martedì 20 maggio 2008

Dopo 60 anni è ora di voltare pagina. Angelo Crespi

Vale la pena riscrivere la storia? La risposta più ovvia è sì. Meno ovvi i motivi che ci inducono a dare risposta positiva. Nessuno, sul principiare del nuovo governo di Centrodestra, è così sprovveduto da proporre che si debba forzosamente invertire il segno della storiografia italiana. Sarebbe illiberale pensare di sostituire una lunga e perniciosa egemonia culturale con un’altra seppur di verso opposto, ugualmente menzognera. Sarebbe inutile revanscismo tentarci, presi da sacro furore ideologico. Più giusto appare il perseguimento della verità, con tutti i limiti insiti in una tale affermazione. Ma dopo sessant’anni di mezze verità, vale la pena almeno provarci.

Lo spunto del ragionamento proviene dal nuovo libro di Giampaolo Pansa (I tre inverni della paura, Rizzoli) dedicato ancora una volta alle tristi vicende della guerra civile che vide scontrarsi sul suolo italiano con lo stesso odio e la medesima brutalità, fascisti, nazisti e comunisti. In questo caso però Pansa ha affinato il proprio armamentario di documenti, filtrandolo per mezzo della letteratura: una sorta di saga familiare, ambientata nel cosiddetto triangolo rosso emiliano, attraverso la quale l’autore ricostruisce il clima di orrore di quegli anni. Una scelta in apparenza meno stringente dal punto di vista storico, di certo più efficace in termini di divulgazione. Basti pensare che per vari lustri il ricordo di una tappa fondamentale seppur tragica della nostra storia patria fu demandato al romanzo dell’appena scomparso Marcello Venturi (Bandiera bianca a Cefalonia, Feltrinelli, 1963).

Il lato oscuro
La questione Resistenza ha superato il vaglio degli storici. Nessuno studioso onesto, se non per motivi di vile militanza, può esimersi dal mostrare il lato oscuro del periodo 1943-1948, specie il lato oscuro che riguarda le vendette partigiane a guerra conclusa. In questo senso Pansa, da attento storico e sapiente divulgatore, ha definitivamente abbattuto coi suoi precedenti volumi, a partire da Il sangue dei vinti, il muro di omertà eretto sul tema. Lo ha potuto fare anche in ragione della sua lunghissima carriera a l’Espresso e a Repubblica, vere fucine dell’intellighenzia di sinistra; per questo motivo è stato bollato come revisionista, come traditore della causa. In certi casi e in certe città gli è stato perfino impedito di presentare il proprio lavoro.
Nei decenni precedenti, la questione aveva avuto vari e controversi risvolti. La storiografia e la memorialistica di estrema destra avevano già raccolto ampia documentazione che metteva in crisi la liturgia della Resistenza. Ovviamente questi studi erano stati confinati ai margini dell’editoria. Nell’accademia, i precursori autorevoli come Renzo De Felice furono invece massacrati.

Bisognerà aspettare Ernesto Galli Della Loggia e poi Aga Rossi, e uno studioso straniero come Victor Zaslavsky, per fare luce su alcuni nodi del comunismo italiano, e più di recente rivolgersi agli editori minori per vedere pubblicati studi sistematici sulle strategie di potere della sinistra (vedi per esempio di Ugo Finetti, La Resistenza cancellata, Ares).
Non si può comunque disconoscere il grande impatto dei libri di Pansa, venduti in centinaia di migliaia di copie, che hanno riempito un vuoto di memoria collettiva che andava ingigantendosi e rendendo sempre più labile il concetto di appartenenza a una comune nazione. Il bisogno di fondare un nuovo patto tra i cittadini italiani, specie dopo la rivoluzione politica conseguita alla caduta del Muro di Berlino, prevedeva necessariamente la fondazione di una storia condivisa, o per lo meno lo sgombero dei falsi miti su cui si era retta la cosiddetta prima Repubblica. Cosa che con fatica sta avvenendo, un po’ per merito dell’irrimediabile oblio che avvolge i fatti storici, un po’ per la maturazione delle nuove classi politiche sia a destra che a sinistra.

Oltre la narrazione
Eppure qualche incrostazione resta anche se forse non è più compito dell’annalista di professione rimuoverla. I luoghi comuni resistono perché veicolati dai mass media, dalla televisione, dal cinema che preferiscono il cliché. Lo sforzo di Pansa, al di là dei meriti letterari che non sta a noi qui giudicare, è di fornire materiale psicologico, sebbene fondato su documenti; spesso nel romanzo, l’impatto narrativo cede infatti il posto all’intento didascalico, talvolta snervante perché l’autore immola la storia particolare, sull’altare della Storia generale. E non riuscendo a esimersi dal fornire con precisione al lettore riscontri oggettivi, date, nomi, luoghi geografici, strategie militari, analisi politiche, mettendoli in bocca ai protagonisti, rischia l’inverosimile narrativo, quasi che tutte le figure descritte non fossero parte in causa delle vicende, semmai veicoli dell’autore per fare storia in altro modo.

