giovedì 28 luglio 2011

Travaglio leghista. Davide Giacalone


Il linguaggio della Lega non ha mai brillato per raffinatezza e gusto delle sfumature, ma sarebbe sciocco non riconoscere che quel partito, sotto la guida di Umberto Bossi, ha saputo intercettare non solo la protesta, ma anche la rappresentanza d’interessi reali. Niente affatto negativi. “Roma ladrona” era uno slogan, ma dentro vi si leggeva il sobbollire di vaste aree produttive e di piccole intraprese che dovevano sopportare un enorme peso fiscale e burocratico. Il guaio della Lega è che governa da tempo, s’è imborghesita, il capo piazza i propri figli, e i carichi fiscali e burocratici sono sempre lì, semmai accresciuti.
Quando il ciclo era positivo, per la Lega, anche le parole di un Borghezio qualsiasi, solitamente ispirate al delirio, finivano con l’inserirsi in una sinfonia ove prevalevano i tamburi e i tromboni, a segnalare la crudezza dello spartito. Ora che il ciclo volge al brutto, sentirlo riconoscere le presunte ragioni del biondo e demente assassino, induce solo a valutare le differenze: non è biondo e non nuoce più di tanto. Il dramma del vuoto leghista si misura tutto sul fronte che si sono scelti per l’estate: i ministeri al nord. Vorrei tanto incontrare almeno un cittadino del nord cui gliene freghi qualche cosa.
Le foto dei nuovi “uffici” sono di un desolante squallore burocratico, privo di quel che al nord, forse, potrebbero anche apprezzare: attivismo, efficienza, frenesia, open space che formicolano nel lavorio. Nulla. Le immagini dell’inaugurazione sono di una tristezza sconfinata, compresa la presenza di due ministri non leghisti, la propagandisticamente votata ad ogni cosa, Maria Vittoria Brambilla, e il ridotto a incarnare il “che s’ha da fa pe’ campa’”, Giulio Tremonti. Tutti assieme non ho idea se abbiano conquistato mezzo voto, so che hanno guadagnato al Quirinale un motivo ulteriore per schiaffeggiare il governo. Come se mancassero.
Che, poi, ci voleva un po’ di sale in zucca per cercare di vender meglio il prodotto, comunque scadente. In passato si sono seminate in giro per l’Italia le autorità: quella delle comunicazioni a Napoli, quella alimentare a Parma e così via sprecando denaro e duplicando i costi. Non ha minimamente funzionato, ma, almeno, su quelle pessime scelte c’era il consenso generale perché dimostravano l’intenzione di decentrare e considerare unita l’Italia. Che ci voleva, a usare la stessa retorica mendace? Non ne sono capaci perché, al contrario, compiono gesti inutili allo scopo di far vedere che non è del tutto morta la Lega che proclamava il separatismo. Solo che allora era preoccupante, ora è imbarazzante.
Credo che la Lega abbia diversi meriti, compreso quello di avere selezionato, nel tempo, una buona classe dirigente locale. Giovane, per giunta. E non ultimo quello di avere dimostrato che gli interessi che si rappresentano non devono avere prima ottenuto il certificato di garanzia e affidabilità, perché la democrazia è un mercato aperto. Ma tutto questo rischia di finire male perché i leghisti si sono dimostrati incapaci di conciliare la rappresentanza con gli impegni di governo. In fondo sono gli ultimi berlingueriani in circolazione, ancora convinti che si possa essere “di lotta e di governo”. Non funzionò per i comunisti e non funzionerà mai, perché si ottiene il solo risultato di non essere credibili per la lotta e non essere utili per il governo. Sappiamo che, al loro interno, sono in corso regolamenti dei conti. Vorremmo ricordare loro la saggezza partenopea di De Curtis: è la somma che fa il totale.

giovedì 14 luglio 2011

14 luglio 2011

Il governo è la rovina del paese e se ne deve andare. Il premier, nel suo delirio, prima si rende conto che dovrà farsi da parte e meglio è. Con Berlusconi non si negozia, deve restare fuori dalla partita perché una sua intromissione sarebbe dannosa, un peso per tutti. Sia il presidente del Consiglio sia il ministro dell’Economia devono sgombrare il campo, il loro ritorno a casa sarebbe l’unico regalo che dovrebbero fare al paese. Un governo vergognoso, un premier vergognoso, una politica indecente e una macelleria sociale che prosegue imperterrita, se ne devono andare immediatamente. Bon. Le precedenti affermazioni, più altre, pronunciate ieri dall’opposizione in vista della manovra senza ostruzionismi, dimostrano in verità, contrariamente alla vulgata, che i toni sono rimasti belli su e a calare sembrerebbero le mutande.

