giovedì 31 dicembre 2009

Globalizzazione incontrollata: come i mass media stranieri stanno soffocando la vera cultura. Ramzy Baroud*

In un paese asiatico a maggioranza musulmana, una famiglia sta seduta di fronte a me in un caffè. Una donna anziana siede china, e con fare timido cerca disperatamente di evitare il contatto visivo con il gigantesco schermo al plasma da cui il popolare canale musicale MTV emette musica a tutto volume. La presentatrice, avvolta in abiti succinti, presenta la ‘canzone’ della settimana. Beyonce, anche lei poco vestita, fastidiosamente ribadisce di essere “una donna single”. Il figlio della signora anziana è ipnotizzato da ciò che vede. Non bada a sua madre, alla giovane moglie e nemmeno a suo figlio, che sta mettendo sottosopra il caffè. Sulla maglietta dell’uomo si legge: “cosa ca… stai guardando?”.

Rispettando il messaggio della sua maglietta, cerco di trattenermi, ma è sempre più difficile. La moglie, ad eccezione del viso, è completamente coperta. Le contraddizioni sono enormi, addirittura travolgenti.

L’abbigliamento della famiglia, l’atteggiamento delle donne, e anche l’uomo dalla maglietta col messaggio provocatorio, sono tutti segni della schizofrenia culturale che permea molte società del cosiddetto Terzo Mondo. Si tratta di un effetto collaterale della globalizzazione di cui pochi vogliono parlare.

Si parla quasi sempre di commercio, di investimenti stranieri, del flusso di capitali, e così via. Ma la cultura, l’identità, le tradizioni e i vari stili di vita, non sono forse anch’essi degni di interesse?

Certo, la globalizzazione ha varie manifestazioni. Se letta dal punto di vista prettamente economico, il dibattito verte sui temi delle barriere doganali, del protezionismo e dei dazi. I paesi più potenti chiedono ai paesi più piccoli di abbattere tutte le barriere doganali, pur mantenendo un livello di protezionismo sulle proprie. I paesi più piccoli, sapendo di non poter far molto per sottrarsi alla natura egemonica della globalizzazione, formano le proprie associazioni economiche, sperando di ottenere accordi più equi. E il “tiro alla fune” economico continua, tra diplomazia e minacce, dialogo e pressioni. Questo è il lato della globalizzazione di cui la maggior parte di noi è a conoscenza.

Ma c’è un altro aspetto della globalizzazione, che è ugualmente dannoso per alcuni paesi, e vantaggioso per altri: la globalizzazione culturale – non necessariamente il dominio di una specifica cultura, in questo caso la cultura occidentale, su tutto il resto – ma lo svantaggio incolmabile dei Paesi più poveri, che non hanno i mezzi per resistere a quella ‘cultura’ abbagliante, ben confezionata, e di marca, che si propone quotidianamente come alternativa ai loro modi di vita tradizionali.

Quello che si può guardare, leggere ed ascoltare nella maggior parte dei paesi al di fuori dell’emisfero occidentale, ovviamente non è proprio la cultura occidentale nel vero senso del termine. E’ il marchio selettivo di una cultura, una “presentazione riduzionista” di arte, intrattenimento, notizie, e così via, che finisce per diventare una piattaforma per promuovere delle idee che alla fine venderanno prodotti. Secondo questa cultura occidentale in miniatura, l’unica cosa che conta sono i valori materiali tangibili, che possono essere ottenuti dal semplice atto finale di estrarre la propria carta di credito dal portafoglio. Per vendere un prodotto, tuttavia, i mass media vendono anche le idee, che spesso riflettono una cultura unica, e creano un fascino ingiustificato attorno a dei modi di vita che difficilmente rappresentano l’evoluzione naturale di molte culture e comunità in estinzione in tutto il mondo.

Ricordo una scena a cui ho assistito di recente in un Internet café di un paese del Golfo, dove alcuni adolescenti turchi erano impegnati in un violento videogame, accompagnando il gioco con grida da stadio. Cercavo disperatamente di farmi gli affari miei, ma le loro grida di vittoria e di sconfitta erano assordanti. “Uccidi il terrorista”, urlò uno di loro in inglese, con un forte accento turco. Il suono “R-S” in “terrorista” suonava così innaturale nella sua bocca. Per un attimo, era diventato un “americano” che uccideva dei “terroristi”, il quale, stranamente, sembrava più turco che americano. Mentre stavo per uscire, ho guardato lo schermo. Tra le macerie, c’era una moschea, o ciò che ne restava. Gli amici del giovane musulmano turco si congratulavano con lui per l’abile lavoro svolto.

Naturalmente, non c’è niente di male nello scambio di idee. Le interazioni culturali sono storicamente responsabili di molti grandi progressi nell’arte, nella scienza, nella lingua, e persino nell’alimentazione e molto altro ancora. Tuttavia, prima della globalizzazione, le influenze culturali venivano introdotte a velocità molto più lenta. Ciò permetteva alle società, grandi e piccole, di riflettere, considerare, e di adeguarsi a queste nozioni uniche. Ma la globalizzazione dei mass media è ingiusta. Essa non dà alcuna possibilità di riflettere su un dato aspetto, di determinarne i benefici o i danni, di analizzarne il valore. Le notizie, la musica e persino la pornografia vengono trasmesse direttamente su tutti i tipi di schermi e gadget. Quando Beyonce canta che è una ‘donna single’, tutto il mondo lo deve sapere, all’istante. Questo può sembrare un atto innocuo, ma le contraddizioni culturali alla fine si trasformano in conflitti e scontri, in senso figurato e reale.

Inoltre, non ha molto senso, per esempio, che il pubblico asiatico guardi Fox News e Sky News, mentre entrambi questi canali nei loro mercati di origine sono considerati delle piattaforme multimediali di destra. Ma cosa può fare, ad esempio, la televisione nepalese per controllare i magnati mediatici e gli imperi televisivi di tutto il mondo? I giovani crescono, definendo sé stessi in base agli standard di qualcun altro, come il giovane turco che, adottando temporaneamente il ruolo dell’ “americano”, fa saltare in aria la sua stessa moschea.

La globalizzazione non è un gioco equo, naturalmente. Coloro che godono di economie potenti fanno la parte del leone nel processo decisionale ‘collettivo’. Coloro che hanno più soldi e una visione globale tendono ad avere mass media più influenti, anch’essi con una visione globale. In entrambi gli scenari, i paesi piccoli si smarriscono tra il tentativo disperato di negoziare per ottenere una migliore situazione economica, e quello di mantenere la propria identità culturale, che ha definito il proprio popolo, generazione dopo generazione, nel corso della storia.

La famiglia musulmana alla fine ha lasciato il caffè. Il marito aveva guardato MTV per tutto il tempo che era rimasto seduto nel caffè, la giovane moglie pigiava all’infinito i tasti del suo iPhone, e la donna anziana guardava la TV a tratti, di tanto in tanto, voltando rapidamente lo sguardo dall’altra parte. Ciò che è certo è che solo alcuni anni fa i componenti di questa famiglia avrebbero avuto un’esperienza completamente diversa. Ahimè, tra alcuni anni essi potrebbero anche non sedersi più allo stesso tavolo.

*Ramzy Baroud è un giornalista palestinese di nazionalità americana; è direttore del Palestine Chronicle

Fonte: CounterPunchTraduzione: MedArabNews

1 commento:

uniroma.tv ha detto...

Al seguente link potete vedere il servizio realizzato da UniromaTV dal titolo "Globalizzazione sì, Globalizzazione no" http://www.uniroma.tv/?id_video=15783

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