Secondo l’economia classica, l’offerta è il motore dell’economia. Qualcuno produce qualcosa e qualcun altro, che ha i soldi per comprare, l’acquista. Se invece si reputa che il motore dell’economia sia la domanda, si ha questo schema: qualcuno ha voglia di qualcosa e la va a comprare, inducendo così la produzione della cosa desiderata e dunque il lavoro per produrla. Di questo secondo schema è stato alfiere John Maynard Keynes.
La teoria di Keynes è stata ritenuta vangelo dagli Anni Trenta del secolo scorso, e tuttavia le si possono muovere delle elementari obiezioni.
In primo luogo, il denaro è un titolo che dimostra che si è prodotto un bene o un servizio, e dunque si è creditori nei confronti della collettività di un bene o d’un servizio di analogo valore. Nello schema di Keynes, invece, si ha acquisto da parte di qualcuno anche se non ha nessun credito, e questo è difficile da capire. Uno spostamento di ricchezza senza giustificazione economica si ha nel caso del potere impositivo dello Stato e, fra privati, in caso di furto, appropriazione indebita, rapina, truffa, estorsione, peculato e via dicendo. Ma Keynes giustifica il fenomeno con una superiore utilità sociale, e dunque è il caso di procedere oltre.
Una seconda perplessità sorge dall’asserita intenzione di stimolare la domanda per far funzionare il motore dell’economia. Questa si occupa di beni e servizi partendo dal dogma della loro scarsità, perché i desideri sono pressoché infiniti, mentre i beni sono finiti e non tutti possono avere tutto ciò che desiderano. Proprio per questo l’aria che respiriamo non è un bene economico: perché indefinitamente e gratuitamente disponibile. Dunque può sembrare sorprendente che in economia si debba promuovere la domanda, dal momento che essa, per sua natura, si promuove da sé. E infatti Keynes non dice questo. Egli vuole promuovere non il consumo per il consumo, ma il consumo come motore della produzione permettendo al primo attore – che per lui è il compratore – di far girare il meccanismo.
Partiamo da un esempio concreto. Ammettiamo che un tizio amerebbe avere un paio di scarpe nuove, ma al momento non se le possa permettere. Ciò provoca una minore produzione di scarpe e una minore richiesta di operai che fabbricano scarpe. Se dunque forniamo a quel signore il denaro per comprare le scarpe, ciò favorirà la produzione di scarpe e, in definitiva, l’economia nazionale. Fra l’altro, i disoccupati che sono stati assunti nella fabbrica di scarpe a causa del maggiore consumo, avranno più denaro a disposizione, spenderanno di più, e a loro volta favoriranno la produzione di altri beni e servizi. Questo, all’ingrosso, lo schema di Keynes.
Ma sorge qualche interrogativo. Se qualcuno riceve il denaro per comprare un paio di scarpe e a sua volta (per qualunque ragione) non produce nessuna forma di ricchezza, economicamente è come se quelle scarpe gli fossero state regalate, a spese dei contribuenti. Se invece lo Stato ha creato apposta il denaro per darglielo, il regalo è a spese di tutti indistintamente i cittadini e soprattutto i percettori di reddito fisso. Infatti quel denaro non a fronte di una ricchezza di cui sarebbe il corrispettivo provoca un aumento dei prezzi, dal momento che la quantità di beni sul mercato non è cambiata.
Viceversa, questo fenomeno non si verifica con l’economia dell’offerta. In questo caso le scarpe sono sul mercato, il singolo si attiva per guadagnare denaro e poi va a comprarle, contribuendo così al rilancio dell’economia. Ma, appunto, ha comprato con denaro precedentemente guadagnato. E mentre nel caso di Keynes può avvenire che non non saldi mai il debito, nel caso dell’economia classica il sistema è comunque in equilibrio.
Il sistema di Keynes comunque funzionerà se colui che ha ricevuto un incentivo al consumo poi vorrà, e soprattutto potrà, guadagnare per restituire quanto ricevuto. Se invece ciò non avverrà, come nel caso dei sussidi a persone improduttive, si avrà un assistenzialismo parassitario che, alla lunga, potrebbe divenire un peso insostenibile per lo Stato.
Un altro fondamentale dogma di Keynes (parecchio impressionato dalla crisi del ’29, in America) fu che l’economia classica, con la teoria dell’offerta, non conduce affatto al pieno impiego e al contrario può anche produrre lunghi periodi di disoccupazione. Dunque non bisogna lasciare che l’economia della nazione operi da sé: lo Stato deve intervenire (macroeconomia) per esempio sfavorendo il risparmio (moneta sterile) e favorendo gli investimenti. Al limite, per creare posti di lavoro, deve lanciare grandi lavori pubblici anche non strettamente necessari, a costo di pagarli con denaro semplicemente stampato allo scopo.
Al riguardo si può avere qualche perplessità. Che l’economia classica non sia stata capace di evitare una disoccupazione di lungo periodo è vero. Ma neanche l’economia keynesiana, in cui siamo immersi da molti decenni, riesce ad evitarla. L’Europa ha adottato politiche keynesiane per sessant’anni e oggi abbiamo un’enorme disoccupazione.
