mercoledì 30 giugno 2010

Più che alla libertà dovremmo pensare alla serietà dell'informazione. Leonardo Guzzo

Nemmeno un anno fa la collana Meridiani della Mondadori ha finito di pubblicare una corposa storia del giornalismo in Italia, riconoscendo, con un’antologia di scritti delle più prestigiose firme italiane, dignità letteraria al mestiere di divulgare le notizie. Eppure, mentre qualcuno si adopera per strappargli di dosso l’aura di fratello povero della letteratura, il giornalismo italiano dà pessima prova di sé.

Liste di proscrizione sbattute in prima pagina; corrotti e corruttori, veri o presunti, additati al pubblico ludibrio; casi montati senza nemmeno verificare le fonti, a rischio di clamorosi buchi nell’acqua; scandali del figlio, della suocera o della comare per colpire chicchessia. La stampa nostrana sembra affetta da una pericolosa “sindrome da tabloid”, scivola lungo una deriva scandalistica aggravata dal fumus persecutionis e dalla malafede politicamente orientata. L’esperimento perpetrato per un quindicennio ai danni di Berlusconi ha fatto scuola. Invece di disgustare. Ma in Italia, a quanto pare, le cattive abitudini si prendono subito.

Non si tratta, a dire il vero, di una novità assoluta, piuttosto della riedizione di un classico, un attacco virulento di un’antica malattia italiana. Già negli anni ’80, in un’intervista sul Corriere della Sera, Hans Magnus Enzensberger lamentava che “in Italia tutto finisce in giornalismo”. Sarebbe a dire “in spettacolo”, chiacchiericcio senza costrutto, ipocrisia che nasconde la sostanza delle cose. Un difetto cronico, insomma, che si è pericolosamente acuito nel tempo.

Il giornalismo di oggi somiglia sempre più alla politica: strumentale, tendenzioso, disposto a barattare l’onestà con la convenienza attraverso i più sfrenati equilibrismi. Hai voglia a riempirsi la bocca di “deontologia professionale” e “obiettività della notizia”. La faziosità, coltivata con passione, raggiunge ambiti impensabili. Vanno bene le opinioni, ma i dati, almeno quelli, dovrebbero essere dati. E invece la manipolazione, la falsificazione raggiunge anche loro: a bordate di fango la realtà dei fatti è ridotta a un relitto e annega in una palude di ipocrisia, insinuazione, sospetto. Le colonne dei giornali diventano il surrogato delle aule giudiziarie, la gogna mediatica sostituisce la condanna.

Gli scandali dei potenti, si dice con una buona dose di faccia tosta, sono schiaffi alla coscienza dei cittadini. E sono invece semplici scorciatoie verso il successo editoriale. I veri schiaffi fanno molto meno rumore e assai più male. E non hanno bisogno, per essere sferrati, di escort e microspie, appostamenti e perquisizioni. Basterebbe guardarsi intorno, puntare l’obiettivo sulla gente, cercare le notizie dove sono, affrontare i problemi concreti, quelli sì scesi sotto il livello della comune indignazione: la precarietà, l’emarginazione, la cattiva amministrazione, la meritocrazia annunciata e tradita.

Sfortunatamente si tratta di temi troppo poco eclatanti o “pruriginosi”. I giornalisti italiani frequentano per lo più un’altra parrocchia: il sensazionalismo è la via breve per il successo; la mistica dell’uomo della strada, dell’orecchio teso al marciapiede, del cane da guardia della democrazia infiamma i cuori ma molto meno le menti. La verità è che il giornalismo è un mestiere difficile. In bilico tra coraggio e paura, tra coscienza e opportunismo. Richiede misura, tocco, stile (non solo letterario). E’ spesso questione di sottigliezze, sfumature che contrastano con la rozzezza e i modi truculenti di certi “maestri” d’oggigiorno.

A guardarla bene, con un po’ di malizia, la casta giornalistica abbonda di “camerieri dell’informazione” o protagonisti a tutti i costi, molto volpi e poco leoni, animati da una logica del profitto, personale o aziendale ma sempre “particolare”, che mal si sposa con le responsabilità sociali del “quarto potere”.Si fa un gran parlare di libertà di stampa, ma forse la questione è diversa. “Non è la liberta che manca”, rifletteva Leo Longanesi, “mancano gli uomini liberi”.

