giovedì 18 aprile 2013

Cineserie Telecom. Davide Giacalone

 

La sorte di Telecom Italia scatena periodicamente un frullato misto di furbizia e irrazionalità. Ora è il fantasma cinese ad agitare le paure. La cosa grottesca è che nel mentre è necessario avviare dismissioni di patrimonio pubblico, per ridurre il debito e rilanciare gli investimenti, l’unica cosa di cui tutti parlano è l’esatto contrario: investire soldi pubblici per riprendersi la rete, che già era pubblica ed è stata colpevolmente svenduta. Si ragioni su tre punti: 1. il fallimento di chi esercita il controllo su Telecom; 2. il valore strategico della rete; 3. l’interesse nazionale (tutelato dalla golden share), in relazione all’ingresso di nuovi soci.

1. Il fallimento sta nel tandem della metà e del doppio: a. il valore di Telecom, in Borsa, è pari (12 miliardi) alla metà dell’indebitamento (23); b. la finanziaria di controllo, Telco, ha in carico le azioni a 1.2 euro, quindi al doppio di quel che valgono oggi. I protagonisti italiani di quell’avventura (Generali, Mediobanca, Intesa Sanpaolo) hanno fallito la loro missione, consistente nel rimettere sotto controllo un debito mostruoso, creatosi sia con la scalata dei capitani coraggiosi che con il riacquisto delle azioni Tim, e far valere l’italianità della società. Il socio straniero, la spagnola Telefonica, ha fallito perché incapace sia di contare che di prendere il controllo, mancandogliene i soldi. Tale stallo non può continuare, perché la società affonda.

2. E’ opinione diffusa che il valore nazionale di Telecom risieda nella sua rete fissa. Si ritiene che se di Telecom si dovesse “perdere il controllo” sarebbe saggio ricomprarla. Tesi tanto forte quanto inconsistente. La rete è funzionale alla redditività dei servizi e all’effettività della concorrenza. E’ stata tenuta dentro Telecom per favorire la prima cosa, ma non è servito. Mentre alla seconda dovrebbero provvedere le norme e le autorità di controllo. Invece sembra che la rete sia una specie di depandance della sovranità nazionale, per la qual cosa vale quanto si trova appresso. Intanto un dettaglio, solitamente ignorato: la struttura della rete è già in gran parte straniera, e in quota significativa cinese. Perché a costruirla è una società che si chiama Huawei, cinese, appunto, che in Italia ha 700 dipendenti e un importante centro di ricerca a Milano, sulla tecnologia microwave. Gli altri che ci lavorano sono i tedeschi della Siemens. Di italiano è rimasta Sirti, con 4mila dipendenti e che esprime soddisfazione se i lavori li prende assieme a Huawei (come nel caso Wind). Ora, se la rete è fatta da stranieri mi spiegate in cosa consiste l’italianità del controllo strategico? Nella titolarità societaria? Nel corso degli ultimi lustri la rete si è molto impoverita, sicché farla tornare pubblica significherebbe averla venduta a poco quando valeva molto e ripagarla molto ora che vale poco. Epico risultato. Infine c’è l’aspetto sicurezza. Un tempo sarebbe stato decisivo, ma in quel tempo non c’era la globalizzazione e altri rimediavano alla debolezza italiana. Ora è sufficiente instaurare un controllo non operativo, in capo ai ministeri interni e difesa. La separazione societaria, avviata da Telecom, è cosa buona, ma dovrebbe preludere ad un investimento comune, con altri operatori e con fondi infrastrutturali, piuttosto che statale.

3. Telecom era una grande multinazionale italiana. I “boiardi” l’amministravano assai meglio dei corsari. Omnitel era italiana, poi passata con Vodafone, quindi inglese. Wind è stata una corbelleria dell’Enel, poi passata agli egiziani e da loro ai russi di Vimpelcom. H3G è cinese di Hutchison Whampoa, avendo acquistato Andala, che era italiana (creta da Renato Soru e … Franco Bernabè). L’italianità da chi dovrebbe essere difesa, da finanzieri perdenti dentro una finanziaria vincolata agli spagnoli, che governa una società i cui debiti doppiano il valore di Borsa? Semmai si deve usare la golden share per vincolare ogni passaggio di proprietà al rispetto di impegni relativi agli investimenti. Modernizzando la rete e senza lasciare zone scoperte. E’ quello che l’autorità brasiliana, Anatel, ha imposto a Tim Brasil, quindi un vincolo che i nuovi acquirenti, se arrivassero, si troverebbero già in pancia. Facciamo che l’Italia meriti il rispetto che il Brasile impone per sé.

Questo è l’interesse nazionale. Dispiace che i cinesi si prendano Telecom? A me dispiace che se la prenda chiunque, essendo una bandiera e un valore italiani. Fatta con i soldi degli italiani. Ma sono anni che la società viene depredata e declassata. La colpa è degli italiani, da noi descritti e denunciati per tempo. Potevamo essere colonizzatori e siamo stati colonizzati, ma solo perché nostri connazionali hanno collaborato al disastro. Arricchendosi. Se arrivano capitali dall’estero salutateli con rispetto, semmai s’impongano condizioni e si cerchi di farne un esempio per il sistema. Le telecomunicazioni non sono l’unica infrastruttura decisiva sulla quale occorrono investimenti e capitali internazionali.
Pubblicato da Libero

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