lunedì 9 novembre 2009

Quando mezzo mondo cambiava classe dirigente il Pci cambiava nome. Giuliano Cazzola

Sabato scorso era il 7 novembre; oggi è il 9 novembre. Due date di calendario che stanno nello spazio di un week end, ma che indicano ricorrenze simmetriche ed opposte. Il 7 novembre del 1917 ebbe inizio la “Rivoluzione d’ottobre” (in Russia non era ancora stata applicata la riforma del calendario per cui erano indietro di qualche settimana rispetto al resto del mondo). Per oltre settant’anni, il 7 novembre, si festeggiava quell’evento con grandi manifestazioni a Mosca nella Piazza Rossa. Sfilavano le Forze Armate con tanto di missili, le strutture del partito e quant’altro significasse potenza e prestigio della “patria del socialismo reale”. Sull’enorme palco tutta la gerarchia dell’Urss e i vertici dei “partiti fratelli” di tutto il mondo, tra cui occupava un posto d’onore la delegazione del Pci, che era pur sempre il più grande partito comunista dell’Europa occidentale. C’era addirittura una Camera del Lavoro in Italia che per molti anni – prima che il processo unitario con Cisl e Uil prendesse forza e consistenza – nella giornata del 7 novembre chiudeva i battenti per festeggiare la ricorrenza.

Quella data non la ricorda più nessuno, neppure come evento storico. Tutti invece, a partire dagli ex comunisti, celebrano oggi la caduta del Muro di Berlino: il manufatto che spaccava in due una ex capitale europea, per decenni considerato come un baluardo che proteggeva la DDR dalle provocazioni e dalle penetrazioni del capitalismo e dal “revanscismo tedesco” come si diceva allora. Quel Muro, invece, non difendeva i cittadini-sudditi dell’Est; li teneva prigionieri. Fino alla caduta del Muro il Pci non aveva mai preso le distanze dai “partiti fratelli”, nonostante le critiche e i distinguo, sempre formulati con giri di parole caute e circospette (quando gli eserciti del Patto di Varsavia aggredirono la Cecoslovacchia l’Ufficio politico del Pci si limitò a parlare di “grave dissenso”). Eppure quelle espressioni caute ed ambigue venivano salutate dai corifei nostrani alla stregua di svolte epocali.

Nei giorni scorsi si sono incontrati Kohl, Bush padre e Gorbaciov, presentati dai media come i protagonisti della caduta del Muro. Niente di più falso: Gorbaciov la caduta del Muro la subì, non la volle né la sollecitò. Eppure Gorbaciov ha sempre ottenuto una grande audience in Europa perché, come Dubcek, era un “comunista democratico”, un leader che credeva nella riformabilità del regime comunista e quindi non voleva mettere in discussione le “conquiste” dei lavoratori (che poi tali non erano) derivanti dalla socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio. I russi, invece, non amavano Gorbaciov, tanto che gli preferirono Eltsin, un alcolizzato che era stato comunista, ma che non aveva esitato a gettare alle ortiche l’ideologia.

Dopo l’’89 la storia del mondo cambiò. E i cecoslovacchi, tornati liberi, non andarono a cercare nelle catacombe i dirigenti dell’era Dubcek, ma mandarono al potere una nuova classe dirigente che nulla aveva da spartire con il comunismo, tanto dal volto umano quanto da quello disumano. Il Pci risolse i suoi problemi di identità mutando nome (lo ha fatto più volte). Quei passaggi suscitarono un intenso dibattito interno che venne imposto a tutti gli italiani mediante film, dibattiti e fiction televisive, come se tutti noi dovessimo patire le stesse pene di chi non voleva smettere di essere comunista. Come se dovessimo tutti correggere Benedetto Croce e la sua considerazione (“non possiamo non dirci cristiani”) nel modo seguente: non possiamo non dirci comunisti.

Insomma, la svolta del 1989 arrivò all’improvviso. E in modo immeritato per il Pci che non aveva mai rotto fino in fondo con l’Urss e i regimi dell’Est. Basti pensare che solo da pochi anni si ammette che Enrico Berlinguer, ai tempi del compromesso storico, subì un attentato in Bulgaria, dal momento che l’incidente automobilistico di cui fu vittima presentava troppi aspetti dubbi. E che dire del clima di freddezza e di sospetto con cui fu accolta l’esperienza di Solidarnosc in Polonia o, anni prima, l’idea di organizzare a Venezia una “Biennale del dissenso”, a cui invitare i dissidenti dell’Est europeo, allora considerati in Europa, dai comunisti e dai loro “compagni di viaggio”, alla stregua dei provocatori ?

Oggi gli ex comunisti nostrani rimproverano a Putin cose assai meno gravi di quelle che non avrebbero mai rimproverato a Breznev. E la Camera vota mozioni sul rispetto dei diritti umani in Russia che mai avrebbe votato con riferimento all’Urss. Per fortuna sono entrati a far parte dell’Unione i Paesi dell’Est che a quell’esperienze non vogliono più tornare. Per queste ragioni è sciocco e sbagliato l’atteggiamento che esiste nel centro destra contro migliori condizioni di cittadinanza da riconoscere agli stranieri, compreso il diritto di voto. Quelli che nei loro Paesi hanno avuto a che fare col comunismo (anche se ne hanno sentito solo parlare dai padri e dai nonni) non vorranno mai saperne degli eredi. (l'Occidentale)

1 commento:

Anonimo ha detto...

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