Invece di accanirsi soltanto sull’art. 21 della Costituzione (sempre sia benedetto…) sarebbe magari il caso di concentrarsi sulla levatura morale, o almeno sulla correttezza deontologica, dei professionisti della stampa. Più che alla “libertà di informazione” bisognerebbe pensare alla “serietà dell’informazione”. In caso contrario il giornalismo, lontano dall’elisio della letteratura e dalla trincea della denuncia sociale, rischia di ridursi a quello che Gide detestava: tutto ciò che domani interesserà meno di oggi. (l'Occidentale)

martedì 29 giugno 2010

Quel "gradino" verso il terzo livello. Riccardo Arena

“Se è vero che non pochi uomini politici siciliani sono stati, a tutti gli effetti, adepti di Cosa nostra, è pur vero che in seno all’organizzazione mafiosa non hanno goduto di particolare prestigio in dipendenza della loro estrazione politica. Insomma, Cosa nostra ha tale forza, compattezza e autonomia che può dialogare e stringere accordi con chicchessia: mai, però, in posizioni di subalternità”. Così Giovanni Falcone, in un articolo pubblicato postumo sull’Unità del 31 maggio 1992, dava la propria idea del rapporto tra mafia e politica negli anni in cui a indagare era il pool antimafia di cui egli era l’anima. Le ombre oggi tornano e l’accusa si aspetta che il processo Dell’Utri riscriva la storia: sull’Unità di venerdì, Nino Gatto, il procuratore generale del giudizio d’appello contro il senatore del Pdl, parla di un “interscambio tra mafia e politica che germoglia”. Mentre le indagini sui presunti intrecci tra “poteri occulti” e mafia vengono chiuse e poi riaperte, nuovamente archiviate e poi di nuovo riprese, con una sequenza che dura da diciotto anni. In attesa che la sentenza Dell’Utri, come dice il pg Gatto, costruisca lo scalino su cui poi costruirne altri, per arrivare a verità mai scoperte.

Ma chi possiede la verità? L’idea di Falcone era abbastanza chiara: “Gli antichi, ibridi connubi tra criminalità mafiosa e occulti centri di potere – scriveva nello stesso articolo pubblicato dall’Unità – costituiscono tuttora nodi irrisolti… Fino a quando non sarà fatta luce su moventi e su mandanti dei nuovi come dei vecchi omicidi eccellenti, non si potranno fare molti passi avanti”. Ma il giudice ucciso a Capaci non aveva preconcetti, non partiva da teoremi, non parlava di entità, non considerava tutta la politica come nemica: e infatti quando gli era stata offerta su un piatto d’argento la “verità” su uno di questi omicidi eccellenti, quello che aveva visto cadere il presidente della regione Sicilia, Piersanti Mattarella, il magistrato aveva immediatamente incriminato per calunnia il “pentito” Giuseppe Pellegriti che falsamente accusava come mandante Salvo Lima. Di fronte alle sue palesi fandonie, come ha sempre spiegato anche il pm che andò con Falcone a interrogare Pellegriti, Giuseppe Ayala, Falcone non esitò un istante a procedere contro di lui.

In un articolo pubblicato su “Centonove” (“Giovanni Falcone: avversato da vivo, santificato da morto”) Umberto Santino, presidente del Centro Impastato, ricostruisce punto per punto l’amarezza del giudice silurato dai suoi colleghi al Csm e bocciato dallo stesso Consiglio, che gli aveva preferito Antonino Meli come consigliere istruttore. Di fronte a un capo come Pietro Giammanco alla procura di Palermo, il giudice aveva poi accettato l’invito di Claudio Martelli, ministro della Giustizia del governo Andreotti, ed era andato alla direzione degli Affari penali del dicastero di via Arenula. Attirandosi gli strali dell’Unità, che il 12 marzo del 1992 lo aveva definito inadatto al ruolo di capo della costituenda Superprocura antimafia. “Il perché era esplicito – scrive Santino –. Troppo legato a Martelli. Meglio Cordova, l’ex procuratore di Palmi approdato a Napoli”.

Mai, insiste Santino, Falcone aveva parlato di terzo livello, della cupola politico-mafiosa che avrebbe diretto le strategie occulte, ma di tre livelli dei reati di mafia. E, forse per questo, era stato accusato dall’antimafia militante di avere “tradito” la “causa comune”. Eppure era stato lui a scoperchiare il calderone infetto di don Vito Ciancimino, politico mafioso a tutti gli effetti. Ma questo non bastava. I professionisti dell’antimafia, capeggiati da Leoluca Orlando, accusarono Giovanni Falcone di nascondere nei suoi cassetti le prove contro gli uomini politici collusi con i boss. Ma il magistrato non si lasciò intimidire e continuò per tutta la vita a rifiutare il teorema del tavolo ovale al quale sedevano insieme, per decidere stragi e delitti, sia rappresentanti della mafia che quelli della politica.

Falcone saltò in aria il 23 maggio del 1992, Paolo Borsellino il 19 luglio, e da allora non passa giorno in cui non si cerca il mandante occulto di quelle stragi. Cioè l’entità, per dirla con il procuratore nazionale Piero Grasso, che avrebbe voluto eliminare nel ’92 i due giudici antimafia e, l’anno successivo, avrebbe ordito le trame che portarono ad altre bombe a Roma, Firenze e Milano. Le procure di Caltanissetta, Palermo e Firenze hanno collezionato una serie di indagini, sempre chiuse per mancanza di elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio, ma anche per la mancanza di tempo necessario a completare le verifiche. Da un’inchiesta all’altra, senza soluzione di continuità. Silvio Berlusconi e Dell’Utri sono stati indagati da tutti e tre gli uffici inquirenti e le loro posizioni sono state sempre archiviate. Dell’Utri è finito sotto processo per concorso esterno e ha avuto nove anni in primo grado. Ora si aspetta che “il gradino”, come lo ha chiamato il pg Gatto prima che i giudici entrassero in camera di consiglio, venga demolito o faccia da base per costruirne altri. (il Foglio)

