mercoledì 6 luglio 2011

Verrebbe da chiedersi chi ha fottuto gli inglesi ma è meglio chiuderla qui. Carlo Serrani


La linea generalmente denigratoria e insultante della stampa inglese verso l’Italia, e in particolare dell'Economist, si colloca da tempo notoriamente in relazione inversa rispetto alle sorti del nostro Paese: meglio l’Italia va, più viene attaccata. E ciò in quanto le ragioni primarie della costante denigrazione inglese si radicano, in primis, in due vizi: invidia e rabbia (mal repressa). Cominciamo dall’invidia. Tutti sanno che non è possibile alcun reale paragone tra vivere in Italia e in Gran Bretagna: per geografia, paesaggio, clima, bellezza delle città, cultura e tradizioni gastronomiche e vinicole. Gli inglesi lo sanno, e non sono per nulla contenti di vivere nelle loro isole fredde, grigie e piovose; e infatti, sono emigrati a milioni per diversi secoli. L’Italia, poi, è uno dei Paesi che più hanno contribuito alla storia dell’Europa e dell’Occidente, quanto e più delle isole britanniche che iniziarono a uscire da uno stato assolutamente primitivo grazie all’Impero Romano.

Passiamo alla rabbia. Dalla seconda guerra mondiale la Gran Bretagna, vittoriosa, ha subito danni infinitamente più profondi ed estesi di quelli sofferti dall’Italia sconfitta. La Gran Bretagna perse il ruolo dominante a livello mondiale e l’Impero Britannico, e ciò anche a causa dell’entrata in guerra dell’Italia che allargò il teatro bellico a Mediterraneo, Medio Oriente e Africa. Non accade spesso che un Paese vittorioso sia, alla lunga, molto più danneggiato di un Paese sconfitto. Per nostra fortuna, nel luglio del 1943 comprendemmo (a differenza dei Tedeschi) che la guerra per l’Asse era ormai persa e successivamente gli Stati Uniti provvidero saggiamente a impedire sanguinose e distruttive vendette, anche da parte della Gran Bretagna, secondo il modello del Trattato di Versailles" (nella Grande Guerra, per inciso, i morti italiani superarono di molto quelli inglesi, con i noti risultati).

L’enorme differenziale tra Gran Bretagna e Italia nei danni di medio-lungo termine inferti dalla seconda guerra mondiale non fu immediatamente visibile. Nel 1950 l’Italia aveva un Pil pari a solo un terzo di quello della Gran Bretagna. Quando, nel 1987, l’Italia raggiunse e superò la Gran Bretagna, gli Inglesi soffrirono molto. E soffrono ancora oggi, dato che tra i due Pil, anche pro capite e/o ai prezzi interni, la differenza è da tempo irrisoria e, probabilmente, grazie allo sfacelo della loro economia, li ri-superemo nel giro di qualche anno – per quello che conta (poco per noi, ma moltissimo per loro). La Gran Bretagna, sotto il profilo economico, è infatti in una situazione peggiore dell’Italia. Sommando debito pubblico (120%) e privato (65%) dell’economia italiana, si arriva a circa il 185% del Pil. Sommando debito pubblico (60%) e privato (225%) dell’economia britannica, si arriva invece a circa il 285% del Pil. La stampa inglese continua a cercare di darci lezioni ed a diramare tabelline sul debito pubblico, come se il privato non contasse. Eppure l’economia dell’Irlanda, membro di prima fila del club "PIGS" (secondo l’offensivo acronimo che doveva includere l’Italia e coniato, tanto per cambiare, dagli Inglesi) è implosa per il debito privato, non per quello pubblico.

Ma come sono arrivati, i nostri Inglesi, a questa situazione di quasi bancarotta? E’ molto semplice: a suon di costi bellici (il solito vizio) e di speculazioni finanziarie. E chi ha deciso sia la guerra in Iraq che la liberalizzazione finanziaria? Il signor Tony Blair. Per cercare di rimettere i conti a posto l’attuale Governo sta adottando misure che qui in Italia non ci sogniamo nemmeno. La riforma delle pensioni in corso avrà un impatto superiore al cumulo di tutte le misure adottate in Italia dai Governi di Amato, Dini, Prodi e Berlusconi. I recenti tagli della spesa pubblica e sociale approvati dal Governo Cameron superano i tagli italiani dell’intero ultimo decennio. La riforma dei costi universitari ha elevato le tasse d'iscrizione da 3.300 pounds a somme ricomprese tra i 6.000 ed i 9.000 pounds annuali, spostando brutalmente il peso del risanamento sulle giovani generazioni. Per decenni gli inglesi – come la maggior parte degli Europei – hanno frequentato le università praticamente gratis (la tassa d’iscrizione era stata elevata da 1000 a 3300 pounds da Tony Blair, tanto per cambiare). L’attuale generazione dovrà invece pagare cifre ricomprese tra i 24.000 ed i 36.000 pounds per corso universitario quadriennale, ed è molto scontenta, perché ritiene – non a torto – ingiusto dover pagare il conto delle avventure belliche e delle follie finanziarie innescate da Blair.