Forse bisognerebbe guardare al problema da un diverso punto di vista. In Europa abbiamo una grande immigrazione. Ciò significa che, in nero, sottopagati, sfruttarti, tutto ciò che si vuole, gli immigrati il lavoro lo trovano. Mentre disoccupati sono i lavoratori che non accettano né lavori troppo umili né paghe troppo basse. E nessuno dice che debbano farlo. Ma rimane che li accetterebbero se avessero veramente bisogno. Tutto ciò sarà lontano dall’etica e dal sindacalismo, ma non per questo è meno vero. L’economia classica, non soccorrendo nessuno, obbliga tutti a lavorare, se vogliono sopravvivere. Un’economia moderna e assistenziale cambia invece i parametri, e può anche darsi che sia un bene: ma non bisogna dare la colpa della disoccupazione all’economia classica.
I ferventi di Keynes reputano che la moneta sia manovrabile ad libitum e alle obiezioni che precedono risponderebbero che i guai attuali dipendono dall’euro e dal conseguente impegno ad evitare l’inflazione. Se il Paese fosse libero di emettere moneta a volontà, potrebbe operare grandi investimenti, concedere grandi aumenti di salario ai lavoratori, favorire la domanda e rilanciare l’economia. Anche qui, la teoria potrebbe essere esatta se, trattandosi di una crisi congiunturale, bastasse una spintarella per far ripartire una macchina ferma ma è ancora in eccellenti condizioni. Cosa di cui non siamo sicuri. Ma vediamo come si comporta lo Stato, quando vuole spendere il denaro che non ha.
Il primo modo in cui lo Stato può erogare somme di cui non dispone è quello di stampare denaro, distribuirlo o investirlo. Naturalmente lo fa sperando che si produca un tale rilancio dell’economia da riassorbire il circolante in più, ma mentre questa è soltanto una speranza, è sicuro che si provoca inflazione. E questa è crudele innanzitutto con i percettori di reddito fisso, lavoratori dipendenti e pensionati.
Un secondo modo di procurarsi denaro è l’emissione di titoli di Stato. Questo è un caso che ci interessa molto, perché è ciò che si è verificato dovunque. Mentre gli investitori cominciano a lucrare gli interessi (questa è quella “moneta sterile” che Keynes aveva in gran disprezzo) lo Stato ottiene il liquido nel modo più indolore: non provoca inflazione, non tassa i cittadini e il ricavato lo può immettere in circolo per consumi e per rilanciare la domanda. Purtroppo nella realtà questo rilancio non si è avuto, le spese dello Stato sono aumentate in modo esponenziale e i titoli sono diventati una valanga. Oggi il debito pubblico ha raggiunto in Europa la media del 92% del pil e si possono pagare gli interessi soltanto contraendo ulteriori debiti. Gli Stati, anche per i regolamenti dell’Unione Europea, fanno di tutto per lottare contro il debito sovrano, ma dovunque esso rimane in continuo aumento.
L’Italia è in preda ad un’invincibile stagnazione, ed è minacciata da un’astronomica massa di “denaro sterile” (il debito pubblico) che in occasione di una crisi di fiducia potrebbe riversarsi nell’economia. Sarebbe come una diga che si rompe e provoca tutta in una volta l’inflazione che, col semplice metodo del denaro inflativo, si sarebbe prodotta a poco a poco.
L’economia della domanda si fonda sul presupposto mitico che, dando del denaro a qualcuno perché lo spenda, costui poi vorrà e potrà attivarsi – come nella parabola evangelica dei talenti – per moltiplicare quanto ha ricevuto. Purtroppo, ciò non sempre è possibile e comunque non sempre si verifica7.
Fra l’altro, i vantaggi non meritati sono pericolosi. Si è visto anche in campo internazionale: gli aiuti al Terzo Mondo in qualche caso hanno piuttosto danneggiato che aiutato i Paesi beneficiari. In Italia in particolare il denaro dello Stato induce i cittadini poco corretti ad approfittarne illecitamente. La Regione Siciliana offriva incentivi per creare industrie e così i maneggioni facevano finta di crearle, incassavano i contributi e sparivano. Lo Stato avrebbe fatto meglio a detassare le imprese esistenti, piuttosto che a cercare di farne nascere artificialmente delle nuove, con l’intervento attivo predicato da Keynes.
Un’ultima nota riguarda il modo come la teoria di Keynes è stata letta dai politici. Credendo che lo Stato, quando investe e regala soldi ai consumatori, fa qualcosa di meritorio per l’economia, i politici ne hanno dedotto che potevano spendere senza nessuna preoccupazione. Il risultato è stato la corruzione, il debito pubblico, una tassazione soffocante e, come esito finale, una crisi che dura da molti anni.
Un vecchio detto così suona: “Se questi sono gli amici, meglio avere dei nemici”. Analogamente, se Keynes voleva renderci tutti occupati ed economicamente prosperi, dobbiamo forse cercare qualcuno che ci voglia rendere disoccupati ed affamati. Chissà che non vada meglio.
pardonuovo@myblog.it