Briganti e mandarini. Davide Giacalone

E’ in corso un importante giro di nomine, che rimette in moto la giostra del potere. I più si soffermano a studiare la mappa degli spostamenti, seguendo la ragnatela delle amicizie, delle gratitudini, dei crediti accesi e dei debiti saldati, cercando di prevedere l’andamento del borsino dei potenti, anche per correre a raccomandarsi con i potentati di riferimento. Nel calderone finisce di tutto, non distinguendosi le autorità di garanzia (dalla Consob all’Agcom all’Antitrust) dalle aziende detenute dallo Stato (dalle Ferrovie alla galassia Rai) passando per le casseforti finanziarie e consulenziali (dalla Cassa Depositi e Prestiti a Invitalia). Né, di distinguere, sembrano capaci i candidati e gli aspiranti, che passano da una funzione all’altra, con evidente consapevolezza delle proprie capacità. In questo festival del “dove vado e cosa mi dai”, si segnala la vera anomalia del mercato italiano, cui nessuno sembra far caso.

Al tema ci s’accosta, nella gran parte dei casi, col lo stesso spirito con cui si partecipa ad un pettegolezzo: sai, il Tizio ha litigato con Caio, perché non ha fatto il piacere a Sempronio, ma ora viene risarcito dal Tale, perché fece comodo ai suoi amici della M’inciucio Spa. Oppure si usano unità di misura inappropriate, come quelle dell’età: Lamberto Cardia, ho letto, non solo è in Consob dal 1997, non solo ha 76 anni, ma s’appresta a prendere la presidenza delle ferrovie. La meritocrazia è così distante dai costumi nazionali che ci s’attacca a tutto, anche all’anagrafe, pur di non misurare le persone in base alle capacità e alle competenze.

Ma lasciamo perdere la meritocrazia, tanto sono parole al vento, vengo al dato più macroscopico, quello talmente evidente che nessuno ci fa caso: è mai possibile che nessuno di questi signori voglia diventare ricco? I soldi, se lecitamente guadagnati, sono un tributo alle capacità e al successo, perché gente di così alto valore professionale preferisce restare a reddito fisso e garantito? Non solo lo preferisce, ma si batte strenuamente per non perdere la “sistemazione”, composta da soldi, ufficio, macchina con autista, segretaria e onori annessi, compresi gli inviti al Quirinale. La risposta è: perché il nostro è un sistema malato, in cui il mercato è occupato dallo Stato e il personale che lo amministra vale poco e niente, sul mercato.

In un sistema sano il percorso dovrebbe essere quasi opposto: ci si distingue per bravura e, in ragione di ciò, si viene scelti per una determinata funzione pubblica; la si assume come un onore e la si onora con spirito di servizio, essendo pagati meno di quel che si vale nel mercato, ma arricchendosi di conoscenze e mestiere; quindi si conclude l’esperienza e si torna alla propria professione, monetizzando anche le tante cose che si sono imparate, diventato, se possibile, ricchi. Così dovrebbe essere, così succede nei sistemi sani. Da noi no. Da noi mi sento ancora rimproverare (scusate il riferimento personale) di avere collaborato all’elaborazione di leggi e, poi (dopo otto mesi), essermi “venduto” a quelli che quelle leggi dovevano applicare. Ma è esattamente così che si dovrebbe fare, non rimanendo per tutta la vita a carico della spesa pubblica.

Coltiviamo, invece, l’impermeabilità fra Stato e mercato, così accrescendo due mali: quello di una classe di mandarini, che si scambiano il posto ma non cambiano la funzione, e quello di un’imprenditoria che non sente le regole come proprie e non le vive come valori, ma solo come ostacoli e impedimenti. Per giunta con ragioni da ambo le parti, perché nell’eterna conservazione dell’esistente occorrono, nelle autorità pubbliche, più capacità d’aggirarsi nella selva delle regole che non visione strategica e volontà di disboscare, e, del resto, quelle regole sono così cervellotiche e intimamente immorali che c’è un solo modo per sopravvivere loro, farle fesse. Così proseguendo precipitiamo il Paese nella regressione corporativa e medioevale, consegnandone il governo ai magistrati amministrativi e delegando ai briganti l’innovazione. Un gran successo, non c’è che dire.

Statene certi, la fiera delle nomine si chiuderà, si conteranno i vincenti e i perdenti, i traslocati e i relegati, ma i loro nomi saranno sempre gli stessi, anche perché la nostra classe dirigente s’è immiserita in modo drammatico, perdendo quel minimo d’anticorpi che imponeva di non forzare la spartitocrazia oltre un certo limite. La mattina dopo, quando le caselle saranno riempite, ciascuno prenderà le misure per continuare il proprio Monopoli, ma, alla fine, tanto i regolatori e controllori, quanto i regolati e controllati, sapranno parlare la stessa lingua, quella del convivere, accomodare, intessere relazioni. Non ci perde nessuno, quindi? Eccome: è la disfatta del merito, l’umiliazione della qualità, la frustrazione delle speranze e l’eterna emarginazione dei giovani e dei non inseriti.