Ciononostante su un affresco vario e convincente della borghesia agraria emiliana, disegnate con maestria e umana pietas, si stagliano alcune figure, specie quella di Nora Conforti, il fulcro attorno al quale ruota l’intero dramma: giovane donna, figlia, madre, moglie, uccisa in un agguato appena ventiquattrenne, il 31 ottobre 1946, incolpevole vittima della diabolica follia che divise le famiglie, i fratelli, i paesi, l’Italia.
La Resistenza come mito fondante della Repubblica d’altronde poggiava sulla manifesta menzogna di molti storici sostenuti dalla politica, e più latamente sull’apporto di altri generi, come il romanzo e la memorialistica – più consoni a far vibrare e sedimentare sentimenti collettivi – che per decenni hanno “educato” nelle scuole le giovani generazioni.
Il romanzo di Pansa sarà dunque utile, come molta recente fiction televisiva, a riequilibrare anche per una platea più vasta le ragioni e i torti di quegli anni.
Mentre ci si allontana sempre più dal magma, mentre si affievoliscono i ricordi personali e scompaiono, non possiamo che auspicare non una beota dimenticanza né una forzata riscrittura, semmai una sincera opera di riconciliazione. (il Domenicale)

1 commento:

Massimo Filippini ha detto...

AL DIRETTORE DE "IL DOMENICALE"
Gentile direttore,
ho letto -e concordo pienamente- il Suo articolo "Dopo 60 anni è ora di voltare pagina" ma circa la Sua riflessione su Cefalonia in cui Ella definisce la vicenda come 'una tappa fondamentale seppur tragica della nostra storia patria' ("Basti pensare che per vari lustri il ricordo di una tappa fondamentale seppur tragica della nostra storia patria fu demandato al romanzo dell'appena scomparso Marcello Venturi - Bandiera bianca a Cefalonia, Feltrinelli, 1963") ritengo opportuno portare a Sua conoscenza le seguenti circostanze:

1- Sul DOMENICALE n. 48 del 29 nov. 2003 Luciano Garibaldi scrisse l'articolo "CEFALONIA UNA STRAGE SENZA VERITA"
http://www.ildomenicale.it/arretrati/n.48%20-%2029%20novembre%202003.pdf
in cui si riferì alle mie ricerche ed al mio primo libro ("La vera storia dell'eccidio di Cefalonia") restando nell'ambito dell'agghiacciante circostanza dei 9 - 10.000 soldati italiani uccisi dai tedeschi che all'epoca era data per scontata ed alla quale anche io nel mio libro mi ero adeguato.
2- Negli anni immediatamente successivi, però, continuando nelle mie ricerche presso gli Archivi di Stato e soprattutto Militari ebbi la sorpresa di rinvenire una CORPOSA DOCUMENTAZIONE che mi consentì di SMENTIRE in modo ampio e documentato ANCHE la macroscopica menzogna dei 10.000 morti sulla quale avevo cominciato a nutrire dubbi già durante la scrittura del mio secondo libro ("La tragedia di Cefalonia. Una verità scomoda" ibn ed. Roma 2004) successivamente confermati e resi noti nel terzo libro "I CADUTI DI CEFALONIA: FINE DI UN MITO Ibn ed Roma 2006.
Su quest'ultimo Le invio -traendolo dal web- il testo della recensione scritta il 26.10.2006 dal gen. Luigi Caligaris la cui indiscutibile competenza nelle questioni militari è indiscutibile e certamente ben nota anche a lei:

CEFALONIA SECONDO FILIPPINI di Luigi Caligaris
E’ uscito in giugno con la casa editrice Ibn il libro di Massimo Filippini “I caduti di Cefalonia: fine di un mito”. Questo libro, il terzo dello stesso autore su quel soggetto, tratta dei fatti occorsi nel settembre 1943 alla divisione Acqui in quella bella isola greca, entrata in tal modo a far parte della storia militare italiana. Sono fatti su cui da 60 anni si polemizza e discute, si indicono commemorazioni commosse; sui fatti chi vuole saperne di più trova puntigliosi riscontri sulle enciclopedie, di cui da tempo si tratta su molti mass media e che sono stati oggetto di due recenti film: uno straniero (Il mandolino del capitano Corelli) e l’altro italiano (Cefalonia, proiettato dalla nostra tv di Stato).
Con tale dovizia di informazioni, con un attenzione incessante, inusuale per un Paese come il nostro dove ogni argomento cattura l’interesse per attimi, perché mai occuparsi dell’ennesimo libro su eventi che si avrebbe ragione di considerare accertati oltre ogni ragionevole dubbio? Ebbene, di motivi ve ne sono almeno due.

