martedì 6 gennaio 2009

Addio lusso, lussuria e genio: l'Italia s'è moscia. Marcello Veneziani

Non è la crisi economica che più spaventa nel nostro futuro. E nemmeno le fosche previsioni che da Napolitano in giù si ripetono magari come forme di scaramanzia. Ma è la netta percezione di vivere in un Paese ammosciato, che non sa reagire, che al più fugge o si barrica in casa di fronte al pericolo, o si lascia disfare con spirito di abbandono. Vedo il mesto rientro dalle lunghe ferie invernali che si completa alla Befana, salvo strascichi minoritari. E non riesco a definire diversamente lo stato d’animo degli italiani, se non attraverso l’espressione di Paese ammosciato. Un Paese in ritirata, consumismo triste, apatia rispetto all’avvenire, creatività scarsa e spirito d’avventura zero, se non quello applicato alla ricreazione.

L’energia del premier
Possiamo ridere finché vogliamo del finto ottimismo del premier, del suo esercizio forzato di sorrisi e coraggio; ma lui ci prova a tirar su il morale delle truppe, e non è certo colpa sua se il Paese sta così; penso anzi cosa sarebbe senza la guida di un incrollabile energetico come Berlusconi. E mi spaventa guardare intorno e immaginare la scena senza di lui; i suoi possibili eredi, da ogni parte, rispecchiano la mosceria del Paese, la stessa melanconia nazionale che contraddice uno dei tratti tipici degli italiani.

Di quella melanconia e forse di quella mosceria, partecipo anch’io, seppure nella versione ironica e distaccata. Vi scrivo da una capanna in un’isola dove siamo solo in sei ad abitarla nel Mar dei Caraibi ed è inutile nasconderci che nonostante la vita spartana e scalza che conduco da giorni, sono qui per piacere e non certo per penitenza. Avverto la percezione dell’isolamento e la trasformo in versione positiva, godibile per il corpo e per la mente. Sul mare, al sole, in compagnia del vento, della scrittura e della lettura. Ma mi accorgo di rappresentare il versante felice, o se volete privilegiato, di un Paese moscio e melanconico, che ha perso la prospettiva del futuro e della comunità, non fa più sogni pubblici e civili, politici figuriamoci, e reputa che la salvezza sia solo non pensarci, vivere nel presente e isolarsi. Ho incontrato diversi italiani in viaggio, ed ho colto la medesima idea di fuga e la stessa mosceria, l’affanno di evadere e di divertirsi, e due patologie opposte ma pervasive: la paura di spendere, il timore della crisi, l’affanno di risparmiare e tirar sul prezzo di ogni cosa e all’opposto la baldoria di fine stagione, l’idea di spendere perché del doman non v’è certezza, l’allegria dei naufragi. Ma ancora più istruttivo è stato parlare dell’Italia con gli stranieri, tedeschi e russi, sudamericani e nordamericani. Tutti ci vedono come un Paese in picchiata, stanco e non più felice come la fama di una volta, che consuma poco ma produce meno, poco creativo e procreativo, abitato da marocchini che non sono poi statisticamente tanti ma sono quelli che più si vedono, che popolano le stazioni, le vie e le piazze mentre gli italiani si sono addomesticati. Ci vedono insomma un Paese stanco. I veri ricchi sono altrove, e tutti mi dicono la stessa cosa: i ricchi russi, brasiliani, venezuelani, oltreché americani, indiani per non dire di arabi e nordeuropei, sono molto più ricchi dei vostri. Il lusso non abita più da voi, e nemmeno la lussuria. Ma un consumismo triste e un erotismo triste, da cassaintegrati nell’anima e nel corpo. Il mito italiano sta franando.

Dopo questa sconsolante iniezione di sfiducia, mi direte che l’unico rimedio conseguente, oltre il suicidio nazionale, sarebbe quello di fuggire in massa nelle capanne o nei rifugi e vivere spartanamente e da isolati. No, l’unico rimedio può sorgere proprio dalla fine dei balocchi di un Paese viziato. Cioè dalla percezione non solo della crisi, ma di più, del pericolo. Il torpore del benessere non ci aiuta, quando finisce la forza d’inerzia bisogna trovare le energie per vivere e reagire. Napolitano invitava a far della crisi un’occasione per ripartire. Aveva ragione ma limitava il suo discorso al piano economico, alla crisi finanziaria americana. E invece, il discorso da fare è più esteso, più radicale: si tratta di reagire alla decadenza. Non solo dei Pil o dei livelli di benessere e di occupazione; ma di popolo, di civiltà, di creatività.

Reagire al declino
Reagire al declino di un Paese che sembra abitato da marocchini e invalidi, reagire a un Paese che vive la sua imprenditoria religiosa solo nelle moschee, reagire a un paese a cui sembra che gli unici valori da difendere siano i diritti dei gay, degli zingari, degli immigrati clandestini, più scempiaggini salutiste. Reagire ad un Paese che accoglie con scetticismo ogni opera, non crede più alla durata; un Paese che ha condannato il familismo amorale e poi ha reinventato il familismo culturale per cui si è accolti solo se si appartiene alla stessa famiglia accademica, ideologica e intellettuale. Reagire a un Paese che non fa figli, che non osa più, che non ama più l’avventura. Occorre una nuova ondata nel nostro futuro, un nuovo spirito di fondazione. Finora abbiamo rimediato alla carenza tramite l’invocazione del Capo, sia come causa di tutti i mali (1 Capo espiatorio), sia come rimedio (Capo, pensaci tu). Si tratta ora di entrare in una nuova fase non più legata alla leadership personale ma a una corrente di vita e di pensiero, un movimento. Qualcosa che somigli alla follia di cent’anni fa del futurismo... Magari in senso inverso, un ritorno alle origini ma con la tecnologia e le conoscenze del presente; una nuova versione, essenziale, spartana di eco-futurismo, di pensiero verde elettrico... Antico e ipermoderno; due cuori e una capanna. (Libero)

1 commento:

Anonimo ha detto...

Hey are you a professional journalist? This article is very well written, as compared to most other blogs i saw today….
anyhow thanks for the good read!