Poi, se volete, cambiate pure qualche articolo della Costituzione (che andrebbe cambiata su larga scala), così ci campiamo di seminari, nei prossimi anni.

giovedì 24 giugno 2010

Salvate il soldato Francesco Cossiga. Marcello Veneziani

Ma che fine ha fatto Francesco Cossiga? Si dichiara già morto. Ha annunciato per cinque anni la sua volontà di ritirarsi a vita privata, e tutti avevamo smesso di credergli vedendolo sparire. Poi l'ha fatto sul serio. Da tempo langue in un preoccupante silenzio. Depressione, annunci di catastrofe, ora ha deposto un ordigno-testamento in forma di libro in cui rivela di essere defunto.
Cossiga non è solo un ex capo dello Stato, un esternatore folle, o l'inventore del Cazzeggio istituzionale. Giusto vent'anni fa, col suo formidabile piccone, Cossiga mise in cinta la Repubblica italiana, anche se poi non riconobbe la figlia che ne nacque. Voi dite Mani pulite, i referendum di Segni, la Lega, la discesa in campo di Berlusconi. Tutto vero, ma vennero dopo. In principio fu Cossiga. Che per cinque anni se ne stette a cuccia al Quirinale, rispettoso del mandato istituzionale, rigoroso osservante del ruolo e della norma, per far dimenticare le fuoruscite dal protocollo del suo predecessore Sandro Pertini. Poi, vent'anni fa, dopo che era caduto il Muro e prima che il Pci si suicidasse, Cossiga cominciò a dar di matto. Picchiò duro sui pregiudizi fradici su cui si fondava la Repubblica consociativa e partitocratica. E per due anni colpì, disse la verità, suscitò la voglia di cambiare, cavalcò per primo l'antipolitica, portò la fantasia al potere. Fu il nostro De Gaulle, ma solo nella pars destruens. Infatti a De Gaulle si ispirò quando fondò il suo partito, l'Udr, che poi lui stesso sconfessò. Tentarono l'impeachment, come avevano tentato di inguaiarlo ai tempi oscuri del suo ministero degli Interni, dopo il caso Moro. Ma oggi non saremmo qui se non ci fosse stato lui. Ricordo che in quel tempo io fondai un settimanale che guardava a lui per fondare una nuova repubblica. Gli dedicai molte copertine e appelli. Sperai in lui, ma lui in cambio mi offrì un paio di belle interviste, qualche brillante conversazione e il privilegio di entrare in Senato senza cravatta, vestito da extraparlamentare ed extracomunitario. Cossiga non è un fondatore ma un affondatore, non fondava seconde repubbliche come Pacciardi; era piuttosto uno Spacciardi, perché dichiarò spacciata la Repubblica che egli stesso incarnava. Un presidente kamikaze che aveva pilotato con sorriso beffardo la prima Repubblica a sfasciarsi sul nemico. La fortuna e la disgrazia di Cossiga fu che andò al Quirinale praticamente da ragazzo, al paragone con gli altri presidenti. E tuttora, 25 anni dopo, è il più giovane capo dello Stato vivente. Siede al Senato nello scranno col numero 007, lui che amava giocare con le spie. Ma si è barricato in casa e ha depositato una bomba a orologeria. Parlo di un bel libro dal brutto titolo, Fotti il Potere, che ha scritto con Andrea Cangini. Non va in giro a presentarlo, come ci si aspetta da ogni autore e ancor più da uno come lui. Si rifiuta, si nasconde, vive la sua solitudine depressa e dichiara di essere già morto. Al di là di alcuni lati comici e grotteschi, Cossiga è un personaggio tragico. Dai tempi di Moro ai tempi del Piccone, Cossiga ha dovuto sparare il colpo di grazia a chi più amava: la Dc e i suoi capi, la cultura del diritto, la repubblica dei partiti in cui aveva prosperato. Più il Vaticano, i grembiulini, la Gladio, il Mossad, i poteri forti (Cossiga sostiene che ci furono interessi economici alle origini di Mani pulite, citando un'inchiesta dell'Italia settimanale sulla spartizione dell'Italia a bordo dello yatch Britannia). E non si è riconosciuto nelle creature che ha via via messo al mondo, il Nuovo e tutti i suoi Testimoni, il Partito e i suoi straccioni di Valmy, come li battezzò lui. Senza di lui probabilmente non ci sarebbe stato né il primo comunista alla guida del governo, dico D'Alema, né la destra postfascista al potere, e forse nemmeno l'antipolitica, dico Di Pietro, Bossi e Berlusconi. Fu precursore perfino di Sgarbi e Dagospia. È lui stesso in questo libro a notare il paradosso di D'Alema portato da lui al governo con l'okay dell'America, con il compito di far entrare l'Italia in guerra con la Serbia: e D'Alema, primo comunista al potere, fu colui che bombardò con la Nato l'ultimo regime comunista d'Europa, provocando, sempre secondo Cossiga, «535 morti tra vecchi, donne e bambini». È lui lo sdoganatore dell'Msi, che poi ha criticato la svolta nel vuoto di Fini, come criticò la deriva giacobina del rustico Di Pietro, che pure era suo figliastro: la sua vanga era la versione rurale del piccone. E non solo: qui vaticina il fallimento di Berlusconi, a cui pure mostra umana simpatia e sostegno, e di cui riconosce la voglia di lasciare un segno nella storia e non di pensare alle leggi ad personam, come dicono i suoi avversari. E a differenza loro lo critica non per l'autoritarismo ma per la sua debolezza. Cossiga è tragico quando sostiene che la vita regge sulla menzogna, e la vita politica ancora di più: «La verità è che la menzogna ben più della verità è all'origine della vita, perché se gli uomini si sono evoluti è stato solo grazie alla loro capacità di mentire agli altri e a se stessi», Cossiga si diverte a dire la verità che coincide paradossalmente e tragicamente con la menzogna. La sua visione tragica è ancora accompagnata da un sardonico sorriso (l'aggettivo non è casuale per il sassarese). Ma Cossiga è tragico soprattutto perché in questo libro si sente odor di morte e di sfacelo, al punto da concludere il suo libro: «Io ero già morto ma la gente non se n'era accorta». Non vorrei spargere falsi allarmi e invadere la sua vita privata, ma temo che Cossiga stia accarezzando la tragica idea di rivolgere il piccone contro se stesso. (il Giornale)