martedì 12 luglio 2011

12 luglio 2011

Io me lo sposerei, Luca Sofri. Con tutto il rispetto umano del mondo, dice, a lui non gliene potrebbe fregare di meno, per la chiusura di News of the World. Che manco a me. E chissenefrega, dice, se scompare una robaccia piena di notizie inaffidabili e terroristiche, che non ha niente a che fare con la responsabilità e con la qualità dell’informazione, una robaccia dotata, tra l’altro, di standard etici del tutto ordinari, se non insufficienti. Chissenefrega se chiudono quella robaccia, superlecita, ci mancherebbe, “ma di cui non sentiremo la mancanza e per cui non è il caso di condurre battaglie, dato che niente di buono aggiunge alla nostra civiltà”. Non è il caso. Punto. Milioni o no di copie vendute, abilità o meno dei suoi redattori, pubblicità o meno che possa portare a casa, successo o no che gli decreti il pubblico. Bravo Luca. Smack! Come per Santoro.

mercoledì 6 luglio 2011

Verrebbe da chiedersi chi ha fottuto gli inglesi ma è meglio chiuderla qui. Carlo Serrani


La linea generalmente denigratoria e insultante della stampa inglese verso l’Italia, e in particolare dell'Economist, si colloca da tempo notoriamente in relazione inversa rispetto alle sorti del nostro Paese: meglio l’Italia va, più viene attaccata. E ciò in quanto le ragioni primarie della costante denigrazione inglese si radicano, in primis, in due vizi: invidia e rabbia (mal repressa). Cominciamo dall’invidia. Tutti sanno che non è possibile alcun reale paragone tra vivere in Italia e in Gran Bretagna: per geografia, paesaggio, clima, bellezza delle città, cultura e tradizioni gastronomiche e vinicole. Gli inglesi lo sanno, e non sono per nulla contenti di vivere nelle loro isole fredde, grigie e piovose; e infatti, sono emigrati a milioni per diversi secoli. L’Italia, poi, è uno dei Paesi che più hanno contribuito alla storia dell’Europa e dell’Occidente, quanto e più delle isole britanniche che iniziarono a uscire da uno stato assolutamente primitivo grazie all’Impero Romano.

Passiamo alla rabbia. Dalla seconda guerra mondiale la Gran Bretagna, vittoriosa, ha subito danni infinitamente più profondi ed estesi di quelli sofferti dall’Italia sconfitta. La Gran Bretagna perse il ruolo dominante a livello mondiale e l’Impero Britannico, e ciò anche a causa dell’entrata in guerra dell’Italia che allargò il teatro bellico a Mediterraneo, Medio Oriente e Africa. Non accade spesso che un Paese vittorioso sia, alla lunga, molto più danneggiato di un Paese sconfitto. Per nostra fortuna, nel luglio del 1943 comprendemmo (a differenza dei Tedeschi) che la guerra per l’Asse era ormai persa e successivamente gli Stati Uniti provvidero saggiamente a impedire sanguinose e distruttive vendette, anche da parte della Gran Bretagna, secondo il modello del Trattato di Versailles" (nella Grande Guerra, per inciso, i morti italiani superarono di molto quelli inglesi, con i noti risultati).

