero che ‘a carogna potrebbe meritare una carognata, ma sono io a non meritarmi l’incarognimento di una giustizia fuori tempo e capace di capovolgere l’ordine naturale delle cose, talché la prigione precede e non segue il processo, facendo da companatico all’indagine.

Pubblicato da Libero


venerdì 12 settembre 2014

Ci sarebbe l'Emilia rossa da rottamare... Fabrizio Rondolino


L'Intraprendente - Il problema di Matteo Renzi in Emilia Romagna non è la magistratura, ma il Pci. E il modo in cui si concluderà la partita delle primarie aiuterà a misurare il tasso di rinnovamento e quello di continuità in una regione d’Italia amministrata ininterrottamente da settant’anni dal Partito comunista e dai suoi eredi diretti. È caduta Livorno, è caduta Perugia, e quando Berlusconi ancora faceva politica cadde persino Bologna: ora è bene che cada l’Emilia rossa.

In un Paese normale, il compito di garantire il ricambio della classe dirigente spetterebbe all’opposizione. E il centrodestra, sulla carta, avrebbe molti buoni motivi per provare a fare dell’Emilia la base di partenza della propria ricostituzione: basterebbe che capi e capetti facessero un passo indietro, e che si scegliesse (con le primarie) un candidato capace di rappresentare la voglia di discontinuità e di aria fresca che attraversa tanta parte della società emiliana. Ma siccome (e purtroppo per la democrazia italiana) non sarà così, il compito del ricambio spetta anche in questo caso a Matteo Renzi. Il partito emiliano sta da sempre con il segretario: e quando il vecchio segretario non c’è più, ordinatamente si allinea dietro a quello nuovo. È sufficiente ricordare i risultati delle primarie: nel 2012 Bersani ottiene il 60,8% e Renzi si ferma al 39,2%; l’anno successivo Renzi incassa il 71,03%. È per questo motivo che praticamente tutti i candidati – ancora in gara e già ritirati, probabili e improbabili – sono convintamente “renziani”. Salvo eccezioni marginali, in Emilia tutti i gruppi dirigenti e gli apparati, i gruppi consiliari, gli amministratori locali, i cooperatori e i sindacalisti sono diventati renziani – dopo esser stati bersaniani, veltroniani, fassiniani, dalemiani, occhettiani, nattiani, berlingueriani, longhiani e togliattiani. È il Pci che dalla fine della guerra, e senza altri cambiamenti che non siano l’insegna della Ditta, amministra, governa e controlla l’Emilia Romagna. Non è qui in discussione il “modello emiliano”, che nel panorama nazionale può ben dirsi orgoglioso dei risultati raggiunti: ricchezza e benessere, un welfare efficiente, pochi conflitti e corruzione al minimo. È in discussione, invece, il principio della permanenza incontrastata e incondizionata al potere di una stessa classe dirigente. E poiché la rottamazione è precisamente il rovesciamento di questo principio, ci si aspetta da Renzi che a guidare l’Emilia Romagna vada non l’ennesimo post-comunista, ma una donna o un uomo espressione di una cultura politica diversa, nuova, lontana e alternativa.

Esistono anche in Emilia molti trentenni che hanno incontrato la politica per la prima volta nel Pd, che non vengono da una famiglia comunista, che apprezzano il modello emiliano ma non ne sopportano più le incrostazioni, i limiti culturali, la chiusura continuista. Ed esistono emiliani adulti che non sono mai stati nel Pci, che anzi lo hanno politicamente avversato, e che oggi provano delusione nel vedere alla guida del Pd gli stessi di prima. Cambiare fa bene a tutti, e farà bene a Renzi non fermare la rottamazione ai confini emiliani.

(LSBlog)

 

mercoledì 3 settembre 2014

Il tramonto della fretta. Antonio Polito


Corriere della Sera - Il sogno di Filippo Turati era di cambiare la società come la neve trasforma un paesaggio: fiocco dopo fiocco. Il passo dopo passo di Matteo Renzi sembra dunque segnare la conversione del giovane leader «rivoluzionario» alla tradizione dei padri del riformismo: un’azione profonda e duratura, invece di una concitazione di hashtag su #lasvoltabuona.
Si tratta di una scelta saggia, oltre che obbligata. Saggia perché ristruttura il debito di promesse contratto con l’elettorato concedendosi più tempo per realizzarle, e insieme garantisce lunga vita ai parlamentari chiamati a votarle. Obbligata perché neanche Renzi sembra aver ancora trovato la bacchetta magica per cambiare i ritmi di produzione legislativa di un sistema lento, e non sempre per colpa del Senato.

Un solo esempio: ieri pomeriggio non risultava pervenuto al Quirinale il testo del decreto legge sulla giustizia civile approvato al Consiglio dei ministri di venerdì 29 agosto. Se pure arrivasse oggi, 3 settembre, c’è da calcolare almeno un’altra settimana per la normale attività di verifica prima della firma del capo dello Stato. Eppure si tratta di materia così urgente da finire in un decreto. Figurarsi che accade ai disegni di legge, o ai decreti attuativi. Di questo passo, passo dopo passo, i mille giorni passano in fretta.

Ma se è logico e serio prendersi qualche anno per portare a regime le decisioni assunte oggi, ne consegue che sarebbe molto pericoloso rinviare decisioni che vanno prese oggi, perché in questo caso i mille giorni diventerebbero millecinquecento, o duemila, e né l’Italia né il governo Renzi sembrano avere a disposizione tutto questo tempo. Il rischio, che al premier certo non sfugge, è che questa nuova tattica «normalizzi» un governo nato col forcipe proprio per fare in fretta ciò che ad altri non riusciva, con ciò togliendogli senso e consenso.

In due campi in particolare le decisioni non possono aspettare: la spending review e il mercato del lavoro. Qui sarebbe sbagliato prender tempo, sperando come al solito in una provvidenziale ripresina che eviti scelte impopolari. Se si vuole tagliare sul serio la spesa pubblica, bisogna cominciare a decidere subito se accorpare le forze di polizia, chiudere gli uffici periferici dei ministeri, tagliare le prefetture, sciogliere le società municipali, e così via. Se non lo si fa subito, per poi vederne gli effetti nei prossimi mille giorni, si finirà con i soliti tagli lineari in Finanziaria. Da questo punto di vista il governo è già in ritardo.

Allo stesso modo la legge delega sul lavoro, chiamata jobs act , non sembra contenere quello choc che Draghi avrebbe suggerito a Renzi per settembre; né arriverà a settembre, essendone prevista l’approvazione «entro la fine dell’anno» e l’applicazione entro la primavera del 2015 (dopo i decreti attuativi). La stessa svalutazione retorica dell’importanza dell’articolo 18 fa temere che si stia esitando di nuovo di fronte a un tabù della sinistra e del sindacato.

Chi fa oggi le riforme può contare su più flessibilità mentre producono i loro effetti: guardate la Spagna, ha un deficit del 7 per cento ma nessuno batte ciglio. Chi promette solo di farle, sarà trattato con più severità. Lo scambio proposto da Draghi in fondo è tutto qui: non premiare chi perde tempo, ma dare tempo a chi non ne perde più.

 

giovedì 7 agosto 2014

Il Paese soffocato. Nicola Porro



Ieri l'Istat ha certificato che l'Italia è ritornata in recessione: la sua ricchezza diminuisce. Negli ultimi tre anni non ci eravamo ancora accorti di esserne usciti.
 
Oggi gli economisti ci spiegheranno il perché. Non ascoltateli. La gran parte sono diventati come i becchini, ci spiegano, semmai, perché il paziente è deceduto a tragedia avvenuta. Bella forza.

Ci permettiamo di fare un elenco micro (economico) per far capire come mai le questioni macro (economiche) non girano per il verso giusto. Tutti si affannano a parlare di numeri (macro), ma il problema è di comportamenti. È del tutto evidente che il buon senso, pensando all'attuale premier, ci sia, ma che per paura del senso comune venga sconfitto. Andiamo per ordine.

Il Pil non cresce perché a quattro sindacalisti si permette di bloccare i bagagli dell'Alitalia, a un violinista e qualche suo socio si consente di fermare le rappresentazioni dell'opera di Roma e alla minoranza dei metalmeccanici è stato consentito di mettere in discussione in tribunale le decisioni di Marchionne sulla Fiat. Chiaro? Siamo un po' duri e antisindacali? E chissenefrega di questo senso comune. Il buonsenso dice che l'occupazione la creano le imprese e che la parte debole e da tutelare oggi siano loro.

Il Pil non cresce perché un guru della cultura italiana, Settis, scrive su Repubblica che è disgustato delle file al Louvre; perché un vicepresidente emerito della Corte costituzionale, Maddalena, scrive che i giovani che occupano il Teatro Valle sono dei volenterosi; perché invece di ringraziare uno come Della Valle che ha messo qualche milioncino per pulire il Colosseo lo abbiamo ostacolato in tutti i modi; perché il sindaco Marino ha trovato un paio di milioncini per la festa dell'orgoglio Rom e non un euro bucato per celebrare i 2000 anni del mausoleo di Augusto. Siamo un po' tranchant? Se aveste un albergo a Roma, pagando una supertassa di soggiorno, e dovendo difendere i vostri clienti dagli assalti alla stazione Termini, la pensereste come noi. Se vi fate un mazzo così e vi dicono che i vostri tavolini a piazza Navona sono illegali, e nel frattempo si dà spazio a bivacchi di evasori totali con borsette di marca ma false, be' allora il vostro spirito sarebbe simile al nostro.

