giovedì 5 aprile 2012

Il trionfo del re ferito. Annalena Benini

Dopo il buio nel corpo, Bossi è tornato padrone di sé (tranne i capelli) e del nord. Ritratto

“Diciamo pure che ho avuto culo”
   
(Umberto Bossi)
Lo si riconosceva dalla voce, molto prima di vederlo. Grugnito lombardo che copriva tutto, molti da salutare e qualcuno da mandare affanculo. “Arriva il capo”, “Ecco il Bossi”. A via Bellerio, in ufficio, nei comizi, per strada, a Pontida, sui barconi. Camicia a quadretti, giacca a quadretti, cravatta a caso, fazzoletto verde. Arrivava e travolgeva: chi aveva fatto cazzate o aveva alzato la cresta sapeva che a Bossi bastava un grugnito più feroce del solito.

Prima di accasciarsi. “Manuela, sto male, aiutami”. La voce non c’era più: tagliata via. Tracheotomia e tutto il resto, la morte accarezzata (anche desiderata, “ma ho continuato a combattare, perché sono un lottatore vero”) nel letto di ospedale, quando non si poteva raccontare nulla, quando Roberto Maroni, Roberto Castelli, Giancarlo Giorgetti e Roberto Calderoli dovevano fingere ottimismo sulle condizioni di Bossi, ma non erano bravi a raccontare balle sul capo. Salva la vita e perduta la voce. Bossi non sarà più Bossi. Nel primo messaggio registrato per Radio Padania, nel 2004, non si capisce niente tranne: “Non sono morto”. Un anno dopo, non riusciva a parlare per più di cinque minuti. Grugnito affievolito e tremante. Adesso si è ripreso anche la voce. Di nuovo lo si sente arrivare: grugnito soffocato, ma grosso grugnito leghista. Al microfono rende peggio, bisogna amplificarlo, ma da vicino è quasi come prima, dicono i suoi, “fa paura come prima, anche se è diventato più buono”. Si commuove, adesso, parla sempre della moglie e dei figli, regala dolcezze al suo popolo: “Lo so che mi volete bene”.

La prima volta che rimandò Pontida perché era ancora quasi morto, disse: “Mi mancate tanto”. Adesso Bossi ha ricominciato a fare pernacchie, dita medie, adesso aspetta i definitivi risultati elettorali, vuole fare il botto: “Siamo dei geni”, ha bofonchiato nel microfono ieri sera, e quando sorride è di nuovo Bossi. E’ diventato saggio, però, lo innervosiscono le scappatelle erotiche, dice che bisogna essere seri, lo innervosisce quel che esce dalle intercettazioni: “Se intercettano me, mi sentono al telefono con mia moglie, o che rido con mio figlio”. Come in “Bocca di Rosa” di De Andrè: “Si sa che la gente dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio, si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio”. A proposito del divorzio di Veronica Lario e Silvio Berlusconi, Umberto Bossi parlò di sé e della sua nuova vita morigerata: “Io non ho le veline. Se avessi le veline non potrei più tornare a casa.

Ho tanti figli maschi e sono tutti dalla parte della madre. Per di più ho anche la sfortuna che c’è la Rosy che viene sempre a casa mia e dà sempre ragione a mia moglie”. La Rosy è Rosy Mauro, vicepresidente del Senato e braccio destro di Umberto Bossi, signora molto mora su cui in passato si favoleggiava, ma che ha resistito al fianco del capo anche dopo la malattia (durante la quale la moglie Manuela Marrone, donna padana e siciliana insieme, ha fatto alcune utili pulizie politiche e amicali nella vita del marito, pulizie che lui ha accettato con gratitudine e obbedienza). Rosy Mauro è rimasta, fa da sfondo a tutte le foto di Bossi comiziante, e durante il primo discorso pubblico, a Lugano nel 2005 (trecento arrivati in battello e gli altri in pullman e in auto, un migliaio di leghisti privilegiati ammessi in Svizzera a salutare il re malato), Rosy si lasciò travolgere dall’euforia e urlò: “Lo vedete, abbiamo la prova che Bossi è immortale, che è un Highlander! E dopo Bossi, c’è ancora Bossi!”.

