mercoledì 30 giugno 2010

Più che alla libertà dovremmo pensare alla serietà dell'informazione. Leonardo Guzzo

Nemmeno un anno fa la collana Meridiani della Mondadori ha finito di pubblicare una corposa storia del giornalismo in Italia, riconoscendo, con un’antologia di scritti delle più prestigiose firme italiane, dignità letteraria al mestiere di divulgare le notizie. Eppure, mentre qualcuno si adopera per strappargli di dosso l’aura di fratello povero della letteratura, il giornalismo italiano dà pessima prova di sé.

Liste di proscrizione sbattute in prima pagina; corrotti e corruttori, veri o presunti, additati al pubblico ludibrio; casi montati senza nemmeno verificare le fonti, a rischio di clamorosi buchi nell’acqua; scandali del figlio, della suocera o della comare per colpire chicchessia. La stampa nostrana sembra affetta da una pericolosa “sindrome da tabloid”, scivola lungo una deriva scandalistica aggravata dal fumus persecutionis e dalla malafede politicamente orientata. L’esperimento perpetrato per un quindicennio ai danni di Berlusconi ha fatto scuola. Invece di disgustare. Ma in Italia, a quanto pare, le cattive abitudini si prendono subito.

Non si tratta, a dire il vero, di una novità assoluta, piuttosto della riedizione di un classico, un attacco virulento di un’antica malattia italiana. Già negli anni ’80, in un’intervista sul Corriere della Sera, Hans Magnus Enzensberger lamentava che “in Italia tutto finisce in giornalismo”. Sarebbe a dire “in spettacolo”, chiacchiericcio senza costrutto, ipocrisia che nasconde la sostanza delle cose. Un difetto cronico, insomma, che si è pericolosamente acuito nel tempo.

Il giornalismo di oggi somiglia sempre più alla politica: strumentale, tendenzioso, disposto a barattare l’onestà con la convenienza attraverso i più sfrenati equilibrismi. Hai voglia a riempirsi la bocca di “deontologia professionale” e “obiettività della notizia”. La faziosità, coltivata con passione, raggiunge ambiti impensabili. Vanno bene le opinioni, ma i dati, almeno quelli, dovrebbero essere dati. E invece la manipolazione, la falsificazione raggiunge anche loro: a bordate di fango la realtà dei fatti è ridotta a un relitto e annega in una palude di ipocrisia, insinuazione, sospetto. Le colonne dei giornali diventano il surrogato delle aule giudiziarie, la gogna mediatica sostituisce la condanna.

Gli scandali dei potenti, si dice con una buona dose di faccia tosta, sono schiaffi alla coscienza dei cittadini. E sono invece semplici scorciatoie verso il successo editoriale. I veri schiaffi fanno molto meno rumore e assai più male. E non hanno bisogno, per essere sferrati, di escort e microspie, appostamenti e perquisizioni. Basterebbe guardarsi intorno, puntare l’obiettivo sulla gente, cercare le notizie dove sono, affrontare i problemi concreti, quelli sì scesi sotto il livello della comune indignazione: la precarietà, l’emarginazione, la cattiva amministrazione, la meritocrazia annunciata e tradita.

Sfortunatamente si tratta di temi troppo poco eclatanti o “pruriginosi”. I giornalisti italiani frequentano per lo più un’altra parrocchia: il sensazionalismo è la via breve per il successo; la mistica dell’uomo della strada, dell’orecchio teso al marciapiede, del cane da guardia della democrazia infiamma i cuori ma molto meno le menti. La verità è che il giornalismo è un mestiere difficile. In bilico tra coraggio e paura, tra coscienza e opportunismo. Richiede misura, tocco, stile (non solo letterario). E’ spesso questione di sottigliezze, sfumature che contrastano con la rozzezza e i modi truculenti di certi “maestri” d’oggigiorno.

A guardarla bene, con un po’ di malizia, la casta giornalistica abbonda di “camerieri dell’informazione” o protagonisti a tutti i costi, molto volpi e poco leoni, animati da una logica del profitto, personale o aziendale ma sempre “particolare”, che mal si sposa con le responsabilità sociali del “quarto potere”.Si fa un gran parlare di libertà di stampa, ma forse la questione è diversa. “Non è la liberta che manca”, rifletteva Leo Longanesi, “mancano gli uomini liberi”.

Invece di accanirsi soltanto sull’art. 21 della Costituzione (sempre sia benedetto…) sarebbe magari il caso di concentrarsi sulla levatura morale, o almeno sulla correttezza deontologica, dei professionisti della stampa. Più che alla “libertà di informazione” bisognerebbe pensare alla “serietà dell’informazione”. In caso contrario il giornalismo, lontano dall’elisio della letteratura e dalla trincea della denuncia sociale, rischia di ridursi a quello che Gide detestava: tutto ciò che domani interesserà meno di oggi. (l'Occidentale)

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