giovedì 17 giugno 2010

Bersani è fatto così: solo i suoi “forse” sono fermissimi. Lodovico Festa

“Se Bertolaso e il Cavaliere venivano sorpresi sul lettino di un centro benessere”.
Dice Marco Lillo sul Fatto (17 giugno).
Il Cavaliere su un lettino di un centro benessere? Ma non usava solo lettoni putiniani?

“Il mio è un sì con riserva”
Dice Pierluigi Bersani alla Stampa (17 giugno).
Bersani è fatto così: i suoi “sì” sono con riserva, i “no” incerti. Solo i suoi “forse” sono fermissimi.

“Il timore che nelle 410 mila intercettazioni non trascritte ma non distrutte”.
Dice il sommario di un articolo dell’Unità (17 giugno).
Sono fantastici i giornalisti forcaioli un momento sostengono che in Italia ci sono 25 mila intercettazioni poi per esibire la forza dei loro eroi in toga spiegano che in una sola vicenda giudiziaria vi sono ancora “410 mila” (diconsi “410mila”) intercettazioni non trascritte.

“E il sindacato di Detroit sceglie un avvocato come leader”.
Dice il titolo di una nota sul Corriere della Sera (17 giugno).
Mica come quegli sfigati della Fiom di Pomigliano che si sono scelti come leader l’ex pm Di Pietro (utilissimo per trovare un appartamento non un posto di lavoro!).

“Nessuno può obiettare che dopo un quindicennio abbondante di abusi che lo scempio delle intercettazioni diffuse senza criterio a mezzo stampa andasse regolamentato per legge”.
Dice Alessandro Campi sul Riformista (17 giugno).
Interessante la linea campian-finiana: sabotare senza obiettare, solo per sfizio.

Spatuzza pirandelliano. Davide Giacalone

Discutendo pubblicamente di un siciliano criminale, Gaspare Spatuzza, l’Italia rende involontario omaggio ad un grande siciliano, Luigi Pirandello, mettendone in scena uno dei suoi ribaltamenti della verità. Con assai meno fascino, però, e sicuramente in modo rozzo, perché ‘u tignusu è un animale assassino, ma non il cretino che certuni vorrebbero far credere.

E’ stato arrestato nel 1997 e se ne è stato zitto, per nove anni, in un carcere di massima sicurezza, seppellito nel cemento, ma ancora in grado di comunicare. Dice di avere avuto una crisi mistica, lui che aveva ammazzato don Puglisi, che aveva strangolato e sciolto nell’acido un ragazzino, che per i fratelli Graviano aveva ammazzato decine di volte. Non m’intendo di mistica, ma mi permetto di non crederci. Sta di fatto che, nell’estate del 2008, inizia a collaborare. Non parte compiacendo i procuratori che lo interrogano, come fanno molti, ma trafiggendoli con i riscontrati racconti sull’omicidio di Paolo Borsellino. Così un intero processo, passato in tre gradi di giudizio e la cui sentenza è divenuta definitiva, non solo deve essere ribaltato, ma inquirenti e giudicanti ci fanno la figura, a dir poco, dei superficiali. Lui, Spatuzza, rubò o preparò la macchina che esplose, mentre, fino a quel momento, la giustizia aveva creduto ad un soggetto più assurdo che improbabile, spiantato, drogato, frequentatore di transessuali (la “sdillabbrata”, la sua preferita) e, con tutte queste belle caratteristiche d’affidabilità, raccontò di avere preso parte a vertici mafiosi. Una boiata cubica, che al processo s’era rimangiato. Eppure la giustizia s’era bevuta tutto.