Il Pil non cresce perché siamo riusciti a indagare Finmeccanica, una delle nostre poche industrie manifatturiere, e poi dopo qualche anno ci siamo accorti di aver esagerato. Abbiamo praticamente ucciso, senza ancora una sentenza che sia una, una delle più importanti industrie siderurgiche europee, come l'Ilva. Non trivelliamo l'Adriatico dove c'è un mare di petrolio e 15 miliardi di investimenti privati da fare, perché si rovinerebbe il panorama. La Regione Toscana ha di fatto messo per strada 20mila lavoratori delle cave di marmo, le stesse del monte Altissimo di Michelangelo, per fare un parco naturale. Un grande scultore come Giovanni Manganelli ha definito il nostro sfruttamento di quelle aree come un misero graffio su montagne impetuose. Un altro regalo ai nostri concorrenti.

Il Pil non cresce perché dobbiamo aderire all'embargo dell'unico Paese che ha una buona dose di miliardari che ci amano, come la Russia; perché abbiamo spernacchiato l'intesa con la Libia di Gheddafi subendo le prevaricazioni dei francesi e oggi facciamo fatica con i nostri interessi là, mentre siamo inondati da clandestini qui; perché al nostro ministero della Sanità si occupano del colore della pelle della fecondazione eterologa e non della peste suina in Sardegna che ci impedisce di esportare i nostri insaccati in ricchi mercati esteri. Il buonsenso direbbe che la nostra politica estera sia rivolta a fare business, noi pensiamo a utilizzarla per liberare un posticino all'interno del governo per procedere ad un possibile rimpasto.

La lista, incompleta, potrebbe durare molto. E chi attribuisce al solo premier Renzi la colpa della recessione, fa un gioco miope. Certo era meglio piazzare i dieci miliardi di sgravi fiscali alle imprese. Ma non sarebbe bastato comunque a raddrizzare il legno storto della nostra economia. Ha ragione il premier a perseguire con forza riforme istituzionali che spuntino i poteri delle regioni e rendano l'esecutivo più forte e il bicameralismo più debole. Ma la vera battaglia per riprendere a crescere è quella del buonsenso. È riprendere a credere che i quattrini e l'occupazione vengono fatti solo dalle imprese e che lo Stato deve fare di tutto per metterle nelle condizioni di competere al meglio. Meno tasse certo, ma è tutto il resto che oggi ci soffoca. Prima l'impresa e poi lo Stato, prima l'individuo e poi il burocrate e la sua norma.

(il Giornale)

 

lunedì 21 luglio 2014

Ruby, il cav assolto. Ma non ci stanno… Nicola Porro

Berlusconi è stato assolto dall’ipotesi di concussione perchè il fatto non sussiste e per l’ipotesi di prostituzione minorile perchè il fatto non costituisce reato. In primo grado si era beccato sette anni, uno più delle richieste della Bocassini.
Non stiamo qua a ricordare lo sputtanamento complessivo che il Cav ha dovuto subire e non stiamo qua a ribadire che chiunque venga sottoposto al trattamento Bocassini (intercettazioni, pedinamenti, origliate e supposizioni pruriginose) rischierenne di fare una pubblica figuaraccia. Pensate che goduria ascoltare certe telefonate dei moralizzatori. Ma lasciamo perdere il passato e ragioniamo sul presente.
Oggi assistiamo ad altrettanta malafede rispetto. Si dice che Berlusconi sia riuscito a farla franca solo grazie ad una legge ad personam (la cosidetta Severino) votata dal Pd e dall’allora Pdl durante il governo Monti, che ha modificato il reato di concussione. I campioni sono quelli del Fatto (all’interno stanno vincendo i trinariciuti di travaglio, purtroppo) e più modestamente La repubblica.
Si tratta di una balla colossale, ma a forza di dirla in giro con quell’aria di sapientini, qualcuno ci può credere. La realtà è che proprio coloro che accusano il Cav di essersi fatto una legge ad personam (per interposta persona e partito e cioè Monti) sono tra coloro che vogliono leggi contro il Cavaliere per farlo scomparirre dalla terra. Ma vediamo perchè si tratta di una colossale balla.
1. Semplice, le date non coincidono. La legge Severino è stata approvata nel 2012, mentre la condanna in primo grado del cavaliere è avvenuta nel 2013. Dunque ci verrebbe da chiedere ai fenomeni perchè i giudici di primo grado hanno inflitto sette anni al Cav, pur vigente la Severino? Se la Severino fosse stata così ad personam non può esserlo a scoppio ritardato. Coloro che giudicarono e indagarono Berlusconi nel 2012 sapevano benissimo della legge in vigore e dei suoi eventuali effetti.
2. Ma la legge l’avete letta. Grazie alla Severino oggi Silvio Berlusconi non è più senatore. Grazie alla medesima legge che i geni dicono che Berlusconi si sia fatto a sua immagine e somiglianza, oggi il Cav ha subito il rapido processo al Senato ed è stato sbattuto fuori. E per di più non vi potrà rientrare per un numero di anni superiore a quello che la sola sentenza di frode fiscale prevede. Senza Severino il Cav oggi sarebbe stato ancora al Senato.
3. Concediamo, ma per puro gioco retorico, che la Severino abbia cambiato la norma in corso di partita. Ma allora perchè in appello il procuratore generale ha continuato a chiedere la medesima condanna ricevuta dal Cav in primo grado? Il procuratore avrebbe potuto chiedere pena inferiore stante la mutata legislazione, più favorevole al concussore. Evidentemente sperava, il procuratore, che la medesima forzatura di primo grado, fosse accolta dai giudici di appello.
4. Il fatto non costituisce reato. Questa è la formula con cui è stato assolto Berlusconi. Insomma lo vogliono capire o no, questi zucconi che non ci vogliono stare, che il giudice d’appello ha banalmente ritenuto (come facevano le persone di buon senso) che la telefonata del Cav in questura non rappresentasse alcuna reato. Come gli stessi poliziotti hanno più volte testimoniato. E dunque l’assoluzione nasce dalla mancanza di reato e non dalla mancanza di una fattispecie penale che permettesse di colpire il Cav. Il giudice di appello avrebbe inoltre potuto derubricare il reato, se questo fosse stato il caso vista la nuova legge, e applicare sanzione più blanda (come in molti compreso Lillo del Fatto si attendevano). E invece non l’ha fatto poichè ha ritenuto che la concussione semplicemente non si configurava.
5.E la prostituzione? Ammesso e non concessa la legge ad personam (che come visto non esiste) che fine fa la condanna ad un anno per prostituzione minorile. Il giudice anche in questo caso ha dato un bel colpo di spugna sostenendo che il fatto non costituisce reato. Vederemo nelle motivazioni perchè. Ma su questa assolzuione tutti zitti. Eppure era il fondamento dello sputtanamento, anche internazionale, del Cav. Nulla. Il giudice ha assolto anche in questo caso. Perchè non è provata la dazione di danaro? perchè non è provato il rapporto sessuale? Perchè non è provato che il cav sapesse della minore età di Ruby? Ancora non lo sappiamo. ma conta relativamente. é stato assolto. I moralisti si rivolgano altrove. Qua parlaimo di condanne o assoluzioni.
6. Ha perso la Bocassini. La barzelletta più gustosa è avvenuta ieri sera quando Travaglio a Bersaglio Mobile di Mentana mi contestava ciò che è chiaro a tutti. Il protoPm diceva che a perdere, semmai, era stata la procura generale. E’ seguita lezioncina. Peccato che il protoPm si sia dimenticato di ricordare ai telespettatori di come il processo sia stato imbastito sulle indagini della Bocassini, non su quelle del mago Zurlì. E che in appello si è giocato sul medesimo campo di gioco. Nulla di nuovo è intervenuto. Il procuratore generale ha semmai dimostrato scarsa indipendenza di giudizio e di valutazione nei confronti della Bocassini. Ma la palla avvelenata da lì è stata tirata.
La verità è che non ci vogliono stare. Le sentenze non si discutono solo quando condannano i nemici politici.

(il Giornale)

giovedì 3 luglio 2014

Il peggior presidente Usa? Obama. Il migliore è Reagan. Giampaolo Rossi

Obama è il peggior presidente degli Stati Uniti dalla fine della Seconda Guerra mondiale ad oggi; lo dicono gli americani interpellati in una ricerca dell’università di Quinnipiac (Connecticut), specializzata in sondaggi; con buona pace dei cantori dell’obamismo ideologico, il primo presidente nero, Nobel per la pace sulla fiducia, speranza dei popoli oppressi, dei diseredati e dei radical chic di tutto il mondo, è ultimo nella classifica che attraversa 69 anni di storia americana e ben 12 presidenti.

Obama riesce persino ad essere più impopolare di George Bush, che nel 2006 guidava la classifica dei peggiori, e di Richard Nixon, il presidente travolto dallo scandalo Watergate; con la differenza che Bush e Nixon furono, durante i loro mandati, osteggiati violentemente da media e intellettuali mentre Obama ha sempre goduto di un atteggiamento di genuflessa adorazione da parte di coloro che creano opinione pubblica. Come a dire: non riesce a vincere nemmeno con gli arbitri a favore. Ma la cosa più sorprendente, quella che dovrebbe far saltare sulla sedia i guru della sinistra liberal, è che, secondo lo stesso sondaggio, il miglior presidente americano della storia recente è Ronald Reagan, che surclassa persino il mitico J.F. Kennedy ed Eisenhower, l’eroe della vittoria nella Seconda Guerra mondiale. Già nel 2006 Reagan guidava la classifica dei migliori, ma a otto anni di distanza il suo prestigio è aumentato dal 28 al 35%.

Il migliore dopo Ronald Reagan è considerato Bill Clinton (con la metà degli apprezzamenti), il presidente travolto dallo scandalo Lewinsky; a dimostrazione che alla gente, in fondo, le morbosità sessuali sui cui magistrati, giornalisti e moralisti costruiscono le loro carriere, interessano poco. Inoltre il dato spiega perché l’ipotesi della moglie Hillary prossima candidata alla Casa Bianca non sia del tutto campata in aria, potendo contare su un chiaro effetto popolarità del cognome. Su Obama il giudizio è netto anche se con qualche riserva: l’attuale inquilino della Casa Bianca, è considerato un politico onesto dal 48% degli americani, uno che cerca di occuparsi dei problemi della gente (51%), ma senza avere doti di leader (51%). In pratica, tanta buona volontà ma scarse capacità.