E noi dovremo sentirci dire che Berlusconi avrebbe "rovinato" un intero Paese? Per favore: se c’è qualcuno che ha rovinato il Regno Unito, quell'uomo è Tony Blair. Visto che ci siamo, tocchiamo anche un terzo difetto nazionale degli inglesi: la loro cronica, sistematica e incorreggibile tendenza a costruire una storia che gli faccia comodo. Basta leggere i loro libri che fino a qualche decennio fa liquidavano oltre quattrocento anni di dominazione romana in qualche pagina, asserendo, in modo assolutamente ridicolo, che "non aveva lasciato traccia rilevante". O pensate alla continua, perdurante esaltazione – oggi in chiave neofemminista – della regina Budicca che, nel corso della sua campagna contro i Romani, non solo sterminò l’intera popolazione di Londra perché "contaminata" dal collaborazionismo, ma sottopose migliaia di altri prigionieri a mortali torture druidiche di un'atrocità impensabile, e probabilmente insuperata, per efferatezza e lunghezza.
Ancora oggi, i loro libri di storia continuano a fare allegramente finta che la Gran Bretagna abbia inventato il capitalismo – e non solo la sua sistematica applicazione industriale, con l’impiego forzato di donne e bambini per 16 ore al giorno – quando tutti gli storici onesti riconoscono  che il capitalismo è nato in Italia nel 1400-1500, come dimostrato dall’invenzione della banca, della contabilità a partita doppia, dei contratti commerciali, etc. Ancora, pensate allo storico Denis Mack Smith e alle sue opere, tutte costellate di negativismo e disprezzo verso il nostro Paese. Che tipo di persona può essere uno storico che sceglie di dedicare la sua vita ad un Paese che disprezza?

Nell’ultimo velenoso servizio dedicato all’Italia – che ho deciso di non leggere –  mi dicono che l'Economist avrebbe esteso le sue velenose e rabbiose considerazioni anche alla storia del nostro Paese e particolarmente al Risorgimento. Qualche nostro connazionale ha scritto lettere di protesta alla redazione del settimanale inglese, restando comunque in un'ottica difensiva e antinazionale, peraltro tipica della nostra minoranza di anglofili, più o meno complessati. Si tratta, a mio parere, di un errore. Non abbiamo veramente proprio nulla di cui difenderci con gli inglesi, neanche in termini storici. Chiunque conosca la loro storia, in particolare degli ultimi due secoli, sa che essa è letteralmente costellata da aggressioni, occupazioni e massacri di inermi e innocenti civili.

Dai milioni di irlandesi oppressi e decimati per tre secoli e lasciati morire di fame mentre gli inglesi si appropriavano dei loro miseri raccolti, alle decine di migliaia di indù bruciati vivi nella rivolta anticoloniale di metà Ottocento, dall’invenzione dei campi di concentramento in cui, agli inizi del Novecento, morirono di fame e di stenti circa 150.000 donne, vecchi e bambini boeri, fino ai bombardamenti che uccisero 800.000 civili tedeschi (dei quali 150.000 bambini) nella seconda guerra mondiale e agli oltre 600.000 civili morti nella recente guerra in Iraq. Ma di cosa dovremmo scusarci, con loro? Del nostro tardivo tentativo – attraverso le occupazioni di Libia ed Etiopia – di assumere la dimensione imperiale che la maggior parte dei Paesi dell’ Europa Occidentale – Gran Bretagna e Francia in testa – aveva già raggiunto? Ma per favore! O per la seconda guerra mondiale? Ci siamo già scusati con tutti, e comunque l’abbiamo persa. Ma visto che ci siamo, una domandina provocatoria: come mai, a fronte della fermissima resistenza greca contro l’ingiusta aggressione italiana, nessuno nell’Italia fascista pensò mai di bombardare a tappeto le città greche e sterminarne gli innocenti civili? Chiudiamola qui, e rapidamente, che è veramente meglio per tutti.

Gli inglesi oggi soffrono perché il loro Pil sta ri-scivolando dietro quello italiano e, soprattutto, perché l’Italia non è stata e non sarà coinvolta nella crisi che ha travolto Grecia, Irlanda e Portogallo e che mette a rischio, oltre che la Spagna, la stessa Gran Bretagna. In altri termini, gli Inglesi – che ricordano quando nell’autunno del 1992 lira e sterlina dovettero insieme uscire dal Sistema Monetario Europeo – oggi soffrono perché l’Italia, per la prima volta in oltre 40 anni, non è al centro di una crisi finanziaria o monetaria europea. Si tratta di una svolta storica per il nostro Paese, ma a loro, ovviamente, dà fastidio. Alcuni affermano che dovremmo essere più pazienti, anche perché gli inglesi spesso hanno grosse difficoltà ad adeguarsi al presente e restano un po' indietro. Basterebbe pensare alla storica riforma con la quale Papa Gregorio XIII nel 1582 introdusse l’odierno calendario gregoriano, riconosciuto dalla Gran Bretagna solo nel 1752, dopo ben 170 anni di ritardo (e calendario sbagliato). Oggi, quindi, non ci resterebbe che sperare, più o meno pazientemente, che gli inglesi ci mettano un po' di meno ad adeguarsi alla realtà. Personalmente non sono d’accordo con tale visione, in quanto vedo, in primis, tantissima mala fede. In ogni caso, nel frattempo, direi di lasciarli letteralmente ragliare al vento, o abbaiare alla luna. Ignoriamoli e basta. (l'Occidentale)

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