Spatuzza, dunque, era credibile. Un collaborante prezioso, anche se scomodo, visto che distruggeva il lavoro di diverse procure. Il colpo di scena arriva nel dicembre del 2009, quando la procura di Palermo lo porta nell’aula del processo a Marcello Dell’Utri e lo fa parlare, in mondovisione, e qui Spatuzza afferma che l’imputato Dell’Utri era il tramite fra la mafia, nelle persone dei Graviano, e Berlusconi, che fra i due gruppi c’era stata una trattativa, relativa alla liberazione dei due fratelli, i quali, in cambio, organizzarono le stragi, volute da Berlusconi. Racconto immediatamente incenerito dai Graviano stessi. Il più influente, il capo, aggiunge un particolare: perché mai avrei dovuto trattare la mia liberazione, visto che avevo da scontare poche settimane e nessun altro procedimento pendente? Già, perché? Ma la domanda vera è: perché Spatuzza si produce in quello spettacolo?

A chi glielo domanda egli dice di non avere rivelato prima quelle cose, incorrendo nella violazione della legge che impone di dire tutto entro i primi sei mesi di collaborazione, perché aveva paura, visto che Berlusconi era diventato capo del governo. Peccato che, quando si decide a rivelare, il presunto mandante delle stragi è ancora capo del governo. Perché, allora, se le sue non sono parole in libertà, la paura gli è passata? E perché continua a genuflettersi ai suoi padrini, i Graviano, che gli fanno fare la figura della testa di minchia? In attesa delle risposte, arriva la decisione della commissione del Viminale, che gli nega la protezione speciale, dedicata ai pentiti. E qui parte lo scandalo pirandelliano: hanno voluto punirlo perché ha parlato, perché ha detto cose indicibili. No, calma, rimettiamo in fila i fatti.

Lo status di pentito gli fu riconosciuto proprio in coincidenza con le dichiarazioni su Dell’Utri, quindi, se proprio si vuole vedere un rapporto di causa effetto, questo funziona all’esatto contrario: fu un premio. La protezione, del resto, si riferisce a quelli che possono essere liberati, giacché standosene in un carcere di massima sicurezza di rischi se ne corrono pochi. Quindi, chi mena scandalo, evidentemente, aveva messo nel conto un premio maggiore: la liberazione (che questi disonorati ottengono trattando con i magistrati, ai quali raccontano che per averla trattarono con i politici). Il diniego della protezione speciale, del resto, non inficia minimamente la credibilità e utilizzabilità del collaborante, sicché le cose che ha detto valgono tanto quanto prima. Tutta questa polemica, all’immediata vigilia della sentenza su Dell’Utri, non porta bene all’imputato, che non si agevola della pretesa punizione di chi ha già parlato, ma, semmai, sconta il danno della buriana su chi si appresta a parlare, i suoi giudici, se non daranno ragione all’accusa. E, semmai, c’è da chiedersi il perché furono i procuratori a bruciare un collaboratore di sicura credibilità, esponendolo ad una deposizione non solo priva di qualsiasi riscontro, ma illogica da cima a fondo. Sicché, concludendo, i responsabili di quel che è accaduto si trovano proprio in procura e non al ministero dell’Interno, sul quale ricade l’irrituale responsabilità di avere applicato la legge.

La nostra realtà, insomma, è come l’umorismo di cui parlava Pirandello: “erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta”.

mercoledì 16 giugno 2010

Quando i comunisti italiani tifavano Urss (altro che Trota). L'uovo di giornata

"Rinascita", quotidiano comunista (si può dire?), titola oggi così sulla Lega che tifa Paraguay: "Per fortuna! temevamo di fare il tifo per la stessa squadra!".Noi tifosi dell'Italia anticomunisti non avemmo mai questo dubbio negli anni sessanta.
Il 10 novembre 1963 a Roma allo Stadio Olimpico si giocò Italia-URSS per le qualificazioni ai Campionati Europei.
Lo stadio era gremito e sotto un enorme striscione inneggiante all'amicizia con l'URSS stazionavano migliaia di tifosi comunisti che fecero un tifo d'inferno per i russi. Al momento del vantaggio sovietico si udì chiaramente l'ovazione, ma lo striscione non fu mai inquadrato dalle telecamere (apparve solo il giorno dopo su qualche giornale).
L'Unità scriveva nella cronaca del giorno successivo: "...c'erano, logicamente, migliaia di persone piene di simpatia per i sovietici...la folla cominciava giustamente a dividersi tra tifosi liberi di parteggiare per l'uno o per l'altro.."Nelle pagelle, la stessa Unità, dava come voto ai russi ben tre 9 e quattro 8, facendo man bassa nel vocabolario per gli aggettivi: inarrestabile, entusiasmante, elevatissimo, perentorio, inesorabile, geniale, grintoso, stupendo, prodigioso, fulmineo, imprevedibile, roba da esame di giornalismo.Per la cronaca, la partita finì 1-1 e l'Italia fu eliminata avendo perso 2-0 a Mosca.
Nessuno fiatò il giorno dopo, neanche nel centrodestra: il fatto che i comunisti parteggiassero per l'URSS era dato per scontato, del resto la loro bandiera era identica a quella sovietica e le loro opinioni andavano di pari passo.
Oggi noto che a sinistra lo spartito è cambiato, non è più "democratico" scegliere per chi tifare: il tifo va fatto obbligatoriamente per l'Italia. Buono a sapersi, abbiamo dovuto aspettare un po' ma alla fine, se abbiamo perso qualche leghista, abbiamo acquistato un sacco di democratici.
Per inciso voglio aggiungere che a Firenze, città notoriamente rossa, dove la partita era data su maxischermo allo Stadio Franchi, al gol del Paraguay diverse decine di persone hanno esultato abbondantemente (la Nazionale non è gradita a molti fiorentini), ma questi non se li è filati nessuno.
Allora adesso tutti insieme gridiamo: "Forza Italia!" (nel senso della squadra, beninteso). (l'Occidentale)