Fallimentare in economia (lo disapprova il 55%) e in politica estera (57%); fallimentare nel suo fiore all’occhiello, la sbandierata riforma sanitaria (Obamacare) osteggiata dal 58% degli americani. L’unico ambito su cui Obama viene “rimandato a settembre” è l’ambiente dove il 50% approva le sue politiche.

Ma ciò che inizia a preoccupare la Casa Bianca ed il Partito Democratico è che la maggiorparte degli americani (48% contro 35%) pensa che se nel 2012 avesse vinto il rivale di Obama, il conservatore Mitt Romney, l’America starebbe meglio.

Questo dato imbarazzante per Obama, conferma però un’opinione già diffusa: nel 2013, un sondaggio condotto dal Washington Post e da Abc, dimostrava che a un anno dalla sua rielezione, gli americani rimpiangevano di averlo votato e si pentivano di non aver votato Romney. In quel sondaggio, in appena 12 mesi, Obama aveva perduto forti consensi proprio tra i segmenti sociali che lo avevano fatto vincere: donne, giovani (18-39 anni), cittadini non laureati, redditi inferiori ai 50.000 dollari l’anno, atei ed elettori storici di sinistra (tra questi ultimi addirittura il 20% avrebbe rivotato per la destra).

Il rimpianto e il pentimento non sono categorie della politica ma condizionano le scelte future. Di questo sono preoccupati gli strateghi del Partito Democratico: il famoso “effetto Obama” con cui la sinistra americana ed europea pensava di cambiare la storia, ora rischia di essere il classico boomerang alle prossime presidenziali. Una lezione anche per quelli che in Italia oggi si credono imbattibili.

(il Giornale)

 

martedì 10 giugno 2014

L'autoinganno. Davide Giacalone


L’arte dell’inganno si sublima quando l’ingannatore finisce con l’ingannare sé stesso. Vedo un certo sconcerto per il giudizio di Standard & Poor’s, sulla base di due presupposti: a. le altre agenzie di rating avevano promosso l’Italia; b. i cambiamenti fatti sono rilevanti. E poi, di grazia, lo spread non è forse sceso? No. Non prendiamoci in giro da soli. Quindi, nell’ordine: 1. nessuna agenzia di rating ha segnalato miglioramenti relativi all’Italia, semmai Moody’ e Fitch hanno trasformato la loro previsione da negativa a stabile, che significa: resterete messi male; 2. i cambiamenti sono immaginifici, al momento, visto che il debito cresce, la spesa pubblica cresce e la pressione fiscale li segue, per servirli, il che depotenzia le speranze di ripresa; 3. lo spread scende perché mamma-Bce s’è arrabbiata con i discoli che ci menavano, ma quello spagnolo resta inferiore all’italiano, segno che la gang dei pestatori ci punta prima e più di altri, in attesa che mamma si distragga.

La verità è che un filo lega i giudizi delle agenzie alla vicenda del Mose, ed è lo stesso filo che ci passa attorno al collo: non cambia mai nulla; diciamo sempre le stesse cose; facciamo sempre lo stesso dibattito; presentiamo sempre le stesse ricette. Ma non facciamo un accidente. Dalla corruzione alla giustizia, dal debito alla spesa, sono anni e anni che ripetiamo quel che si dovrebbe fare, ma non lo facciamo. E’ questo che scatena le previsioni cupe, non altro. Se guardassimo con più attenzione dentro la nostra economia potremmo far pernacchie alle agenzie, ricordando loro quanto sono sguerce e in conflitto d’interessi. Ma se guardiamo l’insieme, e non solo chi lavora e continua a essere competitivo, lo spettacolo è desolante.

Dicono: ora c’è una nuova classe dirigente, sono giovani, hanno voglia, ce la possono fare. Magari! Mi preoccupano le somiglianze, però. Dire che la corruzione dipende dagli uomini e non dalle regole è un modo per pigliare l’applauso facile, ma il governo è lì non per la redenzione dell’umanità, bensì per dare regole e rispettarle. Annunciare commissari sempre più ultra-stra-megagalattici, dotati di poteri magici contro la corruzione, è illusorio. E autoillusorio. La sfida non è quella dell’eccezione, ma della normalità. La corruzione è prima di tutto inefficienza e impunità, non si va da nessuna parte se la giustizia non funziona. E’ vero che l’Italia non è stata condannata da Strasburgo e che sulle carceri l’abbiamo sfangata. Ma avete presente come? Liberando i condannati. Pensano che da questo derivi maggiore timore della pena?

Dicono: i giovani ora al governo sono innocenti. No, questo lo nego. Questo è l’inganno più pericoloso, perché tutto basato sul lato penale. I governanti di oggi si sbracciano nel dire che la riforma del titolo quinto della Costituzione è stata una schifezza, che s’è scassato lo Stato e si sono moltiplicate le spese. Bravi, è vero. Ma io lo scrivevo prima che il loro partito la facesse, quella riforma, mentre loro se ne stavano zitti e si facevano eleggere sindaci e assessori. No, non ci sono innocenti. Qui si tratta di spezzare il filo dell’immobilismo, e se vogliono riuscirci non possono farlo sperando di autonominarsi quali unici rappresentanti del bene. Perché quando un vento di follia consente di queste incarnazioni, segue un uragano di pazzia che spazza via tutto.

Quindi: lasciate perdere S&P, smettetela di trastullarvi con le rottamazioni, qui si deve far scendere il debito, la spesa e il fisco. Liberalizzare, rimpicciolire lo Stato, scrivere norme chiare e brevi, far sì che la giustizia sia amministrata dai tribunali e non dalle procure. E’ quello il terreno del cambiamento. Il resto è intrattenimento.

Pubblicato da Libero

venerdì 6 giugno 2014

Perugia e la favola
dei pasti gratis

di Claudio Romiti
06 giugno 2014

Come è noto, domenica prossima Perugia tornerà alle urne nel ballottaggio per scegliere il nuovo primo cittadino. In lizza il sindaco uscente Wladimiro Boccali e il giovane esponente di Forza Italia Andrea Romizi. Quest’ultimo è chiamato ad una impresa a dir poco proibitiva, conoscendo il radicamento storico del Pci/Pds/Ds/Pd nella Regione rossa per antonomasia. D’altro canto, anche nel capoluogo umbro l’influenza che esercita la politica ad ogni livello è tale che, oramai, il partito dominante è visto da molti cittadini come una sorta di rassicurante istituzione. Ed è per ciò che appare molto difficile ottenere un ricambio democratico degno di questo nome.

Quando si gestisce il consenso in modo capillare, affidandosi all’esperienza di un professionismo della politica collaudato in decenni di potere locale, gli interessi che si sono consolidati nel tempo costituiscono un enorme blocco di consenso quasi granitico. Blocco di consenso che, a volte, assume i connotati di vero e proprio voto di scambio legalizzato. Immaginiamo, infatti, che se una Amministrazione comunale volesse mettere in piedi uno dei tanti carrozzoni pubblici in cui si svolgono lavori inventati, assumendo un congruo numero di giovanotti/e di belle speranze, è assai probabile che guadagnerebbe l’eterna riconoscenza di questi ultimi, soprattutto se impiegati con contratti a tempo indeterminato.

Proprio sotto questo profilo giorni fa mi sono imbattuto in una struttura creata dal Comune di Perugia a dir poco surreale: il “Centro servizi giovani”. Una specie di luogo incantato, che da fuori sembra un asilo nido, in cui i giovani in cerca di occupazione o svago possono recarsi liberamente. Tant’è che proprio nel sito del Comune è spiegato che “il Centro servizi giovani vuole inoltre essere: uno spazio multimediale, strumento utile per conoscere il web, un luogo adibito a diverse attività come lo svolgimento di laboratori culturali ed un luogo di costruzione di progetti, pensati per i giovani che vivono, lavorano e studiano a Perugia”.

Ma non basta: questo piccolo baraccone locale, che per molti versi è un doppione degli altrettanto inutili e costosi Centri per l’impiego sparsi ovunque, fa capo ad un'altra struttura particolare detta “Informagiovani”. E proprio nel sito di questo ennesimo ufficio del nulla è scritto che l’incommensurabile gamma di servizi offerti ai giovani cittadini è totalmente gratuita. Già, proprio l’ennesima favola dei pasti gratis che un altro signore del Pd sta divulgando da mesi dalla poltrona di Palazzo Chigi. Ma il problema, ahinoi, è che in realtà nulla è gratuito a questo mondo. Quando un politico crea dal niente una struttura di servizi che apparentemente non costano, nella sostanza carica sull’immenso groppone del popolo pagatore altri plotoni di stipendiati da accudire vita natural durante.

Le tasse e i debiti aumentano in modo impercettibile, tanto da non essere immediatamente percepiti dalla totalità dei cittadini. Tuttavia, i diretti beneficiari di ogni nuovo baraccone pubblico immediatamente capiscono l’antifona e votano. Qualcuno la chiama democrazia acquisitiva, ossia il metodo di ottenere consenso spendendo i soldi degli altri. Il problema grosso nasce quando questi ultimi, come diceva la compianta signora Thatcher, finiscono.

(l'Opinione)

 

mercoledì 16 aprile 2014

L'all-in del Motivatore. Giovanni Sallusti




L'Intraprendente - Avevamo provato ad anticiparlo qui, lo scenario, e oggi il notiziario ci viene incontro, sussurrando chiaramente: signori, tenetevi pronti all’ultima mano del Motivatore. Forse è stato soprattutto questo, il Cav, nella sua pluridecennale, multiforme, prometeica attività. Un motivatore. Il motivatore e lo sdoganatore dell’Italia secolarizzata, degli istinti edonisti e consumisti, sanamente collocati oltre la contesa ideologica e la contrapposizione tra le due Chiese, quella originale e quella di Partito, l’Italia che archivia Don Camillo e Peppone e accende la tivù commerciale, applaude al disimpegno vitalista di Drive In e sogna le maggiorate di Colpo Grosso, si riconosce finalmente in quel che sta accadendo in Occidente, nel reaganismo e nel thatcherismo. Il motivatore e l’allevatore di un sogno, il sogno per eccellenza del popolo spettatore e votante, e solo un professore di “Repubblica” può interpretare la cosa con sprezzo, il rivoluzionario che afferra il giocattolo artigianale del pallone e lo eleva a matura industria culturale e d’intrattenimento.

