domenica 27 maggio 2012

Diritto e Vaticano. Davide Giacalone

E’ ingenuo credere che il Vaticano possa essere condotto attenendosi scrupolosamente ai canoni della trasparenza, che, del resto, non guidano la vita di nessun Paese. Ma è ingenuo anche credere che il mescolarsi di opacità e assenza di diritto costituisca solo la coriacea lega con cui corazzarsi, laddove da quella miscela discende anche una pericolosa fragilità. Gli stati democratici trovano forza nel diritto, anche quando quello si ritorce contro i loro governanti. Gli stati dispotici trovano forza nel chiudersi all’esterno e nell’opprimere all’interno. Il Vaticano non rientra in nessuno di questi due mondi, vivendo la dilaniante crisi di una monarchia assoluta ove il potere del monarca è messo in dubbio dai suoi pochi sudditi. Né si salva per il suo essere teocrazia, laddove alcuni dei crimini celati e protetti gridano vendetta al cospetto del cielo. La sorte di un maggiordomo sarà rivelatrice.

Che sia in lui l’unica falla e l’unico colpevole è cosa che neanche la più asfittica fantasia di un pessimo giallista può credere. Paolo Gabriele, questo il suo nome, oltre tutto, può forse essere responsabile d’avere trafugato qualche carta, non certo di avere ordito la trama di un conflitto che ruota attorno alla banca vaticana, l’Istituto Opere Religiose, la cui storia non brilla per l’esclusivo impegno nelle spese pie. In uno Stato e in condizioni normali si potrebbe dire: attendiamo che la giustizia faccia il suo corso. Qui la cosa è più difficile.

Le autorità vaticane sono corse a comunicare che l’accusato, se verrà condotto a processo, avrà tre gradi di giudizio, come in Italia. Ma posto che l’Italia è patria del diritto e dimora della malagiustizia, c’è da osservare che credere eguali, o anche appena simili, i due sistemi, solo per la triplicità del giudizio, è errore madornale. Essendo il Vaticano uno Stato assoluto l’interesse cui il suo diritto risponde è quello dello Stato stesso, non quello dei cittadini. La Corte d’appello sarà presieduta da Josè Maria Serrano Ruiz, cardinale, sicché dovrà vedersi se, in quel frangente, il suo dovere di servizio alla chiesa s’incarnerà più nel rendere giustizia o nell’uso della giustizia. Cardinale, Raymond Leo Burke, è anche il presidente della cassazione. Può considerarsi normale, visto che siamo in Vaticano, ma non lo è supporre che il giudizio di organi così
composti non sarà guidato dall’interesse che rappresentano.

Si tenga presente, del resto, che proprio nel gennaio scorso, aprendo l’anno giudiziario vaticano, il “promotore di giustizia”, vale a dire una specie di procuratore generale, Nicola Picardi, osservava che: “con le recentissime normative di Benedetto XVI (…) lo Stato Vaticano si è andato progressivamente «autolimitando», sottoponendo, cioè, se stesso al proprio diritto ed oggi finisce così per trasformarsi da Stato apparato a Stato di diritto”. Sicché entro le mura sanno benissimo che lo Stato di diritto, ove mai sia nato, è allo stadio dei vagiti. Né stupisce, visto che lo stesso Picardi, aprendo l’anno giudiziario del 2009, lamentava l’assenza anche solo di un codice civile o penale stampati nero su bianco, laddove, per leggerne il contenuto, doveva farsi un lavoro di ricostruzione tutt’altro che facile. Non esiste uno Stato di diritto le cui leggi non sono accessibili.

Dalla nostra memoria non s’è cancellata la storia delle guardie svizzere, trovate uccise nel 1998: allora la cosa si risolse incolpando un’altra guardia, che provvide a suicidarsi. Un epilogo che, in quanto a fantasia del giallista, concorre con il colpevole incarnato dal maggiordomo.

Tutto questo crea due problemi, uno minore, ma immediato, l’altro più generale. Il primo è: l’Italia ha nulla da dire? La sorte del cittadino Gabriele, che rischia trenta anni di carcere, non può esserci del tutto indifferente. La sovranità territoriale vaticana è presidio della libertà nell’opera di fede, non dell’arbitrio nel diritto. Sarebbe bene che lo Stato italiano chiedesse d’essere presente in tutti i passaggi di quel procedimento, con un proprio collegio d’osservatori. Anche perché, se il maggiordomo fosse colpevole egli sarebbe concorrente con altri cittadini italiani, che non credo consegneremo mai ad uno Stato assoluto. Il secondo è: in questo doloroso passaggio il Vaticano trovi la forza di non offrire il destro a dietrologi e tramisti, scoprendo che aprirsi è un po’ salvarsi. Per scrivere la propria legge fondamentale, datata 7 giugno 1929 (anno difficile assai), il Vaticano chiamò Federico Cammeo, giurista ed ebreo (la moglie morì in un campo di concentramento). Allora trovarono il coraggio, che mancò subito dopo.

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