sabato 7 febbraio 2009

Delitto Fortugno, la sentenza senza teoremi. Lino Jannuzzi

La Corte d’assise di Locri, dopo un processo durato 21 mesi con 112 udienze e 300 testimoni, ha condannato all’ergastolo i mandanti e gli esecutori dell’omicidio di Domenico Fortugno, medico e vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria, ucciso la sera del 16 ottobre del 2005 mentre votava per le primarie dell’Unione. I giudici hanno confermato la tesi dell’accusa: i mandanti dell’omicidio sono stati Alessandro Marcianò, caposala dell’ospedale di Locri, e suo figlio Giuseppe, e il movente del delitto sarebbe stato tutt’altro che politico-mafioso, tanto che la Corte non li ha condannati per associazione mafiosa, né ha tenuto gran conto che Marcianò era anche il galoppino elettorale di un candidato della Margherita, Domenico Crea, che era stato superato nelle preferenze da Fortugno ed è entrato nel Consiglio regionale solo in virtù dell’assassinio di quest’ultimo. In sostanza Marcianò ha organizzato l’omicidio soltanto perché il potere che Fortugno aveva assunto entrando in Consiglio regionale e diventandone presidente metteva in crisi gli equilibri interni all’ospedale di Locri.

Questo livello “minimalistico” del mandante, dei killer e del movente ha deluso e ha lasciato insoddisfatti la vedova di Fortugno, Maria Grazia Laganà, diventata dopo il delitto parlamentare del Pd, e i ragazzi di Locri, quelli dell’associazione “Ammazzateci tutti”, che hanno disertato l’aula del processo al momento della lettura della sentenza, come del resto tutti i politici (c’era un solo parlamentare, l’onnipresente Beppe Lumia). Intervistata subito dopo, la vedova Laganà ha dichiarato di non aver mai considerato Marcianò un mandante, “semmai un organizzatore”, e che “i mandanti vanno cercati più in alto”, e che “il movente è politico” e che “va al di là della politica locale”.

Verrebbe fatto di rimpiangere che gli inquirenti di Locri non si siano avvalsi, come i loro colleghi di Catanzaro, della consulenza di Gioacchino Genchi: questi sarebbe stato certamente in grado, attraverso gli incroci di migliaia di tabulati delle telefonate intercorse tra i Marcianò e i killer e tutti coloro che, a partire da sette anni prima del delitto, avevano parlato al telefono con loro e tra di loro, di risalire molto “in alto”: come ha fatto nell’inchiesta “Why not”, dove partendo dall’unico indagato, quel Saladino della Compagnia delle Opere, è risalito, oltre che a molti parlamentari e magistrati e agenti segreti, fino al ministro della Giustizia Clemente Mastella e al presidente del Consiglio Romano Prodi e al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Nicola Mancino, e sarebbe potuto risalire fino al Papa.

Perché questa è stata in tutti questi anni la forza di Genchi, quella che lo ha fatto preferire da tanti magistrati, e soprattutto da quelli di Palermo, pur trattandosi non di un poliziotto in servizio (che intercetta gratis), ma di un privato cittadino che è costato fior di milioni di euro: il “sistema Genchi” è quello che si presta perfettamente a sostenere i teoremi di quei professionisti dell’Antimafia che sono sempre a caccia dei “mandanti esterni” e dei “mandanti occulti” e dei “complotti” e dei “comitati d’affari” e della “rete massonica-politico mafiosa”. Se gli inquirenti di Locri si fossero avvalsi della consulenza (e dei “consigli”) di Genchi, dal capo sala dell’ospedale di Locri sarebbero potuti risalire fino al Consiglio superiore della Sanità e al ministro della Salute e delle Politiche sociali e al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che lo sente continuamente al telefono, e, perché no?, al presidente della Repubblica: oggi sui giornali avremmo letto che nell’assassinio di Fortugno è, in qualche modo, implicato il Quirinale. (il Velino)

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