Infine, e soprattutto, il motivatore di un popolo, certo variegato e contraddittorio, ma che nel 1994 aveva un denominatore comune. Aveva assistito al crollo giudiziario dei propri partiti di riferimento, e non aveva nessuna intenzione di portare al governo un partito che ostentava ancora, sotto la quercia del Pds, la falce e il martello. Il motivatore scese in campo in una manciata di settimane, i compagni e luogotenenti di una vita glielo sconsigliavano, quasi lo imploravano di non farlo, tutti tranne uno, quel Marcello Dell’Utri che oggi è a Beirut e da anni al centro del mirino mediatico-giudiziario, e forse non è un caso. Il motivatore ascoltò tutti, come fa anche adesso, ma allora aveva il sole in tasca, se ne infischiò di tutti, tranne di quello che annuiva, trasformò l’azienda in un partito e la gioiosa macchina da guerra progressista in un tragicomico apparato fuori tempo massimo. Fu governo, e tutto quel che ne seguì. Errori e delusioni, perché non è detto che un motivatore sia anche un realizzatore, un motivatore può anche confondersi, se si fida dogmaticamente dei suoi umori, può affidare le chiavi del Paese a un socialista, colbertista e protezionista come Giulio Tremonti e parlare ancora di rivoluzione liberale, è il problema di ogni motivatore: la sottovalutazione del principio di non contraddizione.

La rivoluzione liberale non c’è stata, l’assalto giudiziario è continuato, hanno spiato le case, le notti, i letti del motivatore, l’obiettivo era sbalzarlo di sella, a costo di ridurre il Codice penale a una variante della Sharia e inventarsi il reato di festa privata. Infine, lui, il motivatore, il maggior contribuente italiano, è stato condannato per frode fiscale, e per i (numerosi) detrattori questo paradosso sarebbe la pietra tombale sulla sua avventura politica, e umana. Peccato che il motivatore si nutra, di paradossi. E oggi, che il Tribunale di Milano conferma l’affidamento ai servizi sociali, con libertà di movimento, anche a Roma, e quindi di campagna elettorale, il Cav forse sogghigna compiaciuto, e ribadisce: «Farò il motivatore». Nello specifico, per gli anziani di Cesano Boscone, in un centro della Fondazione Sacra Famiglia. Chi lo conosce, sa che è vero, ma che è anche parziale. Quel «farò il motivatore» sbattuto in faccia al mondo, ai suoi persecutori in toga e a quelli di redazione, ai parrucconi che lo danno morto e al suo clone fiorentino che ci spera, significa anche, significa soprattutto: farò me stesso. Combatterò, tenterò l’ennesima rimonta folle della mia vita, forse è la mia ultima mano, d’accordo, ma quel che con i vostri canoni normali è uno svantaggio, per me, pazzo avventuriero erasmiano, è un vantaggio enorme. Posso andare all-in, o tutto o niente, io ci sono abituato, e voi? Siete sicuri di vincere, perfetto, venite a vedere la mano del motivatore. Potreste scoprire di aver perso.

venerdì 14 marzo 2014

Qualcuno era cattocomunista. Fabrizio Rondolino


L'Intraprendente - Sarà un caso, una coincidenza da nulla, e sarà malizioso farlo notare, ma è un fatto che Rosy Bindi è tornata alla ribalta delle cronache, rilasciando interviste e dichiarazioni, quando s’è parlato disottosegretari. La già presidente del Pd di Bersani ha assistito in silenzio alla strepitosa vittoria di Renzi alle primarie e non ha obiettato nulla alla cruenta staffetta che ha estromesso da palazzo Chigi il buon Letta, ma quando s’è cominciato a parlare di poltrone ha deciso di riprendere la parola: non per lamentare l’assenza di bindiani dal nuovo esecutivo ma, più nobilmente, per puntare il dito contro gli “impresentabili” colpevoli soltanto di aver ricevuto un avviso di garanzia.

Ecco, Rosy Bindi sta tutta in questa equazione: poltrone + moralismo. Il risultato è un ventennio di onorata carriera politico-mediatica (nel Partito popolare, nel Pd, al governo) e una sostanziale assenza di risultati. Nessuno ricorda una posizione politica, una proposta programmatica, una scelta di governo della Bindi; in compenso, nessuno ha dimenticato l’infelice battuta che le rivolse Berlusconi, trasformandola all’istante nell’icona lamentosa e gettonatissima dell’antiberlusconismo.

E qui ci avviciniamo al punto. L’antiberlusconismo non è stato soltanto un errore politico e comunicativo marchiano, che di fatto ha consentito al Cavaliere di dominare incontrastato la scena politica per vent’anni: è stato anche il drappo rosso da agitare alla folla per nascondere il cronico fallimento di una classe dirigente. L’antiberlusconismo è stato brandito da Rosy Bindi, e con lei da decine di dirigenti grandi e piccoli del centrosinistra, come un’arma di distrazione di massa utile ad occultare il vero dato politico-culturale del ventennio: l’incapacità della sinistra a comprendere la modernità.

La cultura politica comune alla Dc e al Pci era sostanzialmente consociativa e universalistica: in un Paese a crescita costante c’erano soldi per tutti – operai e falsi invalidi, imprenditori e baby pensionati – e non restava che accordarsi sul modo più vantaggioso per distribuirli. Ogni volta che qualcosa di nuovo bussava alla porta – il ’68, Craxi, e infine Berlusconi – la reazione è sempre stata di allarmata chiusura, di scomunica, di resistenza tenace.

È il profondo conservatorismo della cultura cattocomunista, sopravvissuta per vent’anni alla dissoluzione dei partiti di origine, ad aver bloccato la capacità di espansione della sinistra, chiudendola nel ridotto corporativo di un piccolo mondo antico e privandola della possibilità stessa di comprendere che cosa stava succedendo nel Paese.

Per questo la battaglia di Rosy Bindi e dei suoi sodali contro Matteo Renzi è e sarà sempre più cruenta: perché è l’ultima battaglia con cui l’Ancien régime cerca e cercherà di fermare il Robespierre-Napoleone calato all’improvviso su un corpo politico-istituzionale in aperta metastasi. Ma, come insegna la storia, sebbene non sempre il moderno riesca a vincere al primo assalto, l’antico è sempre destinato a perire.

 

venerdì 7 marzo 2014

Garantismo tardivo. Davide Giacalone


Bello vedere che il Partito democratico riscopre l’esistenza del secondo comma dell’articolo 27 della Costituzione, nonché (non lo hanno ancora detto, ma suggerisco con piacere) della Dichiarazione universale diritti dell’uomo e della Convenzione europea diritti dell’uomo, quindi della presunzione d’innocenza. Negli ultimi tempi, iniziando con la riforma del titolo quinto della Costituzione e arrivando all’innocenza dei non condannati in via definitiva, sostengono con forza il contrario di quel che, con forza, vollero e fecero. Se servono loro altri spunti, metto a disposizione gli scritti di molti anni, ove troveranno una miniera di sinistre vergogne. Restando al garantismo, però, non s’illudano che sia così facile. Ascoltino un veterano.

Che in caso di avviso di garanzia si diano o si chiedano le dimissioni, da cariche o incarichi pubblici, è, al tempo stesso, civile e incivile. Se la giustizia funziona è civile, direi doveroso: mi dimetto, non coinvolgo la cosa pubblica nella mia disavventura, mi difendo liberamente e torno presto, mondato dal sospetto. Se la giustizia non funziona è incivile: perché le accuse sono spesso campate per aria, i procuratori degli aspiranti divi e perché, soprattutto, così procedendo sono le procure a stabilire chi può mantenere cariche e incarichi, il che sovverte la Costituzione e la vita collettiva. Se per difendersi occorrono più di dieci anni è evidente che l’avviso di garanzia non è neanche presunzione di colpevolezza, ma direttamente una fucilata alle spalle. Dato che da noi la giustizia è la peggiore d’Europa, con tempi incivili, si pone il problema che i delinquenti restino ai loro posti pubblici. Ed è questione seria, perché il garantismo, se ne ricordino i neofiti, non è innocentismo, ma rispetto del diritto e dei diritti. Fra i quali è compreso quello di vedere condannati i colpevoli.

La faccenda, quindi, non si chiude con le pur giuste parole del ministro Boschi, annuncianti che quattro indagati resteranno al governo, ma deve proseguire con l’azione per assicurare loro un processo equo e rapido. Se innocenti per liberarli dall’accusa, se colpevoli per far loro scontare la pena. Restiamo, quindi, in attesa della riforma della giustizia. Ci piacerebbe ingannarla sapendo in che direzione il governo intende procedere. Al momento è buio totale.

Siccome non ci sono solo i sottosegretari, ma anche i cittadini, è bene si sia consapevoli che l’avviso di garanzia è un atto a tutela dell’indagato, ma anche l’inizio di un costoso inferno. Se un sottosegretario non si dimette un imprenditore smette di lavorare e un impiegato di fare carriera. E va ancora bene, perché sono un esercito i cittadini che finiscono in galera prima d’incontrare un giudice e ci restano senza avere mai visto un tribunale. Un esercito che se fosse cancellato sparirebbe anche il problema del sovraffollamento delle carceri, troppo popolate da persone che non scontano la pena, ma attendono il giudizio. Somma inciviltà.