In primo luogo, la ricostruzione ufficiale dei fatti su cui si fonda il mito Cefalonia è contestata con ricchezza di dati di alcuni - fra cui Filippini - e ciò da solo giustifica una legittima curiosità. Inoltre, la lettura del libro fa emergere il dubbio che l’edificazione del mito sia dovuta non solo al desiderio – apprezzabile - di valorizzare la figura del militare in un contesto tragico quale quello del 8 settembre 1943, ma anche al tentativo – opinabile - di avvalorare la tesi del sacrificio di massa in omaggio al cliché in voga in Italia del soldato buono, che alla resa dei conti si converte in eroe martire e remissivo in contrapposizione all’impopolare eroe combattente.

Quei due motivi da soli più che giustificano la recensione del libro, impresa non facile per il suo alto contenuto polemico, per il suo tono spigoloso e per l’implicito invito dell’autore ad associarsi al suo scontro diretto con coloro che hanno contribuito a promuovere i fatti di Cefalonia a epopea nazionale. Non farsi coinvolgere non sarà facile, non solo perché si tratta di un tema tragico e assai controverso, ma anche perché il suo autore è profondamente coinvolto egli stesso. Ex ufficiale, orfano di un ufficiale di carriera caduto a Cefalonia, Massimo Filippini ha dedicato tutta una vita al tentativo di fare chiarezza su fatti che ritiene siano stati ad arte manipolati.

In questa sua ultima opera che, come indica il titolo, dovrebbe contribuire alla fine dell’esaltazione eroica di Cefalonia, l’autore si rivolge a due aspetti che sono stati fra i pilastri portanti della costruzione del mito. Il primo è il numero che pare davvero eccessivo di soldati italiani passati per le armi dai tedeschi in un eccidio perpetrato da forze regolari contro altre forze regolari. Il numero sarebbe stato ingigantito “forse per accrescere in una opinione pubblica all’oscuro dei fatti non tanto la pietà per i poveri morti quanto il risentimento, in chiave soprattutto ideologica, verso il nemico nazista”.

Quali che siano le cause della disinformazione, non si può non convenire che non si tratta di un esempio isolato e che in Italia permangono fitte zone d’ombra attorno a quel tragico 8 settembre, di cui Cefalonia è uno dei tanti tristi episodi, che ha esposto spietatamente le carenze delle nostre istituzioni e la fragilità della stessa nazione. La politica del dopoguerra, offrendo al Paese una sua versione dei fatti che attribuiva alla Resistenza ogni merito per il riscatto del Paese minimizzando il ruolo dei militari, ha fatto sì che qualsiasi evento di quegli ultimi anni di guerra fosse desideroso di celebrazione nazionale dovesse essere interpretato in chiave resistenziale.

Tuttavia, se ciò ha contribuito all’iniziale edificazione del mito, la persistenza del fenomeno la si deve anche alla sua sintonia con la visione ormai consolidata delle cose militari. Gli ingredienti della cultura militare attuale ci sono tutti: lo scarso credito dato alle strutture militari; la pochezza dei comandanti; la dissidenza di pochi esaltata come eroica perchè in rima resistenziale; il plauso per un presunto referendum inteso a decidere se deporre le armi o resistere e offerto quale prova di democrazia; la resa senza colpo ferire e l’altrettanto rassegnata accettazione dell’eccidio.

Per sottoporre la versione ufficiale-ufficiosa - ma comunque generalizzata - dei fatti a una diagnosi che si riveli attendibile, Filippini si avvale di documenti ufficiali e di testimonianze di alcuni superstiti e con pregevole ostinazione si prodiga nel tentativo di smontare l’ipotesi, ormai metabolizzata dalla retorica nazionale, dell’immane “sterminio” le cui cifre si sono attestate su 9-10mila morti per mano tedesca.

In una attenta disamina, egli cerca di stabilire quanti siano stati i caduti in combattimento e quelli passati per le armi dai tedeschi, i soli associabili ai drammatici fatti di Cefalonia, per distinguerli da coloro che, invece, si unirono alla resistenza greca (qualche centinaio), collaborarono con il nemico (oltre 1.200) , rientrarono in patria con odissee personali e di gruppo, furono internati in campi di concentramento in varie parti d’Europa, anche in Russia, e perirono in mare (1.300) per l’affondamento delle navi che li trasferivano altrove.

