venerdì 14 marzo 2014

Qualcuno era cattocomunista. Fabrizio Rondolino


L'Intraprendente - Sarà un caso, una coincidenza da nulla, e sarà malizioso farlo notare, ma è un fatto che Rosy Bindi è tornata alla ribalta delle cronache, rilasciando interviste e dichiarazioni, quando s’è parlato disottosegretari. La già presidente del Pd di Bersani ha assistito in silenzio alla strepitosa vittoria di Renzi alle primarie e non ha obiettato nulla alla cruenta staffetta che ha estromesso da palazzo Chigi il buon Letta, ma quando s’è cominciato a parlare di poltrone ha deciso di riprendere la parola: non per lamentare l’assenza di bindiani dal nuovo esecutivo ma, più nobilmente, per puntare il dito contro gli “impresentabili” colpevoli soltanto di aver ricevuto un avviso di garanzia.

Ecco, Rosy Bindi sta tutta in questa equazione: poltrone + moralismo. Il risultato è un ventennio di onorata carriera politico-mediatica (nel Partito popolare, nel Pd, al governo) e una sostanziale assenza di risultati. Nessuno ricorda una posizione politica, una proposta programmatica, una scelta di governo della Bindi; in compenso, nessuno ha dimenticato l’infelice battuta che le rivolse Berlusconi, trasformandola all’istante nell’icona lamentosa e gettonatissima dell’antiberlusconismo.

E qui ci avviciniamo al punto. L’antiberlusconismo non è stato soltanto un errore politico e comunicativo marchiano, che di fatto ha consentito al Cavaliere di dominare incontrastato la scena politica per vent’anni: è stato anche il drappo rosso da agitare alla folla per nascondere il cronico fallimento di una classe dirigente. L’antiberlusconismo è stato brandito da Rosy Bindi, e con lei da decine di dirigenti grandi e piccoli del centrosinistra, come un’arma di distrazione di massa utile ad occultare il vero dato politico-culturale del ventennio: l’incapacità della sinistra a comprendere la modernità.

La cultura politica comune alla Dc e al Pci era sostanzialmente consociativa e universalistica: in un Paese a crescita costante c’erano soldi per tutti – operai e falsi invalidi, imprenditori e baby pensionati – e non restava che accordarsi sul modo più vantaggioso per distribuirli. Ogni volta che qualcosa di nuovo bussava alla porta – il ’68, Craxi, e infine Berlusconi – la reazione è sempre stata di allarmata chiusura, di scomunica, di resistenza tenace.

È il profondo conservatorismo della cultura cattocomunista, sopravvissuta per vent’anni alla dissoluzione dei partiti di origine, ad aver bloccato la capacità di espansione della sinistra, chiudendola nel ridotto corporativo di un piccolo mondo antico e privandola della possibilità stessa di comprendere che cosa stava succedendo nel Paese.

Per questo la battaglia di Rosy Bindi e dei suoi sodali contro Matteo Renzi è e sarà sempre più cruenta: perché è l’ultima battaglia con cui l’Ancien régime cerca e cercherà di fermare il Robespierre-Napoleone calato all’improvviso su un corpo politico-istituzionale in aperta metastasi. Ma, come insegna la storia, sebbene non sempre il moderno riesca a vincere al primo assalto, l’antico è sempre destinato a perire.

 

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