Pesco a caso dal mazzo. A Torino Francesco Furchì già è in sciopero della fame e inizia quello della sete. Detenuto in custodia cautelare, accusato di omicidio, si dice innocente e attende il giudizio. Il problema è che dal suo arresto è passato più di un anno. Noi non sappiamo se sia colpevole o innocente, sappiamo che è detenuto da presunto innocente. Franco Bonanini finì in carcere perché non reiterasse il reato di calunnia. Dopo tre anni un altro pubblico ministero indaga sul presunto calunniato. Questi due casi, diversissimi, dimostrano che: a. la custodia cautelare non può essere cancellata, perché esistono anche soggetti che si presume possano essere pericolosi, ma non può essere protratta, altrimenti diventa pena senza processo; b. non serve a nulla fare le riforme, perché in un caso come il secondo già la legge esistente esclude che si possa privare della libertà una persona in base ad un’accusa così ridicola e senza alcuna pericolosità, ma le leggi sono parole perse se chi le applica non è responsabile delle proprie azioni.

Maria Elena Boschi e Andrea Orlando non hanno colpe personali. Né per come è ridotta la giustizia, né per le vergognose posizioni difese, fino a ieri, dal loro partito. Ma tutti e due, assieme agli altri loro colleghi, non sarebbero dove sono se il loro partito non avesse concimato il consenso anche con quelle idee organiche. E tutti e due sono ministri. Quindi: fateci vedere i risultati, non solo la difesa dei sottosegretari, propri compagni. Ci vuole un niente per passare da inutili.
Pubblicato da Libero

giovedì 6 marzo 2014

Fra Kiev e Caracas. Davide Giacalone



Della libertà e del benessere degli altri europei, per un tempo lunghissimo, è interessato a pochi. In compenso sfilavano cortei, si organizzavano concerti e si versavano lacrime per la libertà in America Latina. Oggi, però, tutti parlano di Kiev e nessuno (salvo i soliti pochi) di Caracas. Tutti si sentono ucraini e nessuno venezuelano. E sì che la Repubblica Bolivariana è passata dalle mani di un despota megalomane, Hugo Chávez, a quelle di un despota cleptomane, Nicolás Maduro, entrambe alleati dei dittatori cubani e allievi della loro dottrina repressiva. E sì che le grida d’aiuto che vengono dai liberi venezuelani sono idiomaticamente più comprensibili di quelle dei liberi ucraini. Non voglio stilare una graduatoria, ma capire l’incredibile disparità.

Due sono i criteri più usati, per provare a capire: quello destra-sinistra e quello europei-lontani. Entrambe non spiegano nulla. Leggiamone la bugia, prima di arrivare al terzo, più efficace, che intitolerei al falso idealismo, basato sull’ignoranza. Il criterio destra-sinistra sembra funzionare nel caso venezuelano, come, del resto, in quello cubano: siccome il dittatore si tinge di rosso, ne consegue che non può essere messo al pari delle giunte militari e fasciste. Il che è vero, perché le seconde sono durate di meno. Crolla, però, in Ucraina, dove i sentimenti anti russi, molto presenti nella piazza Majdan, hanno preso, nella storia (e nel presente), anche forme di destra estrema, fino al nazismo. Sicché leggo la cosa in modo diverso: il fascino dei movimenti sud americani consisteva nel potere essere usati contro gli Stati Uniti. Finita quella funzione sono stati dimenticati.

Il criterio secondo cui ci sentiamo più coinvolti dalla sorte degli europei, rispetto a popoli lontani, magari non è generosa, ma sembra razionale. Invece è priva di fondamento, visto che la gran parte della presunta cultura italiana de sinistra, ivi compreso l’attuale presidente della Repubblica, non solo non si sentì schiacciare dai carri armati che entrarono a Budapest, non solo non arse di rabbia, con Jan Palach, a Praga, ma, anzi, s’industriò a giustificare la miseria e l’oppressione in cui quegli europei erano stati chiusi dalla cortina di ferro. In compenso tutti si sentirono assediati nel palazzo della Moneda, assieme a un Salvador Allende che supponeva di potere portare il socialismo in Cile. No, direi che questo criterio non regge.

E allora? Allora capita che studiando poco e facendosi una cultura con i film s’incorre nell’errore di credere che gli orsi siano tutti socievoli come Yoghi. E che abbandonandosi al moralismo senza etica si supponga che gli interessi siano sempre immondi, specie quando sono i nostri. Vale per il gas che passa in Ucraina, come per il petrolio che si estrae in Venezuela. Il primo sembra spiegare che l’intervento armato russo ha finalità di mero portafoglio, dimenticando il fatto che in Ucraina si combattono bande di ladri e cancellando la storia da Pietro il grande in poi, con i russi che si vivono come potenza mondiale, mentre gli occidentali sono disposti a riconoscere solo un ruolo regionale. Mentre il secondo, il petrolio, sembra giustificare la pretesa antioccidentale dei chavisti, per non cadere nelle mani della speculazione, mentre, all’opposto, è la merce di scambio per avere il sostegno e la consulenza dei castristi, maestri nella sopravvivenza degli aguzzini. E finché queste allucinazioni riguardano solo qualche fighetto intellò, passi, ma l’Unione europea che s’è messa a negoziare un accordo di libero scambio con l’Ucraina, supponendo di poterlo fare senza mettere in conto Mosca e non accorgendosi d’essere solo merce di scambio per far aumentare i finanziamenti russi, è un caso tragico d’incapacità diplomatica e buio culturale.

La politica estera è il terreno in cui raggiunge la massima tensione ed espressione la convivenza fra ideali, interessi, storia e geografia. Non deve fare paura la politica degli interessi, perché gli ideali (specie di popoli, terre e religioni), da soli, restituiscono sangue. Né devono fare paura gli ideali, perché gli interessi, da soli, producono grettezza e decadenza. Un atlante storico aiuta, molto. E una buona coscienza serve a sentirsi in colpa, per essersi dimenticati di quanti, in Venezuela (come in altre parti del mondo) combattono per la libertà accompagnati dal nostro disinteresse, inteso come mancanza di cultura e sensibilità necessarie per interessarsi. Nessuno può mettersi a fare il redentore del mondo, anche perché da lì nascono incubi. Ma la bontà a intermittenza è riprovevole. O dimostra una testa da Bubu.


Pubblicato da Libero


giovedì 20 febbraio 2014

La sinistra che deve fare la destra. Arturo Diaconale


Renzi come D’Alema, entrambi a Palazzo Chigi per manovre di Palazzo e senza investitura popolare? In apparenza è così. Ma nella sostanza la similitudine è molto più profonda. E riguarda la vera anomalia della politica italiana, quella che spingeva l’Avvocato Giovanni Agnelli a sostenere che nel nostro Paese solo un Governo di sinistra può realizzare politiche di destra.

Massimo D’Alema sostituì Romano Prodi alla guida del Governo grazie ad un’operazione condotta con spregiudicata abilità da Francesco Cossiga, l’uomo di Gladio e della lealtà atlantica dell’Italia. L’ex Presidente della Repubblica non era animato dall’intento di favorire il perfezionamento della democrazia dell’alternanza determinando la nascita del primo Governo a guida post-comunista della storia dell’Italia repubblicana. Voleva solo, sicuramente su sollecitazione dei massimi vertici della Nato (cioè degli Stati Uniti), creare le migliori condizioni affinché il nostro Paese potesse assicurare l’uso delle proprie basi militari e della propria partecipazione alla guerra che l’Alleanza Atlantica si accingeva a scatenare contro la Serbia di Milosevic.

Il cattolico Prodi avrebbe potuto garantire che l'Italia sarebbe entrata in guerra, per la prima volta dopo la fine del secondo conflitto mondiale, tenendo a freno le tensioni che sarebbero inevitabilmente venute dalla sinistra pacifista e antiatlantica che era forza determinante del suo Governo? Cossiga e i suoi ispiratori giudicarono opportunamente che Prodi non avrebbe potuto offrire alcuna garanzia in questo senso. Pensarono che solo un comunista avrebbe potuto fare guerra ad un Paese comunista tenendo a bada i propri comunisti. E realizzarono la manovra di Palazzo che portò il primo ex comunista a guidare il Governo della prima guerra dell’Italia repubblicana contro il comunista Milosevic. Un capolavoro! Ovviamente di applicazione della tesi di Agnelli secondo cui nel nostro Paese solo Governi di sinistra possono comportarsi come Governi di destra.

Matteo Renzi si accinge a compiere un’operazione del tutto simile a quella realizzata a suo tempo da D’Alema. Non deve portare il Paese ad entrare in guerra tenendo tranquilla la sua base pacifista. Deve realizzare quella serie di riforme che i Governi di centrodestra degli ultimi vent’anni non sono riusciti a compiere a causa dell’opposizione intransigente della propria parte politica. Dalle riforme istituzionali bocciate dal referendum promosso e vinto a suo tempo dal Partito Democratico all’abolizione, almeno per i primi tre anni dei nuovi assunti, di quell’articolo 18 contro cui il centrodestra si batté inutilmente a suo tempo, fino alla riduzione delle tasse e alla ridefinizione dei rapporti economici con l’Europa fino ad ora rimasti degli autentici tabù per la sinistra italiana.

Non c’è da stupirsi, allora, se Renzi trova resistenze nel suo partito e suscita simpatie e attese nel campo avversario. C’è da riflettere, semmai, sul fatto che il precedente di D’Alema non alimenta grandi speranze sulla durata del Governo di Renzi. Una volta che hanno esaurito il compito a cui sono stati chiamati, i Governi di sinistra che fanno politiche di destra vanno a casa. Ma c’è, soprattutto, da riflettere sulla difficoltà del nostro Paese di superare quell’anomalia che gli impedisce di essere normale. Una anomalia rappresentata dal ruolo egemonico della sinistra nella società nazionale, quel ruolo che impedisce il corretto funzionamento della democrazia dell’alternanza e subordina sempre e comunque il futuro del Paese a quella casta che sfrutta questa egemonia per perpetuare all’infinito i propri privilegi.

