mercoledì 10 giugno 2009

Pd, tempo scaduto. Pierluigi Battista

Il partito democratico non può spendere i prossimi quattro anni congratulandosi per lo scampato pericolo del­l’autodissoluzione. I son­daggi più funesti pronosti­cavano un crollo rovinoso, ma con il 26,1 la sconfitta ha assunto dimensioni sop­portabili. Non si è materia­lizzato l’incubo della mar­cia trionfale di Berlusconi. La sinistra nel suo comples­so, malgrado la massiccia dispersione di voti, ha con­servato un cospicuo patri­monio elettorale. Ma le no­te confortanti per France­schini e il gruppo dirigente democratico finiscono drammaticamente qui: per il Pd è scaduto il tempo dei rinvii.

La distanza con il suo av­versario è di 9 punti per­centuali: un’enormità, vi­sto che il Pdl non è nemme­no nella sua forma più sma­gliante. L’ondata leghista ha invaso il cuore delle re­gioni rosse. Il partito di Ber­lusconi gode di un primato nella totalità delle circoscri­zioni. Nel Mezzogiorno il Pd rischia la sparizione. Lo scomodo Di Pietro non so­lo conquista voti, ma appa­re la personificazione di un messaggio forte, capace di attirare un’opinione pubbli­ca di sinistra sconcertata dall’immagine sbiadita dei Democratici. L’elettorato è disorientato e scoraggiato, e stenta a capire dove il Pd voglia andare, con chi, in quali forme, con quale lea­der.

A febbraio, con le trau­matiche dimissioni di Vel­troni, il Pd affidò a France­schini il compito di traghet­tare un partito stordito da una dolorosa sequenza di sconfitte. E se il nuovo (provvisorio?) segretario non ha nulla da rimprove­rarsi avendo recitato il suo ruolo con coraggio e digni­tà, le oligarchie del partito danno l’impressione di aver sotterrato l’ascia di guerra solo momentanea­mente. Il plebiscito che ha incoronato la giovane De­bora Serracchiani denun­cia l’attesa inappagata di un segnale di una svolta, se non di un nuovo inizio. Ma non viene indicata la data di un congresso. Le diverse linee politiche (che ci so­no, ma mimetizzate in una sfibrante guerra tra corren­ti) non vengono allo sco­perto. I maggiorenti del partito, imprigionati nel lo­ro ruolo di eterni padri no­bili, si consumano nel tatti­cismo e nel gioco incrocia­to delle candidature. Sulla prospettiva delle alleanze il buio è totale, nella laceran­te incertezza se guardare al centro, alla sinistra, oppu­re restare immobili. Ora, uf­ficialmente, si attende il giorno dei ballottaggi per riprendere il discorso inter­rotto con le dimissioni di Veltroni. Ma comincia a cir­colare autorevolmente la voce che la resa dei conti possa aspettare le elezioni regionali del 2010: sarebbe la scelta peggiore.

Perché forse l’elettorato democratico non aspetta un’avvelenata resa dei con­ti, ma una competizione aperta, democratica e leale tra i diversi filoni che com­pongono, non «amalgama­ti », il Pd. Una lotta politica chiara da cui possa scaturi­re una leadership destinata a segnare il percorso demo­cratico e a costruire un’al­ternativa credibile all’attua­le maggioranza. Dovrebbe essere questa, se non si è capito male, l’ispirazione fondante di un partito a «vocazione maggioritaria». La cui missione non può es­sere solo l’eroica resistenza per continuare a sopravvi­vere. (Corriere della Sera)

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