Alla fine della rassegna, da cui si esce frastornati dalla ridda di numeri assai distanti fra loro esibiti da vari esperti a sostegno delle rispettive ipotesi sul massacro di Cefalonia e dopo che l’autore ha premesso che “un bilancio definitivo preciso all’unità è impossibile”, Filippini propone su un totale di 12.000 militari della divisione Acqui presenti sull’isola , un numero di 1.647 caduti per mano tedesca di cui 1.290 in combattimento e 355 per fucilazione, per la maggior parte ufficiali fra cui suo padre. Tale ultima cifra, seppure non sminuisca le orrende responsabilità dei tedeschi, è meno del cinque per cento rispetto ad alcune fra le ipotesi in circolazione.

Un altro aspetto sui cui Filippini si sofferma è la responsabilità delle autorità politiche e militari. A prescindere da quelle ovvie delle alte gerarchie nazionali e su territorio greco, merita attenzione la sua valutazione positiva dell’operato del comandante della divisione Acqui, generale Gandin, sottoposto invece dalla vulgata nazionale a gravissime critiche che Filippini, controcorrente, rovescia su alcuni gruppi di sediziosi che ne avrebbero minato l’autorità.

La descrizione, sia pure succinta, di queste deviazioni è fra le parti più inquietanti del libro e resta fra le pagine bianche dei fatti su Cefalonia. Che poi i suoi protagonisti abbiano rivendicato e ottenuto medaglie al valore militare e siano stati reintegrati nella carriera per una bizzarra rivalutazione in chiave resistenziale del loro operato, sa di grottesco. A ciò si aggiunge che oltre mille militari, scampati al massacro e poi divenuti “collaborazionisti a pieno titolo dei tedeschi” furono celebrati come eroi partigiani al loro rientro in Patria e celebrati come tali anche in seguito. Come esempio di travestitismo e come conforme connivenza delle istituzioni, un episodio encomiabile. Si fa, naturalmente, per dire.

A latere, vi è anche accenno a stravaganti valutazioni delle commissioni d’inchiesta e persino a iniziative giudiziarie tendenti a incriminare il capo e il sottocapo di stato maggiore dell’Esercito per avere dato l’ordine al generale Gandin di opporsi con le armi ai tedeschi. Ne si desume che, secondo loro, avrebbero dovuto ignorare gli ordini avuti e accettare l’invito alla resa come scelta giuridicamente ineccepibile. Chi si meraviglia oggi per l’avvio di inchieste da parte della magistratura sull’operato di comandanti durante uno scontro a fuoco vi trova un precedente inquietante.

Giunto al termine di questa mia confusa recensione, in cui ho trovato non poche difficoltà a raccapezzarmi, consiglio la lettura del libro, che è indubbiamente interessante e si dimostra di preoccupante attualità quale esempio di insabbiamento del caso o di ricostruzione ad arte dei fatti. Tutti vittime, nessuno colpevole, in una fuga dalle proprie responsabilità che torna comoda a chi ha sbagliato ma che offende la memoria di chi per i suoi errori ha sofferto e magari anche perso la vita.

Vi è chi auspica che la verità ufficiale su Cefalonia trionfi e che storici come Filippini cessino di contestarla al solo fine di non rimettere tutto in discussione. Se così avessero ragionato gli Stati Uniti, non sarebbero mai emerse le colpe politiche e militari del conflitto in Vietnam. Se la ricerca della verità è indubbiamente traumatica, è anche vero che la persistenza del dubbio che sia stata manipolata induce a debilitante e demotivante sfiducia.

Non resta quindi che tirare le somme della intera questione, liberandola della vis polemica, chiarendo il ruolo giocato dai protagonisti, facendo chiarezza sui fatti con auspicabile obiettività. Sono passati 60 anni da allora. E’ ora che la storia con la S maiuscola restituisca dignità al triste evento, sottraendolo alle speculazioni e ai conformismi di parte. Sostiene Shakespeare: “La gloria del Tempo è di calmare i contendenti, smascherare le falsità, portare alla luce la verità”. Come proposito non è affatto male.
(Da www.paginedidifesa.it/2006/caligaris_061026.html)

Per finire esprimo l'augurio che nell'ambito di un auspicabile riequilibrio della storia finora scritta ad uso e consumo di una sinistra menzognera, prepotente ed arrogante, il Suo giornale tenga conto del fatto che la 'verità' VERA sui fatti di Cefalonia è quella accertata dallo scrivente contro il quale si è logicamente accanito fino ad oggi l'astio e l'odio dei comunisti privati del monopolio su un episodio della resistenza con le stellette cioè militare da loro trasformato addirittura nell'atto iniziatore della Resistenza ideologica -magari comunista- con la quale esso nulla ebbe a che fare.
Sempre a disposizione per qualunque iniziativa volta a dar maggior pubblicità alla vicenda nei suoi reali e veritieri aspetti invio i migliori saluti a lei e a tutti i Circoli della libertà.
avv. Massimo Filippini
Orfano di un Martire di Cefalonia
Latina
www.cefalonia.it