L’enorme differenziale tra Gran Bretagna e Italia nei danni di medio-lungo termine inferti dalla seconda guerra mondiale non fu immediatamente visibile. Nel 1950 l’Italia aveva un Pil pari a solo un terzo di quello della Gran Bretagna. Quando, nel 1987, l’Italia raggiunse e superò la Gran Bretagna, gli Inglesi soffrirono molto. E soffrono ancora oggi, dato che tra i due Pil, anche pro capite e/o ai prezzi interni, la differenza è da tempo irrisoria e, probabilmente, grazie allo sfacelo della loro economia, li ri-superemo nel giro di qualche anno – per quello che conta (poco per noi, ma moltissimo per loro). La Gran Bretagna, sotto il profilo economico, è infatti in una situazione peggiore dell’Italia. Sommando debito pubblico (120%) e privato (65%) dell’economia italiana, si arriva a circa il 185% del Pil. Sommando debito pubblico (60%) e privato (225%) dell’economia britannica, si arriva invece a circa il 285% del Pil. La stampa inglese continua a cercare di darci lezioni ed a diramare tabelline sul debito pubblico, come se il privato non contasse. Eppure l’economia dell’Irlanda, membro di prima fila del club "PIGS" (secondo l’offensivo acronimo che doveva includere l’Italia e coniato, tanto per cambiare, dagli Inglesi) è implosa per il debito privato, non per quello pubblico.

Ma come sono arrivati, i nostri Inglesi, a questa situazione di quasi bancarotta? E’ molto semplice: a suon di costi bellici (il solito vizio) e di speculazioni finanziarie. E chi ha deciso sia la guerra in Iraq che la liberalizzazione finanziaria? Il signor Tony Blair. Per cercare di rimettere i conti a posto l’attuale Governo sta adottando misure che qui in Italia non ci sogniamo nemmeno. La riforma delle pensioni in corso avrà un impatto superiore al cumulo di tutte le misure adottate in Italia dai Governi di Amato, Dini, Prodi e Berlusconi. I recenti tagli della spesa pubblica e sociale approvati dal Governo Cameron superano i tagli italiani dell’intero ultimo decennio. La riforma dei costi universitari ha elevato le tasse d'iscrizione da 3.300 pounds a somme ricomprese tra i 6.000 ed i 9.000 pounds annuali, spostando brutalmente il peso del risanamento sulle giovani generazioni. Per decenni gli inglesi – come la maggior parte degli Europei – hanno frequentato le università praticamente gratis (la tassa d’iscrizione era stata elevata da 1000 a 3300 pounds da Tony Blair, tanto per cambiare). L’attuale generazione dovrà invece pagare cifre ricomprese tra i 24.000 ed i 36.000 pounds per corso universitario quadriennale, ed è molto scontenta, perché ritiene – non a torto – ingiusto dover pagare il conto delle avventure belliche e delle follie finanziarie innescate da Blair.

E noi dovremo sentirci dire che Berlusconi avrebbe "rovinato" un intero Paese? Per favore: se c’è qualcuno che ha rovinato il Regno Unito, quell'uomo è Tony Blair. Visto che ci siamo, tocchiamo anche un terzo difetto nazionale degli inglesi: la loro cronica, sistematica e incorreggibile tendenza a costruire una storia che gli faccia comodo. Basta leggere i loro libri che fino a qualche decennio fa liquidavano oltre quattrocento anni di dominazione romana in qualche pagina, asserendo, in modo assolutamente ridicolo, che "non aveva lasciato traccia rilevante". O pensate alla continua, perdurante esaltazione – oggi in chiave neofemminista – della regina Budicca che, nel corso della sua campagna contro i Romani, non solo sterminò l’intera popolazione di Londra perché "contaminata" dal collaborazionismo, ma sottopose migliaia di altri prigionieri a mortali torture druidiche di un'atrocità impensabile, e probabilmente insuperata, per efferatezza e lunghezza.
Ancora oggi, i loro libri di storia continuano a fare allegramente finta che la Gran Bretagna abbia inventato il capitalismo – e non solo la sua sistematica applicazione industriale, con l’impiego forzato di donne e bambini per 16 ore al giorno – quando tutti gli storici onesti riconoscono  che il capitalismo è nato in Italia nel 1400-1500, come dimostrato dall’invenzione della banca, della contabilità a partita doppia, dei contratti commerciali, etc. Ancora, pensate allo storico Denis Mack Smith e alle sue opere, tutte costellate di negativismo e disprezzo verso il nostro Paese. Che tipo di persona può essere uno storico che sceglie di dedicare la sua vita ad un Paese che disprezza?

