martedì 3 novembre 2009

La sinistra si desti. Davide Giacalone

Le sorti della sinistra mi stanno a cuore. Oggi si trovano nelle mani dell’accoppiata Bersani-D’Alema, antichi e collaudati professionisti cui, per incoraggiamento, dedico l’ordine alfabetico. Ma non sembra, nonostante l’indubbio mestiere d’entrambe, che, al momento, si veda altro che la gioia di esserci e la voglia di partecipare. Sembrano più sopravvissuti alla ricerca di collocazione, piuttosto che sopravvenuti con un’idea di futuro in testa.
La sinistra italiana non è mai stata bene, purtroppo. Siamo l’unica democrazia occidentale che ha avuto la disgrazia di un partito comunista elettoralmente più forte di quello socialista. Per tutto l’arco della prima Repubblica, quindi, la sinistra di governo è stata rappresentata da tre partiti (Psi, Pri, Psdi), inevitabilmente minoritari rispetto a quello di maggioranza relativa, la Dc. Ogni ipotesi di alternativa di sinistra era messa fuori gioco dal ruolo dominante che avrebbe avuto un partito, il Pci, nemico militare, politico e culturale dell’occidente e delle sue libertà democratiche. La sinistra è andata al governo, nella sua interezza, con la seconda Repubblica. Ma a che prezzo? S’è dovuta mascherare dietro i democristiani, ha perso voti e prodotto instabilità. Veniamo ad oggi.
Massimo D’Alema passa per essere un diabolico stratega. Credo la cosa gli faccia piacere. Sta di fatto, però, che il 17 ottobre sosteneva non esserci il “clima” per ragionare di riforme, quindi diagnosticava l’incomunicabilità con la maggioranza, e dieci giorni appresso ringraziava il governo per l’appoggio ricevuto in sede europea. Se lui è quello che guarda lontano, gli altri compagni leggono solo in braille. Pierluigi Bersani ha battuto Franceschini criticandone l’antiberlusconismo di bandiera e la suicida alleanza con Di Pietro. Non ha fatto a tempo ad incassare la segreteria del Pd, che già parla di colloqui con Di Pietro e rifiuto del “dialogo”.
Se Di Pietro gli piace, se s’acconcia all’alleanza con la destra giustizialista, se lo tenga. Continuate così, morettianamente dico, fatevi del male. Capisco anche che parlare di “dialogo” non significa molto, e ciascuno gli dà il significato che crede (il problema sarà dirlo a Napolitano), è sciocco, però, sostenere che il confronto si fa solo in Parlamento. E’ autolesionista lamentare che il confronto non può partire finché la maggioranza non avrà stabilito su cosa e con quali proposte. Prendiamo il caso della giustizia, le cose funzionano così: se la maggioranza trova un accordo interno, presenta un disegno di legge e lo approva con i propri voti, lasciando Bersani con il moccolo in mano e Di Pietro a strappargli le braghe. Se, come pure è possibile, la maggioranza si trastulla con i tamponi emostatici e non va da nessuna parte, anche Bersani se ne resta al palo, con Di Pietro che soffia sul fuoco sottostante. Oh, un gran disegno politico, non c’è che dire.
Luciano Violante, che di queste cose se ne intende, ha capito che giocando di rimessa non vanno da nessuna parte e, quindi, ha già buttato giù alcune idee di riforma, premurandosi di far sapere in giro che non sono condivise dalla corporazione dei suoi ex colleghi. Possibile che, con tutta la loro esperienza e con le inesauribili scorte di furbizia che si ritrovano, Bersani e D’Alema lascino al vecchio compagno inquisitore il ruolo di tessitore e risanatore? Questa sinistra può avere un ruolo se si decide a vestire i panni del riformismo, se prova a prendere la maggioranza in velocità, anticipando proposte concrete e ricette evolute. Questa sinistra può sperare di riscattare la propria sessantennale arretratezza culturale se si butta avanti sul terreno delle riforme costituzionali. Se non lo capiscono vuol dire che hanno lucidità e coraggio politico tanti quanti ne avevano occupandosi di finanza, quando gioivano per le scalate bancarie: lucidità zero e coraggio quel che basta per non nascondersi.

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