venerdì 11 giugno 2010

Il Duce riabilitato. Arturo Diaconale

Nessuno lo avrebbe potuto mai prevedere. Tanto più chi ha vissuto durante la ventata della nuova Resistenza, della fase “laica, democratica e antifascista”, dell’arco costituzionale che avrebbe dovuto riproporre l’alleanza tra i vecchi partiti del Cnl e fissare i paletti di legittimità oltre i quali c’era solo il nero fascismo di ritorno. E non solo quelli delle prime generazioni del secondo dopoguerra ma anche quelli delle ultime e più recenti generazioni. In particolare quelli che hanno ascoltato le parole di Gianfranco Fini sul “fascismo inteso come male assoluto” e , quindi, condiviso il giudizio insito in questo concetto secondo cui il fondatore del fascismo, Benito Mussolini, debba essere considerato come il genio del male. Bene, chi è vissuto respirando l’aria spessa e densa di odori forti e netti dell’antifascismo , non può non rimanere stupito ed interdetto di fronte alla bizzarra circostanza che, in occasione del settantesimo anniversario del discorso con cui il Duce annunciò da Palazzo Venezia l’entrata in guerra dell’Italia, gli eredi diretti della nuova Resistenza, dell’antifascismo militante, della teoria dell’arco costituzionale ed i neofiti del fascismo male assoluto e di Mussolini genio del male, abbiano avviato una operazione di aperta e dichiarata riabilitazione del Cavaliere della prima metà del secolo scorso. Mussolini? Dittatore si ma, comunque, condizionato da Chiesa, monarchia, esercito, grandi industriali oltre che dai ras e dai gerarchi. Ed il fascismo? Regime autoritario senz’altro ma incapace di diventare totalitario a causa della sua sostanziale inefficienza.

E, soprattutto, Mussolini dittatore e fascismo autoritario sicuramente ma neppure da paragonare all“uomo solo al comando” dei nostri tempi ed al moderno regime che attraverso il controllo delle televisioni modella e condiziona i cervelli e le anime degli italiani. Insomma, Mussolini sarebbe un despota dilettante rispetto a quello professionista rappresentato da Silvio Berlusconi. Di conseguenza, di fronte all’esistenza attuale di un genio del male infinitamente superiore a quello del passato, quest’ultimo diventa automaticamente un genio del male relativo, che finisce automaticamente con l’essere rivalutato e riabilitato se rapportato e confrontato con il modello perfezionato e peggiore rappresentato dal Cavaliere dei nostri giorni. Non si tratta di una rappresentazione paradossale e farsesca del momento presente. Si tratta, purtroppo, di un dato reale. Pare che una sorta di nevrosi ossessiva si vada diffondendo tra gli uomini e le forze che sono schierate all’opposizione e li spinge a dare una rappresentazione sbiadita del passato pur di tratteggiare con colori marcati e violenti la realtà politica attuale. Questa sindrome, che produce esasperazione a getto continuo, nasce da precise ragioni politiche. Dipende dalla delusione di chi aveva sperato che prima l’offensiva giudiziaria, poi quella del gossip, successivamente quella degli scandali ed ora la più pericolosa di tutte rappresentata dalla crisi dell’euro e dell’economia occidentale, potessero compiere il miracolo di spiantare Silvio Berlusconi dal centro della scena politica nazionale. Ma, pur avendo cause politiche, non sembra in grado di spingere chi soffre di questa nevrosi e di questa delusione verso uno sbocco di natura politica. Gran parte dell’opposizione cede alla sindrome, si rifugia nell’esasperazione, si crogiola nella delusione impotente ed arriva addirittura a rimpiangere l’antico dittatore pur di poter meglio esecrare quello che, come ha detto Antonio Di Pietro, potrà essere rimosso solo se il Signore se lo richiamerà a miglior vita. Insomma, cose da pazzi! Che in termini politici si traducono nel rafforzamento continuo del Cavaliere di oggi. Gli italiani sono pratici. E sanno di non avere scelta se l’alternativa a Berlusconi è solo la follia collettiva! (l'Opinione)

