venerdì 10 aprile 2015

Intercettando il giustizialismo. Davide Giacalone


Parole e fatti hanno divorziato, in tema di giustizia. Le prime volano a caso, mentre i secondi sprofondano nel nulla. Eppure, volendo, c’è il modo per risolvere la questione delle intercettazioni telefoniche. Tenendo assieme le ragioni della riservatezza, della decenza, della prevenzione e della giustizia. Volendo.

Discettare su come disciplinarle è un gioco di società, che si vuole non finisca mai. Immaginare punizioni per chi le diffonde è un gioco fesso assai, dato che è già proibito e chi se ne infischia viene premiato. La più stupida delle idee è puntare sull’autodisciplina degli intercettatori (le procure), o su quella dei pubblicatori (i giornalisti). Mentre è oltraggiosa del diritto l’idea, esposta da Giovanni Legnini, vice presidente del Csm, secondo cui “si deve tutelare chi non è indagato”. Avvertite questo signore che il diritto esiste anche per tutelare gli indagati, che non sono dei colpevoli, non, almeno, fin quando non prevale quel frullato d’inquisizione e soviet che gli gira per la testa.

La soluzione c’è e noi la proponiamo da cinque anni: mai le intercettazioni negli atti processuali, mai nei mandati di cattura, mai a disposizione delle parti, quindi mai alibi per la loro pubblicità, perché, come nel sistema inglese, devono essere strumenti d’indagine e praticamente mai prove da esibire. Così si tiene in equilibrio la prevenzione dei reati e la riservatezza delle comunicazioni.

Qualcuno di noi ha qualche cosa in contrario a che siano ascoltate le conversazioni di soggetti o gruppi che si suppone si stiano preparando a commettere reati gravi? Che siano potenziali integralisti assassini o pedofili alla ricerca di minorenni di cui abusare, no, non ho alcunché da obiettare. S’intercetti pure. Una volta colto un indizio, che può condurre a un ipotetico reato, il compito degli inquirenti consiste nel trovare prove che possano essere esibite in un processo. Se due o più soggetti ne parlano offrono elementi a chi indaga. In ogni caso le loro conversazioni non vanno da nessuna parte. Men che meno quelle con o su altri, magari riferite ad affari di corna. E’ questo il modo per far convivere la repressione con il diritto. Non altro. Considerare le intercettazioni, in sé, come elementi adducibili alla richiesta di custodia cautelare, quindi da depositare in atti giudiziari, porta a due conseguenze corruttive. Da una parte imbastardisce le indagini e degrada il lavoro delle procure. Dall’altra trasforma i giornalisti in copisti servili. Ci perdono sia la giustizia che il giornalismo, progressivamente rattrappiti nel ruolo di guardoni.

Leggo che un magistrato di valore, come Carlo Nordio ha idee simili alle nostre. Me ne compiaccio. Ma questa roba deve trovarsi nella legge, non nella presunta bontà d’animo o nella morigeratezza di chi maneggia quel materiale. La soluzione è semplice e può essere immediata. Se non la si adotta è patetico lamentarsi di un male di cui si è la causa.

Matteo Renzi, che promette interventi ma non chiarisce quali, ha detto che sta leggendo il libro di Mario Rossetti (con Sergio Luciano: “Io non avevo l’avvocato”). Lettura utile a dimostrare che in più di venti anni s’è straparlato, nulla è cambiato, semmai peggiorato. Dice Renzi che non si deve essere giustizialisti. Bravo, ma aumentare le pene e allungare la prescrizione (come sta facendo) è la quintessenza del giustizialismo. Quella è la resa del diritto alla retorica della severità farlocca. La resa del processo all’accusa eterna. Più che giustizialismo: è dispotismo. L’idea che i diritti individuali siano subordinati alle verità sociali. L’accoppiata “ignoranza & viltà” socia di quella “chiacchiere e inutilità”. Una quadriglia che prova a fermare la divulgazione delle intercettazioni dando sempre più potere a chi se lo conquista divulgando. Galattica bischerata.

Pubblicato da Libero


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