(l'Opinione)

venerdì 7 febbraio 2014

Frinire fiscale. Davide Giacalone


Le notizie sono due in una: 1. s’è, finalmente, affermata una qualche compensazione fra debiti e crediti con la pubblica amministrazione; 2. la positiva novità è dovuta a un emendamento al decreto “Destinazione Italia”, presentato dai parlamentari del Movimento 5 Stelle. Ciascuna merita un approfondimento e una riflessione.

Esaminiamo, per punti, la sostanza, mettendo fra parentesi quel che sarebbe giusto aggiungere: a. potranno essere congelate tutte le pretese della pubblica amministrazione, siano esse fiscali o di altra natura, se chi riceve la cartella esattoriale vanta un credito contrattuale pubblico, per un importo superiore o pari a quel che dovrebbe pagare (non si capisce perché non dovrebbe poter detrarre un eventuale credito inferiore, così come, nel caso ci sia da compensare, vanno cancellate le sanzioni e gli interessi); b. la validità di questo sistema sarà di un anno (dovrebbe essere perpetuo); c. i soggetti interessati sono tutte le società, ivi comprese le ditte individuali (sarebbe bene estendere a tutti i cittadini, tanto più che l’emendamento parla anche di “crediti per servizi professionali”, che non obbligano alla forma societaria); d. i crediti si riferiscono a tutta la pubblica amministrazione, quindi sono compresi gli enti locali e ogni altra amministrazione, anche autonoma; e. i crediti devono essere “certi”, vale a dire riconosciuti dall’amministrazione, anche mediante apposita certificazione (sarà bene aggiungere che l’amministrazione stessa è tenuta a certificare tutto quello che non intenda rigettare o contestare, magari pure con il silenzio assenso, altrimenti si apre una falla per pubblica inadempienza); f. la norma non è immediatamente operativa, perché il ministero dell’economia ha 90 giorni per emanare un apposito decreto attuativo (meglio chiarire, dunque, che l’anno decorre dal decreto, altrimenti va a finire che la novità vive solo per sei mesi).

Dentro le parentesi c’è il lavoro ancora da fare, ma fuori da quelle ci sono principi e previsioni più che giusti. L’amministrazione fiscale dovrà fare i conti con un gettito inferiore al previsto, ma è bene sottolineare che quello mancante era una rapina ai danni di un sistema produttivo cui s’intima di dare e s’impedisce di avere. Una negazione di diritti che getta una luce losca sui doveri. Il decreto attuativo non complichi le cose, magari paventando che potrebbero esserci abusi e imbrogli. L’amministrazione fiscale ha tanti di quei dati, su cittadini e imprese, che non è ammissibile non sappia subito riconoscere le pretese fondate da quelle fraudolente. E se non ci riesce deve prendersela con i propri dirigenti e dipendenti, non con chi ne subisce le inefficienze.

Tanto sono solari l’ovvietà e la fondatezza di questo emendamento, che i relatori lo hanno fatto proprio. Tale solarità, però, abbaglia per il fatto che si sia dovuta attendere l’iniziativa di un gruppo parlamentare nuovo, a fronte di un problema antico. A nulla sono servite le “sentinelle delle tasse” (come s’è definito il Nuovo centro destra), i cultori del rigore (come si descrivono quelli di Scelta civica), o i predicatori dell’equità (come amano pensarsi quelli del Partito democratico). Tutti seduti al governo, tutti fra i compitatori del decreto, nessuno in grado di cimentarsi con l’ovvio.

Ma le colpe (gravi) non sono solo politiche. Perché questa iniziativa ortottera ha subito avuto ascolto e risalto, anche da parte di un sistema dell’informazione che, invece, è stato omertoso sul caso della Banca d’Italia. Segno che quando non ci si trova in conflitto d’interessi si riesce anche a ragionare e non si sente il bisogno di latrare ai latranti.

L’odierno plauso ai pentastelluti cancella l’orrore per certi loro eloqui esaltati e deprimenti? Niente affatto. Però aiuta a capire che il dialogare civile consente di convenire e dissentire, senza per questo iscriversi alla categorie di adoranti e odianti. E aiuta a vedere che se le parole intollerabili è giusto condannarle, sarà anche bene prendere atto che l’ondata d’indignazione contro il frinire (a cura degli stessi che con quelli volevano fare il governo) è stata alta perché elevato era il bisogno di coprire i propri torti sostanziali con gli altrui torti verbali. Talché è da escludersi possa chiudersi con tonitruanti condanne la partita che ha scardinato la nostra banca centrale. Il tempo curerà di portare a galla i torti, le viltà, le complicità e le quintalate di moralismo senza etica.

Pubblicato da Libero

giovedì 30 gennaio 2014

Perché la sinistra è chic e la destra puah? Paolo Pillitteri

 


Ieri su “Il Giornale”, oltre ad un ottimo fondo sulla questione Giustizia del nostro direttore Diaconale, abbiamo letto con gusto, riflettendoci un po’ sopra, un articolo-saggio di un brillante Luigi Mascheroni che non si limita solo a prendere in giro la mainstream gauchista spalmata sui mass media, ma entra in medias res citando personaggi e luoghi (comuni) in cui le azioni e le reazioni degli addetti ai lavori di sinistra si comportano come un gruppo affiatato e scafato pur rimanendo, a ben vedere, nell’eterna, casereccia dimensione dei compagnucci della parrocchietta.

In effetti, e seguendo la riflessione di Mascheroni, uno dei pochi (e vedremo il perché) intellettuali non iscritti alla suddetta mainstream press, gli esempi offerti quotidianamente da quel sistema offensivo-difensivo spiegano tanti perché. Perché, infatti, un capace giornalista come Giovanni Toti - prestato alla politica di Forza Italia - se viene fotografato in tuta con a fianco il Cavaliere suo sponsor diventa automaticamente, per quei furboni della critica progressista, una macchietta, un cretinetti, mentre un altro non meno bravo giornalista come Gad Lerner (nel cui blog, detto inter nos, non mancano intriganti provocazioni) se fotografato in boxer a fianco di Carlo De Benedetti rimane, per antonomasia, l’intellettuale hipster.

È l’identico ragionamento provocatorio, au contraire, che ha suggerito alla bonomia di Paolo Liguori di aggiungere, sempre a proposito di Toti in tuta (bianca) che, se la indossa costui è un impresentabile, mentre Obama in tuta è un genio. E gli esempi continuano, si agganciano al super-medium televisivo nella cui offerta di giudizi incrociati - incrociati esattamente come le partecipazioni a talk, Twitter e blog - è facile rinvenire quella vena di appartenenza-supponenza che l’intellighenzia italiana nutre nei confronti degli altri, dei diversi, della destra. La quale si mostra a volte nella Rete 4, a volte altrove ma sempre e comunque sottoposta a una visione riduttiva, a una critica che è più un pregiudizio che un giudizio.

Mascheroni, implacabilmente, cita il caso della trasmissione di Formigli su “La7” che ha raggiunto, l’altra sera, il 5% ed è stata salutata come un successo; mentre il programma di uno che non è più una new entry ma una riuscita conferma come Paolo Del Debbio, pur avendo raggiunto il 6,5%, è considerato un imbarazzante turista per caso su una rete del Caimano. E così via, passando per le invasioni barbariche, gli otto e mezzo e il resto. Dopodiché e fermo restando gli opportuni appunti di Mascheroni che si aggiungono ai nostri da anni (si parva licet), dobbiamo comunque ragionare sul perché la sinistra, in Italia e soltanto in Italia, è sempre chic e la destra è sempre o quasi puah, impresentabile, imbarazzante.

Senza annoiarvi, dobbiamo per forza citare il lavoro di largo raggio e di lunga lena che dal dopoguerra i nipotini di Gramsci, Togliatti e Berlinguer hanno compiuto conquistando le “cittadelle borghesi” di cultura, arte, scuola, università, ricerca, editoria, giornalismo e, infine, tivù; il medium dove quel lavorio ha acquisito e contraddistinto in Rai, reti, telegiornali, programmi, talk e, in quelle private, l’intera La7 la cui informazione è marchiata indelebilmente da un caposcuola come Enrico Mentana, che non è certamente di destra. E perché? Perché da sempre, dal dopoguerra, da De Gasperi in poi, il centro, per non dire il centrodestra e figuriamoci la destra, non si sono mai occupati degli intellettuali, dell’arte, della cultura, spregiativamente definiti “culturame”.

La destra politica -e lo dice uno che è orgoglioso di essere un socialdemocratico senza tessera - non conosceva fino a una ventina di anni fa neppure Karl Popper, mentre uno dei pochissimi, autentici pensatori di quell’area, il grande filosofo cattolico Del Noce, è sempre rimasto una sorta di mosca bianca. E arriviamo a Berlusconi. La storica indifferenza del Cavaliere per la cultura fa da pendant, nel suo pensiero, con l’idiosincrasia per la parola partito, benché, col tempo, anche le sue televisioni hanno fatto passi in avanti in quell’ambito. Ma siamo ai passetti, Toti in tuta compreso. Perciò, direbbero i due indiscutibili opinion maker radiofonici, Cruciani e Parenzo: di che stiamo parlando?