Nell’ultimo velenoso servizio dedicato all’Italia – che ho deciso di non leggere –  mi dicono che l'Economist avrebbe esteso le sue velenose e rabbiose considerazioni anche alla storia del nostro Paese e particolarmente al Risorgimento. Qualche nostro connazionale ha scritto lettere di protesta alla redazione del settimanale inglese, restando comunque in un'ottica difensiva e antinazionale, peraltro tipica della nostra minoranza di anglofili, più o meno complessati. Si tratta, a mio parere, di un errore. Non abbiamo veramente proprio nulla di cui difenderci con gli inglesi, neanche in termini storici. Chiunque conosca la loro storia, in particolare degli ultimi due secoli, sa che essa è letteralmente costellata da aggressioni, occupazioni e massacri di inermi e innocenti civili.

Dai milioni di irlandesi oppressi e decimati per tre secoli e lasciati morire di fame mentre gli inglesi si appropriavano dei loro miseri raccolti, alle decine di migliaia di indù bruciati vivi nella rivolta anticoloniale di metà Ottocento, dall’invenzione dei campi di concentramento in cui, agli inizi del Novecento, morirono di fame e di stenti circa 150.000 donne, vecchi e bambini boeri, fino ai bombardamenti che uccisero 800.000 civili tedeschi (dei quali 150.000 bambini) nella seconda guerra mondiale e agli oltre 600.000 civili morti nella recente guerra in Iraq. Ma di cosa dovremmo scusarci, con loro? Del nostro tardivo tentativo – attraverso le occupazioni di Libia ed Etiopia – di assumere la dimensione imperiale che la maggior parte dei Paesi dell’ Europa Occidentale – Gran Bretagna e Francia in testa – aveva già raggiunto? Ma per favore! O per la seconda guerra mondiale? Ci siamo già scusati con tutti, e comunque l’abbiamo persa. Ma visto che ci siamo, una domandina provocatoria: come mai, a fronte della fermissima resistenza greca contro l’ingiusta aggressione italiana, nessuno nell’Italia fascista pensò mai di bombardare a tappeto le città greche e sterminarne gli innocenti civili? Chiudiamola qui, e rapidamente, che è veramente meglio per tutti.

Gli inglesi oggi soffrono perché il loro Pil sta ri-scivolando dietro quello italiano e, soprattutto, perché l’Italia non è stata e non sarà coinvolta nella crisi che ha travolto Grecia, Irlanda e Portogallo e che mette a rischio, oltre che la Spagna, la stessa Gran Bretagna. In altri termini, gli Inglesi – che ricordano quando nell’autunno del 1992 lira e sterlina dovettero insieme uscire dal Sistema Monetario Europeo – oggi soffrono perché l’Italia, per la prima volta in oltre 40 anni, non è al centro di una crisi finanziaria o monetaria europea. Si tratta di una svolta storica per il nostro Paese, ma a loro, ovviamente, dà fastidio. Alcuni affermano che dovremmo essere più pazienti, anche perché gli inglesi spesso hanno grosse difficoltà ad adeguarsi al presente e restano un po' indietro. Basterebbe pensare alla storica riforma con la quale Papa Gregorio XIII nel 1582 introdusse l’odierno calendario gregoriano, riconosciuto dalla Gran Bretagna solo nel 1752, dopo ben 170 anni di ritardo (e calendario sbagliato). Oggi, quindi, non ci resterebbe che sperare, più o meno pazientemente, che gli inglesi ci mettano un po' di meno ad adeguarsi alla realtà. Personalmente non sono d’accordo con tale visione, in quanto vedo, in primis, tantissima mala fede. In ogni caso, nel frattempo, direi di lasciarli letteralmente ragliare al vento, o abbaiare alla luna. Ignoriamoli e basta. (l'Occidentale)

venerdì 1 luglio 2011

Il Pd adesso fa la morale ma soltanto agli altri. Fabrizio Rondolino

«Mi lasci anche dire che questa cosa che uno che è stato consigliere al ministero dei Trasporti diventi il braccio destro di Bersani fa parte di un immaginario polemico che non ha consistenza», s’è lamentato il segretario del Pd in un’intervista al Messaggero. Bersani ha ragione: Franco Pronzato, arrestato l’altro giorno per corruzione e frode fiscale, non era il capo del suo staff. Ma è stato pur sempre il responsabile nazionale per il trasporto aereo del Partito democratico, e molto probabilmente è per questo che è diventato consigliere d’amministrazione dell’Enac. I giornali esagerano sempre, e la semplificazione fa parte del nostro mestiere: ma semplificare a volte aiuta a capire, mentre minimizzare può essere un modo (pericoloso) per nascondere la testa sotto la sabbia, fingere che non sia accaduto nulla, e continuare come prima.

