martedì 3 agosto 2010

Bologna e i conti ancora aperti. Michele Brambilla

Perché non c’era nessuno del governo ieri a Bologna, nel trentesimo anniversario della strage? La prima risposta è molto semplice: erano stufi di farsi fischiare, cosa che si ripeteva immancabilmente ogni anno. Ma a questo punto scatta una seconda domanda: perché i bolognesi li hanno sempre fischiati? E qui la risposta è un po’ più complessa.

Alcuni esponenti del Pdl hanno detto che quella del 2 agosto è ogni anno l’occasione, o meglio il pretesto, per contestare il governo, soprattutto se di centrodestra. Il ricordo della strage sarebbe quindi strumentalizzato. In parte è vero. Che cosa c’entrano le bandiere di Rifondazione Comunista con le vittime di quell’attentato? E perché l’anno scorso, tanto per fare un altro esempio, è stato silenziato dai fischi il ministro Bondi, del quale ovviamente tutto si può dire, ma certo non che sia un complice dei bombaroli?

Insomma le argomentazioni degli assenti non sono campate per aria. Ma non bastano, a nostro parere, per rispondere a quella seconda domanda: perché a Bologna chiunque si presenti come rappresentante del governo viene contestato? Credo si debba cercare la risposta andando molto indietro nel tempo: non solo al 2 agosto 1980, ma a tutti i cosiddetti anni di piombo. Cerchiamo di ricordare. In Italia ci si cominciò ad ammazzare alla fine degli Anni Sessanta. Era un periodo di tensione altissima. Altro che le piccole schermaglie di oggi. Il mondo era diviso in due blocchi: quello liberaldemocratico sotto l’ombrello americano; e quello comunista sotto il tallone sovietico. Ogni anno almeno un Paese del pianeta diventava comunista, e almeno un altro subiva un golpe militare di destra.

In Italia era il tempo delle lotte operaie e delle contestazioni studentesche. La sinistra avanzava. Qualcuno vedeva la rivoluzione vicina; così qualcun altro sentiva l’esigenza di «ordine», e magari un po’ di nostalgia di quando c’era lui. Fiorirono presto due terrorismi.

Uno fu quello delle Brigate Rosse e dei suoi più stretti parenti. Erano assassini con bersagli ben precisi: poliziotti, carabinieri, magistrati, politici. Fra le loro vittime preferite c’erano non tanto i fascisti o i «padroni» quanto i riformisti, gli «uomini del dialogo»: perché costoro, cercando di migliorare le condizioni di vita «delle masse» (un’espressione allora di gran voga) tagliavano l’erba sotto i piedi alla rivoluzione. Follia quanto si vuole, ma i brigatisti ragionavano così.

L’altro terrorismo fu quello «stragista». Bombe sui treni, nelle banche, nelle stazioni, con l’obiettivo non di eliminare «nemici» ben individuati, ma di massacrare uomini donne e bambini di cui i terroristi non conoscevano neppure i nomi. Lo scopo era quello di seminare il terrore e probabilmente di favorire una svolta autoritaria.

Per molti anni - diciamo almeno fino al 1978, sequestro Moro - in Italia regnò un certo conformismo che contagiò intellettuali e ahimè tanti giornalisti, e che produsse una grande falsificazione: quella di far credere che in realtà di terrorismo ce n’era uno solo, quello bombarolo fascista e reazionario; e che le Brigate Rosse e i loro compari altro non erano che sbirri, o appunto fascisti, incaricati di gettare discredito sulla sinistra. Fu soprattutto per reagire a questa gigantesca mistificazione che Indro Montanelli fondò il suo «Giornale». Aveva mille ragioni dalla sua parte.

Tuttavia, dopo più di trent’anni, un dato va obiettivamente riconosciuto. E cioè che, alla fine, dei terroristi rossi abbiamo saputo tutto: nomi, cognomi e origine politica, che è quella del comunismo rivoluzionario (chi ancora li dipinge come marionette della Cia, delira). Abbiamo anche visto costoro entrare in galera e restarci più o meno a lungo. Degli stragisti, invece, non abbiamo nomi e cognomi dietro le sbarre. Chi ha messo la bomba in piazza Fontana? Boh. E sul treno Italicus? E in piazza della Loggia? E alla stazione di Bologna chi furono i mandanti? Buio per tutte le stragi, con una sola piccola ma inquietante luce: in quasi tutti quei processi ci sono ufficiali dei servizi segreti dello Stato condannati per depistaggio.

Insomma: è legittimo il sospetto che sulle stragi lo Stato non abbia fatto il suo dovere. Non si scappa: o non ha saputo trovare i colpevoli, o non li ha voluti trovare o peggio ancora li ha coperti. I fischi ai ministri di oggi sono un errore, ma vengono da una rabbia antica che ha le sue ragioni. Se il presidente Napolitano ieri ha esortato a indagare sulle «complicità», se ha parlato di «lacune e ambiguità», è perché sa che c’è ancora un conto aperto fra lo Stato e il Paese. (la Stampa)

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