(l'Opinione)

 

martedì 28 gennaio 2014

Le toghe intimidatorie. Arturo Diaconale

 

È difficile stabilire se le inchieste ed i processi a carico di Silvio Berlusconi rappresentino dei precedenti che spianano la strada a nuove forme di giurisdizione o se siano solo, grazie al grande rilievo mediatico che sempre assumono, lo specchio su cui si riflette una serie di nuove tendenze già presenti nella realtà giudiziaria del Paese.
 Il pm Antonio Sangermano e gli avvocati Piero Longo e Niccolò Ghedini

È probabile che solo in futuro, quando le vicende degli ultimi vent'anni e del presente saranno diventate storia, si potrà stabilire se su questo terreno sia nato prima l'uovo o la gallina. Per il momento bisogna accontentarsi di indicare ciò che emerge dall'ultima vicenda giudiziaria del Cavaliere. Che non è solo un atto dovuto, come ha sottolineato il procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, a proposito dell'apertura dell'inchiesta per corruzione di testi e falsa testimonianza a carico di Berlusconi, dei suoi avvocati e di tutti i testimoni a favore della difesa nei processi Ruby 1 e Ruby 2. Ma è qualcosa di molto più importante e significativo. Che non riguarda solo le vicende personali dello stesso Berlusconi, degli avvocati Longo e Ghedini, di oltre quaranta ragazze e tutti gli altri indagati. Ma che solleva una questione che riguarda indifferentemente tutti i cittadini: quella della tendenza crescente alla limitazione del diritto alla difesa attraverso il ricorso sistematico alle incriminazioni per falsa testimonianza. Il processo Ruby 3 diventerà sicuramente il terreno su cui i difensori di Berlusconi e di tutti i suoi testimoni a favore incriminati solleveranno la questione del limite al diritto di difesa posto dall'uso massiccio da parte dei magistrati giudicanti ed inquirenti dell'incriminazione degli stessi testimoni. Non ci vuole una particolare scienza nel cogliere il potere intimidatorio dell'«atto dovuto» a cui ha fatto riferimento, peraltro in maniera formalmente corretta, Bruti Liberati. Quanti testimoni avranno la forza di confermare le loro deposizioni di fronte alla concreta prospettiva di subire pesanti condanne? E, al tempo stesso, quante ritrattazioni e correzioni potranno sfuggire al sospetto di essere state provocate non dall'amore per la verità, ma dalla paura di sanzioni ingiustificate? Il clamore mediatico che inevitabilmente si determinerà attorno alla vicenda trasformerà la natura del Ruby 3. Non si discuterà più solo di una vicenda pruriginosa che riguarda la vita privata di un cittadino o di giustizia a orologeria ai danni di un leader determinante per le sorti politiche del Paese. Si aprirà una questione d'interesse generale, come la sorte del diritto di difesa di tutti i cittadini. E questa inevitabile attenzione dell'opinione pubblica sul caso personale del Cavaliere farà scoprire che la tendenza a colpire il diritto di difesa non è una novità prodotta dal caso Berlusconi, ma un fenomeno ormai ampiamente diffuso dipendente dal progressivo processo di sacralizzazione della magistratura avvenuto negli ultimi due decenni. Le toghe sono state trasformate da amministratori di giustizia a depositari di verità. Con il risultato che, come ai tempi dell'Inquisizione, la verità non può essere messa in discussione, ma deve trionfare sempre e comunque. Anche a dispetto del diritto di difesa che, a causa della concezione sacrale della magistratura, diventa reato di eresia da perseguire ad ogni costo. Anche con la tendenza crescente al ricorso all'incriminazione per falsa testimonianza come strumento di intimidazione per la conversione alla verità espressa dal magistrato di turno!

(il Giornale)

 

venerdì 24 gennaio 2014

ArchivioAndrea's Version

24 gennaio 2014

Andiamo, dài, quello nei confronti dell’Amor nostro, delle sue ospiti, dei difensori e dei testimoni a favore, era nient’altro che un atto dovuto. E infatti il procuratore di Milano l’ha comunicato alla stampa senza enfasi, anzi, in modo molto professionale, serioso, ha snocciolato date, numero dei processi vecchi, numero del procedimento nuovo, nomi dei sostituti che prenderanno in carico la pubblica accusa, stop. Bruti Liberati, a dirla tutta, ha mostrato se mai un tono vagamente scocciato, come se l’atto dovuto fosse effettivamente dovuto, un dovere, ma di quei doveri che, potendo, la procura si sarebbe volentieri evitata. Una noia, quasi, un déja vu, una minestra riscaldata. Tanto è vero che il timbro della sua voce ha preso un’anda appena più vivace, più convinta, quando l’alto magistrato ha comunicato la rinuncia della dottoressa Boccassini, chiamata, e questo l’ha scandito, “a impegni più pressanti”. Va là, è già su Renzi?

venerdì 17 gennaio 2014

Grazia e ingiustizia. Davide Giacalone



E’ giusto che il presidente della Repubblica conceda la grazia a un detenuto, perché bisognoso di cure? Tema doloroso e difficile, dilemma innanzi al quale si spera sempre di non trovarsi. Ragione in più per essere netti: no, non è giusto.

Un detenuto, in gravi condizioni di salute, s’è rivolto a Giorgio Napolitano, chiedendo di poter accedere all’eutanasia, di potere morire. Richiesta ovviamente non esaudibile. Né che sia praticata in carcere, né che possa suicidarsi (con assistenza) una volta libero. Il tema di questo articolo non è l’eutanasia, ma è escluso che un provvedimento del Quirinale possa disporre quel che è illecito. Quel detenuto (non ne farò il nome, noto a chiunque voglia saperlo, perché qui interessa la giustizia, non quel caso particolare), però aveva già incontrato Napolitano, quando s’era recato in visita al carcere napoletano. Già gli aveva chiesto aiuto. Inoltre era stata inoltrata domanda di grazia, sempre basata sulla salute. Ragion per cui, una volta divenuta nota la supplica di suicidio, il Quirinale ha ufficialmente dichiarato che: a. ha sollecitato il ministero della giustizia, affinché l’istruttoria sia celere (segno che intende concederla); b. che la direzione del carcere è stata sensibilizzata affinché, nel frattempo, sia assicurata la massima assistenza sanitaria. Trovo che sia un cumulo di errori.

Il reato per cui il detenuto si trova in carcere è omicidio. Fosse anche di altra natura, una volta terminato il processo, la certezza del diritto impone la certezza della pena. Se la salute di un detenuto diventa incompatibile con la pena questa deve essere sospesa. E, naturalmente, finché la detenzione continua l’assistenza sanitaria deve essere assicurata. Si tratta di cittadini la cui vita è nelle mani dello Stato. Per essere punita, certo, ma non per essere tolta, minacciata, messa a rischio o anche solo umiliata. E questo deve valere per tutti, sempre. Quindi quel detenuto, ove siano reali le condizioni che descrive, dovrebbe trovarsi fuori, o in un centro medico, senza che la presidenza della Repubblica debba minimamente intervenire. Se, invece, le cose non funzionano come dovrebbero, e pare proprio che non funzionino, allora non si tratta di sensibilizzare le autorità competenti su un singolo caso, ma di licenziarle e sostituirle con chi assolva meno approssimativamente ai propri doveri.

Se solo dopo l’intervento il comunicato quirinalizio, come è accaduto, viene disposto il trasferimento in ospedale ciò non è da prendersi come un caso di bontà coronata da successo, ma d’incoscienza e insensibilità solo per fortuna non accompagnata dal decesso. E se il giudice ha ritenuto, come è accaduto, di non disporre la scarcerazione è segno che o sbaglia, e deve esserne responsabile, o ritiene che il ricovero sia sufficiente, il che toglie ulteriormente opportunità all’avere accelerato il procedimento di grazia.

Intervenire assicurando la grazia, dopo una lettera in cui si chiede il suicidio è un tragico errore, tenuto anche conto che l’autolesionismo è già fin troppo presente nella vita carceraria. Premiare l’annuncio di un gesto estremo è l’esatto contrario di quel che serve per tutelare la salute e la dignità dei detenuti. Di tutti i detenuti.

La situazione delle carceri italiane è d’intollerabile illegalità. Se anche non avessimo occhi per accorgercene da soli (ma quante volte lo abbiamo scritto e denunciato!?), c’è l’infamante collezione delle sentenze di condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per ricordarsene. Sta di fatto, però, che in sede politica restano circondate dal silenzio le tenaci battaglie dei radicali italiani, e in sede istituzionale è caduto nel vuoto il messaggio alla Camere inviato dal Colle. La ragione di tale fuga politica, di tanta viltà, è una: i partiti si rendono conto che non è presentabile il susseguirsi delle clemenze verso i criminali, nel mentre non si riesce ad assicurare giustizia ai cittadini, né hanno forza e coraggio per operare la riforma della giustizia, come tutti sanno si dovrebbe fare, ma come una congrega di codardi non riesce a fare perché bloccata da veti corporativi e propri timori personali. E guardate che il problema non è affatto solo il sovraffollamento, rispetto al quale basterebbe osservare che un numero impressionante di detenuti non sta scontando una pena, perché non ha sul capo una condanna. L’abuso di carcerazione preventiva è devastante per la civiltà, per il diritto e per il carcere.

Pensare di porre rimedio alla vergogna delle galere senza porre rimedio alla vergogna della malagiustizia è illusorio. Pensare di salvarsi la coscienza intervenendo per i casi che i mass media si preoccupano di descrivere come pietosi è non solo ipocrita, ma anche pericoloso. Quel detenuto ha diritto al rispetto della legge, e tutti i detenuti hanno diritto a essere considerati con pari attenzione. Se non si ha il coraggio di provvedere si abbia almeno il pudore di tacere.