Bersani nega che nel Pd esista una «questione morale», e anche su questo possiamo convenire. «Questione morale», del resto, è un termine particolarmente odioso, coniato a suo tempo da Enrico Berlinguer per distinguere il Pci - un partito «onesto» che però non vinceva mai le elezioni - dagli altri partiti, che invece raccoglievano il consenso degli italiani e governavano da decenni, ma, appunto, soltanto in virtù di un patto sciagurato fondato sulla corruzione e sull’appropriazione indebita delle risorse pubbliche. La «diversità» del Pci, che scaturiva da una sua presunta superiorità «morale», condannò quel partito all’impotenza e alla marginalità politica e, soprattutto, introdusse nel dibattito politico una categoria - la «morale», appunto - che con la politica non c’entra nulla e che invece, come la storia successiva si incaricò di dimostrare, c’entra molto con l’idea che i tribunali contino più dei Parlamenti. Quel veleno continua a circolare nelle vene del nostro scassatissimo sistema politico, e se Bersani ne prende le distanze - s’immagina non soltanto per il suo partito, ma per tutti - non si può che applaudire.

Esiste però una «questione politica», e su questa il segretario del Pd dovrebbe mostrare più coraggio e maggiore nettezza nei giudizi. Tanto più che Bersani sarà con ogni probabilità il candidato del centrosinistra per palazzo Chigi, e fra due anni (o anche prima) potrebbe guidare il governo del Paese. Non è sufficiente, per un premier in pectore, esprimere «amarezza». Non è sufficiente circoscrivere l’episodio sminuendone la portata e il significato. E non è neppure sufficiente - sebbene sia giusto e corretto - mostrarsi garantisti e rispettosi delle prerogative della magistratura.
La Prima repubblica naufragò sullo scoglio di un’inchiesta giudiziaria che, se pure risparmiò almeno in parte il Pci-Pds, travolse un intero sistema politico con conseguenze che tuttora fatichiamo a valutare nella loro immensa, devastante portata. La Seconda repubblica, nata sull’onda di una ribellione «morale» sapientemente alimentata da giornali, giudici e politici in cerca di facile successo, rischia ora un destino analogo: ma più volgare, più meschino, più subdolo.

Ai partiti e ai loro tesorieri si sono sostituiti i faccendieri, gli intermediatori d’affari, i lobbisti più o meno occulti, che lavorano prima di tutto per sé e per i propri amici, e soltanto indirettamente per i politici di riferimento, mestamente ridotti da burattinai a burattini più o meno consapevoli.
Dal segretario del Pd ci si aspetta dunque qualcosa di più, molto di più. Il «sistema Morichini» (e ci perdonerà Bersani per questa ulteriore semplificazione polemica) non appare molto diverso da altri «sistemi» prossimi o contigui alla politica: favori, affari, corruzione, concorsi truccati, condizionamenti più o meno occulti della vita economica e finanziaria del Paese, finanziamenti non trasparenti, imbrogli e inganni all’insegna di una sostanziale, devastante «privatizzazione» della politica.

Non è qui in discussione il moralismo peloso di chi sventola la propria presunta purezza per mettere alla gogna gli avversari; o il qualunquismo consolatorio e autoassolutorio di chi dice che «sono tutti uguali», e da questo deriva l’autorizzazione a comportarsi come gli pare; e neppure il giustizialismo - che pure tanti danni feroci ha prodotto in quel che resta della sinistra italiana - che s’illude di affidare al codice penale, e all’arbitrio dei magistrati che lo applicano, la salvezza della nazione. È in discussione la capacità della politica di riprendere le redini del Paese, di assumersi le proprie responsabilità, di rinnovarsi senza cedere alla demagogia né al populismo, e di indicare un orizzonte di riscatto che sappia liberare le tante energie positive che, a sinistra come a destra, sono oggi imprigionate da un sistema truccato. Denunciare i difetti degli altri e nascondere i propri non è la strada giusta. Qualcuno deve pur cominciare a dire la verità agli italiani: e se fosse Bersani a farlo, non potrebbe che venirgli del bene. (il Giornale)