venerdì 19 settembre 2008

Il capitalismo e la politica. Piero Ostellino

Dalla comparsa del Manifesto del Partito comunista di Karl Marx (1848) a oggi, il capitalismo ha attraversato una decina di crisi, le più gravi delle quali sono state quella del 1929 e la crisi odierna. A ogni crisi, i nemici del capitalismo ne hanno annunciato la fine e ne hanno attribuito la causa al mercato.

Che, poi, vuol dire all'avidità dei capitalisti. Si sono invocati maggiori interventi dello Stato nell'economia, regole più stringenti al mercato. Che, poi, vuol dire più potere a chi governa, sia sul processo di accumulazione sia nell'allocazione delle risorse. Con misure congiunturali — tanto, secondo il detto di John Maynard Keynes, «alla lunga saremo tutti morti »— le falle, nel '29, erano state temporaneamente chiuse. Ma poiché, nel frattempo, non tutti erano morti, a quelli che sono rimasti vivi — che, poi, voleva dire l'economia soffocata dagli eccessi di spesa pubblica (deficit spending) e da troppe regole— hanno di nuovo dovuto provvedere il capitalismo e il libero mercato, con le deregolamentazioni e le privatizzazioni di Ronald Reagan, di Margaret Thatcher e persino di Tony Blair.

Il capitalismo non è crollato, mentre sono crollati, o si sono a esso convertiti, i sistemi negatori del mercato e a direzione politicamente centralizzata dell'economia. Poiché una buona regola — anche quando si parla di economia e persino di politica — dovrebbe essere quella di attenersi rigorosamente ai fatti, questo è il primo fatto di cui sarebbe bene tenere conto anche oggi. Il capitalismo e il mercato rimangono il «modo» migliore per produrre (e consumare) ricchezza. Tutti gli altri sono falliti. Ma è anche un fatto che la crisi del 1929 e quella attuale del sistema finanziario americano siano dovute al mercato e all' avidità dei capitalisti? La vulgata corrente, sui media come fra la classe politica, è che lo siano. Invece, come ha scritto Angelo Panebianco ieri sul Corriere, se ci si attiene ancora una volta ai fatti non è così.

La crisi del 1929 e quella attuale si assomigliano almeno in una cosa: che a produrre entrambe è stata la Federal Reserve, cioè la massima autorità finanziaria pubblica. Nel '29, con una politica monetaria troppo restrittiva; oggi, con una politica monetaria opposta, troppo espansiva. In entrambi i casi, in base a un pregiudizio culturale e a un interesse politico. Il pregiudizio: che la politica monetaria sia una variabile politica, mentre a determinare il tasso di interesse (il costo del denaro) non dovrebbe essere, a proprio piacimento, un'autorità pubblica «esterna» (la Federal Reserve), ma dovrebbero essere le preferenze «interne» dei cittadini, che è, poi, la spontanea dinamica della domanda e dell'offerta di denaro (il mercato).

L'interesse: tassi di interesse troppo alti o troppo bassi, e tenuti tali troppo a lungo, sono rispettivamente lo strumento attraverso il quale una moneta nazionale (il dollaro ieri) cerca di imporre la propria forza nel mondo e uno Stato indebitato (gli Usa oggi) riduce il servizio del debito. Che, infine, un eccesso di liquidità abbia finito (anche) col dare alla testa agli speculatori è un altro fatto incontrovertibile, come lo sarebbe rinchiudere in una cantina ben fornita di vino un bevitore di professione. (Corriere della Sera)

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