Pubblicato da Libero


martedì 14 gennaio 2014

ArchivioBordin Line

14 gennaio 2014

La manifestazione è venuta bene. Migliaia di persone, standing ovation nei passaggi salienti dell’intervento di Barbara Spinelli, e soprattutto la presenza dei magistrati in solidarietà dei quali la manifestazione si teneva ovvero i pubblici ministeri del processo sulla trattativa. Prendo queste notizie dal Fatto di ieri. Del resto la vicenda la conoscete, si tratta delle minacce rivolte da Riina al dottor Di Matteo e al rischio che esse possano essere messe in atto, estese agli altri magistrati che nel processo rappresentano l’accusa. Qualcosa però nel resoconto del Fatto non c’è. Sabato è uscita su Repubblica, ma non sul Fatto, la notizia di un allarme in procura a Palermo. Una fonte confidenziale ha avvertito che Matteo Messina Denaro, latitante e non al 41 bis come Riina, sta preparando un attentato contro il procuratore aggiunto Teresa Principato che il mese scorso ha fatto arrestare alcuni famigliari e complici del boss di Castelvetrano. Il blitz ha dato i suoi frutti e il rischio per la dottoressa Principato ora è serio. Ma nella “fattoria dei magistrati” del Fatto quotidiano alcuni magistrati sono più uguali degli altri, e nella manifestazione “contro le minacce ai magistrati” non risulta, almeno dal resoconto, che della vicenda si sia fatto cenno.
di Massimo Bordin@MassimoBordin

lunedì 13 gennaio 2014

Il primo premio al politicamente corretto. Gianni Petrosillo



Il politicamente corretto è lo stadio terminale della degenerazione morale occidentale. Possiamo individuare come punto critico di questa parabola discendente della nostra civiltà il 2009, quando il Norske Nobelkomité conferisce, per inesistenti “contributi eccezionali alla società”, il Nobel per la pace al primo Presidente creolo della storia americana.

Il premio non venne assegnato alle intenzioni, come qualcuno ebbe a dire, perché Obama, divenuto Capo della Casa Bianca da pochi mesi, era assurto al “soglio” di Washington ricorrendo ad una narrazione pacifista e globalista che faceva ben auspicare. Tutti sanno che le parole di un Capo di Stato sono destinate, prima o poi, ad infrangersi sulla corteccia dura dei fatti e degli interessi strategici della nazione guidata, in ultima istanza prevalenti su qualsiasi racconto utopistico.

Il riconoscimento gli fu direttamente attribuito per caratteristiche somatiche rientranti nel cliché ideologico dominante il quale ha, da tempo, reso la “diversità omologata” il passe-partout per il comando (apparente). L’America già facendo eleggere Obama, cioè portando un simbolo delle sue invenzioni antirazziste, sul gradino più alto dell’establishment, aveva dato “l’esempio” a tutta la Comunità internazionale, e ciò al fine di rendere più credibili tutte le sue “storie” opportunistiche, raccontate e ancora da raccontare.

Qualche anno prima, nel 2007, la stessa onorificenza era toccata ad Al Gore, per “gli sforzi volti a costruire e diffondere una maggiore conoscenza sui cambiamenti climatici causati dall’uomo”. Ma qui eravamo ancora su un altro livello di mistificazione, perché era stato l’argomento “utilizzato” e non le qualità fisiche del personaggio a validare la pantomima. Pazienza, se quelle dell’ex vice di Bill Clinton erano tutte bufale propagandistiche smentite dai fatti e da studi scientifici concomitanti e successivi.

Il circolo ristretto della globalizzazione, che ha sede negli Usa ed influenza sul resto del mondo, aveva eletto a tematiche dirimenti quelle ecologiche (ora un po’ in discesa), trattate secondo un taglio allarmistico e colpevolizzante la specie umana, per cui chiunque ne avesse preso le parti dal verso giusto e nella giusta inconsapevolezza avrebbe ricevuto ori e allori. Touché, direbbero i francesi. Il catastrofismo climatico di questa fase storica, che nei suoi aspetti apocalittici è un prodotto specifico della disinformatia americana, è stato generato dai timori statunitensi di ritrovarsi troppi concorrenti sul mercato internazionale, con aspirazioni autonomistiche, regionali o di area, i quali attraverso il controllo delle fonti energetiche e gli approvvigionamenti potevano arrivare a contendere il loro primato mondiale. La rinascita russa, basata sulle prospezioni aggressive e le esportazioni di gas, quali mezzi di pressione geopolitica, ne è una testimonianza evidente. Gli Usa, in un certo senso, non si erano sbagliati ed hanno usato forme di terrorismo psicologico per sbarrare la strada ai possibili competitors.

Così sono nate le favole sul global warming e quelle sulle fonti pulite, al momento appena ausiliarie e non sostitutive di quelle classiche. L’ideale politically correct che canta nel cervello di molti idioti suboccidentali, un tempo semplicemente europei e fieri di esserlo, i quali hanno ceduto alle sirene d’oltreatlantico (abili a cantare per attirarci sugli scogli dove viene fatta a pezzi la nostra millenaria cultura) ha raggiunto vette di miserabilità inimmaginabili. Ieri mezza Italia progressista era in festa per il Ministro Kyenge che il Foreign Policy ha citato tra i 100 pensatori più influenti del pianeta.

Che avrà mai fatto la Kyenge per meritarsi tutto ciò?“Combatte la persistente xenofobia in Europa” ed ha avuto “il coraggio di proporre leggi per concedere facilmente la nazionalità italiana agli immigrati”. La motivazione reale ovviamente non è questa, anche perché le iniziative della Keynge si riducono a dichiarazioni ad effetto per conquistarsi le prime pagine dei giornali ed alzare inutili polveroni che danneggiano immigrati ed italiani. In verità, la signora riunisce in sé alcune proprietà fondamentali del politicamente corretto. È nera, è donna e ricopre un ruolo di alto profilo in un governo di sudditanza oltreoceanica dal quale, un giorno sì e l’altro pure, denuncia complotti nazisti, sessisti, reazionari.

Con la Kyenge, insomma, ci si avvicina all’agognato esemplare politicamente corretto perfetto, quello che rappresenta il meglio dell’umanità a prescindere da quel che fa e da come lo fa. Fosse stata omosessuale e vegetariana ci sarebbe stato l’en plein, con concessione dell’infallibilità papale.

Tasse in casa. Davide Giacalone

 
Ci sono due cose che ci rendono molto forti, anche nel confronto fra i più forti nel mondo: a. l’essere rimasti una potenza industriale, capace di esportare; b. avere famiglie con un patrimonio solido e poco indebitate. Mentre la prima cosa trova fuori d’Italia concorrenti determinati a indebolirci, per danneggiare la seconda provvediamo da soli. Possedere casa, o case, è diventata una colpa. Se guardate la televisione inglese vedete scorrere tanta pubblicità ai mutui per comprare casa. Se guardate quella italiana sembra che lo sport nazionale consista nel tassarvi per averlo fatto. Tralasciando l’indecente caos cui assistiamo da mesi, con i conti fatti a cappero e le tasse che aumentano per diminuirle (un caso umano), la domanda è: ha senso tassare le case? La risposta è sì, ma a condizione che questo crei e non distrugga ricchezza. Altrimenti è mera sudditanza al dilapidante dispotismo fiscale.

Si può tassare la casa per quel che quella comporta di costi collettivi. E’ vero che casa tua l’hai pagata tu, ma è anche vero che non potrebbe funzionare se non ci fossero servizi di urbanizzazione, fognari, viari, come anche di ritiro della nettezza urbana. Quindi chi ha una casa è giusto che paghi ed è ragionevole che lo faccia sulla base dei metri quadrati, della collocazione e delle caratteristiche (condominio, villa, etc.). Anche per la casa di residenza. Solo che se mi tassi per questa ragione non puoi poi chiedermi di pagare per le stesse cose: servizi comunali indivisibili, spazzatura, etc.. Altrimenti si applicano prima una patrimoniale e poi delle finte tasse che sono, in realtà, altre patrimoniali sul medesimo patrimonio. E questo comporta la sostanziale illegalità di quel che è solo apparentemente, o solo formalmente legale, vale a dire il satanismo fiscale.

Una casa, la seconda o l’ennesima, può essere tassata anche come valore patrimoniale in sé. Non la prima, perché il risiedere a casa propria è anche un valore collettivo, posto che i senza casa sono un problema collettivo. Qui, però, le cose si fanno più delicate. Prima di tutto perché i soldi con cui si compra casa, che siano stati guadagnati o ereditati, in ogni caso sono già stati tassati. Il patrimonio non lo creo comprando casa, perché investo soldi che sono già parte del mio patrimonio, già fiscalizzato. Se, invece, compro casa accendendo un debito allora la casa entra solo formalmente nel mio patrimonio, giacché sostanzialmente è mia solo a patto che si estingua il mutuo. Sicché è decisamente meno logico che me la si tassi come patrimonio.

Ci sta, però, anche questo tipo di tassazione, ma non, appunto, riferito al patrimonio in sé, bensì all’incremento del suo valore, a fronte del quale (benché teorico) lo Stato ne preleva una parte. In tal caso, però, sono obbligatorie due conseguenze: a. quando la venderò non dovrò pagare tasse aggiuntive, perché sulla valorizzazione ho già pagato e, per il resto, ritrasformo in liquido quel che trasformai in immobile; b. quando l’immobile il valore lo perde, anziché guadagnarlo, se proprio non mi si vogliono dare i soldi indietro, di sicuro non devo versarne altri. La patrimoniale fissa, su un valore presunto, dovuta in qualsiasi condizione di mercato, è un furto.

Chi stabilisce il valore di una casa? L’unico soggetto affidabile è il mercato, tutti gli altri appartengono al novero del socialismo demenziale. Gli estimi catastali non possono essere frutto di pianificazione burocratica, ma legati all’andamento del mercato. Se così stessero le cose, sempre facendo tara del casotto cui abbiamo assistito, si potrebbe e dovrebbe pagare per i servizi connaturati all’abitare e per gli incrementi di valore. Non si dovrebbe, invece, moltiplicare i tributi o tartassare il patrimonio. La legge aurea la si deve non a un grande fiscalista, o economista (il cielo ci guardi), ma a un filosofo: “è la somma che fa il totale” (Totò, op. cit.). Se la somma, come oggi capita, porta a intaccare il patrimonio, vendendolo o accendendo debiti, per reggere l’onere fiscale, il suo esito sarà la distruzione di ricchezza. Vale a dire la demolizione del nostro secondo punto di forza. Non so se questo ragionamento sia di destra o di sinistra, so che la redistribuzione della miseria e l’incenerimento della ricchezza è da stolti.

Pubblicato da Libero