martedì 8 giugno 2010

La Busi. Paolo Barnard

"Oggi quella del TG1 è un'informazione parziale e di parte". Questo dice la Busi, oggi, siamo nel 2010, lo dice oggi, e diventa un'eroina all'istante. Ventun'anni a servire nella cloaca del TG1 senza fiatare, e oggi per un'alzata di testa che non trova ragioni possibili nella morale, Busi gira in rete con l'etichetta di "Grande donna e grande giornalista". E' una scena da film di Totò, l'idiozia di chi ci casca è da film di Totò, il mio Paese è un film di Totò. Cioè una tragedia.p.s. Indovinello: ricordate Gruber, De Magistris? unite i puntini e ditemi dove troveremo la Busi fra qualche tempo, e con quale simbolo. Vincete un dvd di Totò.

martedì 1 giugno 2010

Veltroni, tra amnesie e self-promotion. Daniele Capezzone

Siamo adulti e vaccinati, e quindi comprendiamo bene l’esigenza di un leader politico in difficoltà di reinventarsi, di cercare nuove strade, di immaginare un nuovo “racconto”, di aprire nuovi sentieri. È il caso di Walter Veltroni: sconfitto alle elezioni, estromesso dalla guida del suo partito, improvvisamente un po’ più solo dopo anni di potere (nazionale e romano), l’ex segretario del Pd avrebbe potuto dare finalmente seguito alla sua idea, per lunghi anni solennemente annunciata sui giornali e alla tv, di dedicarsi ad altro, e in particolare all’Africa. E invece no: è prevalsa una rispettabilissima voglia di rimanere in campo e di riproporsi su un terreno tradizionalmente politico.
Pensa e ripensa, c’era una sola cosa che poteva tenerlo dentro il dibattito politico ma (apparentemente) lontano dai tatticismi dell’arcinemico D’Alema, consentendogli di darsi un’immagine fortissimamente antiberlusconiana (e quindi non sgradita al “partito di Repubblica”, alle procure, ai santoristi, ai dipietristi, ecc.) e al tempo stesso di tentare di agganciare un pezzo di opinione pubblica che oscilla “savianescamente” tra una giusta esigenza di pulizia della vita pubblica e una spiacevole e pericolosa furia moralistica, dalla quale non è mai nato nulla di solido e meno che mai di liberale. Elementare, Watson: si trattava di riciclarsi in veste antimafia. E allora, nel breve volgere di pochi mesi, ecco l’ingresso nella commissione parlamentare antimafia e una serie di sortite pubbliche, fino all’ultima “rivelazione”: la necessità di riscrivere la storia delle stragi mafiose del ‘93, insinuando un oggettivo (e chissà, forse non solo oggettivo) ruolo di quegli eventi nell’aprire la strada ad una nuova forza politica (indovinate voi quale).
A ben vedere, la fragilità di tutto l’impianto appare evidente, per almeno quattro buone ragioni. Primo: se Veltroni sa qualcosa di concreto e di preciso, ha il dovere di recarsi da un magistrato e di formulare accuse precise e circostanziate. Il resto sono solo chiacchiere e fumisterie. Secondo: è per lo meno curioso che tutta questa “voglia di verità” venga fuori solo adesso, diciassette anni dopo, al termine di tre lustri e mezzo nei quali Veltroni non è stato un “quisque de populo”, ma un Vicepresidente del Consiglio, un ministro, un sindaco di Roma e un Segretario del secondo maggior partito italiano. Terzo: il governo Berlusconi è l’Esecutivo che ha centrato una serie di successi impressionanti nella lotta contro la criminalità organizzata (361 superlatitanti arrestati, 4000 beni confiscati, oltre 2 miliardi sottratti ai boss). Tutto ciò è forse merito di Veltroni e dei suoi laudatores? Quarto: chiunque non sia culturalmente e politicamente bollito è stufo della solita minestra riscaldata, quella per cui l’intera storia d’Italia degli ultimi cinquanta-sessant’anni andrebbe letta come un mostruoso complotto anti-Pci (ad opera dei “perfidi” americani, con la complicità assortita di mafia, massoneria, servizi deviati e manovalanza terroristica varia) per impedire ai comunisti di arrivare al governo. Davvero Veltroni, nel 2010, crede di poterci ancora ammannire questa roba?
I consigli si danno solo a chi li chiede, ma, se proprio possiamo fornire qualche suggerimento gratis, sarebbe il caso che Veltroni si dedicasse a “misteri” che sono più alla sua portata e sui quali potrebbe fornire informazioni dirette e di prima mano. Un paio di esempi? La partecipazione del Pci-Pds-Ds alla lottizzazione Rai degli ultimi trent’anni, e il buco emerso nel bilancio del Comune di Roma al termine dell’avventura del Veltroni sindaco. Ma è comprensibile che occuparsi di questo gioverebbe un po’ meno alla self-promotion veltroniana. (il Velino)