“Prima ero una belva, ora sono cambiato” (Umberto Bossi, maggio 2007)

Bossi era un immortale quando non dormiva la notte per una settimana di fila, si faceva la barba in ufficio, la mattina, mentre riceveva “i ragazzi” e non smetteva di parlare. Canottiera di lana estate e inverno (la canottiera preserva dai malanni di stagione, per molte signore è il massimo del sexy, gli stilisti l’hanno rilanciata, i maschi soprattutto omosessuali la considerano un feticcio della virilità perduta). Scrivere tutto il giornale da solo in due giorni, girare il nord in macchina, autista o non autista: si parte da Milano alle sedici, c’è un comizio a Verona alle diciotto, un altro a Udine alle ventuno, si comincia in ritardo e si va per le lunghe. Soprattutto perché Bossi adora fermarsi coi militanti e va pazzo per la firma sulle bandiere col guerriero. Anche adesso, che è meno Highlander e si affatica, non c’è verso di impedirgli, dopo un comizio, di mettersi a firmare bandiere, di stare lì ancora mezz’ora col segretario di sezione, magari soltanto in giacca. “Uè copriti almeno, capo, fa un freddo bestia”. “Ma va’ a dà vià el cù”.
“La Lega è il suo Gerovital, la Lega l’ha fatto rinascere”, dice la Lega, che non è per niente una cosa sola ma ha un capo solo ed è Bossi (“Nessuno, dal primo dei ministri all’ultimo dei militanti, potrebbe mai mettere in discussione quel che dice Bossi”).

Dopo l’incubo e la lentissima ripresa, dopo il periodo in Svizzera a sudarsi la riabilitazione e ascoltare i dischi di Celentano, i medici avevano consigliato di fargli un ufficio sul lago, un luogo tranquillo, vicino al posto della fisioterapia. “Non fate i pirla, il mio ufficio ce l’ho già”. Quello di via Bellerio, con la branda e il bagnetto sul retro, dove ieri attendeva lo spoglio dei voti con Calderoli, Giancarlo Giorgetti e il figlio Renzo. Quello con lo spadone appeso al muro, dove a volte tornava intorno all’alba per un pisolino e dove adesso questo Highlander acciaccato deve riposare spesso, per riprendere le forze, per non restare senza fiato. “Mai molà. Tegn dur” (sottotitolo imprescindibile: “Contro Roma ladrona”), gliel’avevano scritto su uno striscione contornato da fiaccole a Ponte Di Legno, il primo Capodanno dopo il buio nel corpo. In quell’occasione Bossi prese un aperitivo pubblico all’Hotel Mirella, un’aranciata amara, ed era talmente contento di essere festeggiato dai leghisti della Valcamonica che convinse la moglie e il medico che non lo mollava mai a invitare qualche militante a casa a chiacchierare, per sentirsi ancora il Senatùr. Per tornare a essere il Senatùr però bisognava anche ricominciare a fumare: niente sigarette, allora Bossi ha preso ad annusare e a fumare il sigaro. “Ci vuole continuità anche nei vizi”, ha detto, “e comunque grazie al fumo non mi si sono irrigiditi i muscoli”.

Gli si sono irrigiditi soltanto i capelli, in effetti: da quando ha avuto l’ictus non è mai più riuscito a pettinarli. Stanno dritti sulla testa, poi prendono qualche curva strana, a volte è l’impronta del cuscino, a volte il poggiatesta della macchina, altre è l’incazzatura che li innalza. “Ma va à laorà, barbùn”, non è leggenda folcloristica, è vita quotidiana alla Lega nord, quando Bossi decide che qualcuno ha esagerato. Prima dell’ictus era più spietato. Raimondo Fassa, avvocato, fu il primo sindaco leghista a Varese, negli anni Novanta, ma non marciava sul Po e non gli piaceva la secessione. “Ma cosa vogliono?”, sbottava Bossi quando qualcuno rompeva le scatole, “non capiscono che loro sono solo dei soldati? Devono obbedire e basta”. Insomma, Fassa finì a fare l’europarlamentare, prima di lasciare per sempre la Lega. A fine mandato andò a parlare con Bossi e Bossi lo tenne lì un’ora con il sottofondo (ma a volume alto) di tutti i suoi discorsi registrati a Pontida. L’egocentrismo è rimasto, ma adesso se uno dei suoi gli dice: “Uè ma fallo fuori sto pirla”, Bossi grugnisce: “Ha due figli, come si fa, mettiamolo da qualche parte dove non può nuocere”. Il tenero Bossi si commuove per le malattie degli altri, adesso, per gli amici che non credeva di avere e che ha ritrovato nella malattia (“compagni delle elementari che volevano sapere come stavo, che sono venuti ai comizi ad abbracciarmi, significa che qualcosa di buono ce l’ho anch’io”) e per la propria famiglia. “Io ho avuto mia moglie”, ripete sempre quando deve ripercorrere i mesi in cui non riusciva a muovere nulla, “e i miei figli, grazie a loro puoi vivere tre o quattro vite”.

Quattro figli, tutti maschi: Riccardo, avuto dalla prima moglie Gigliola (proprietaria di discoteche: ha raccontato di quando Bossi le aveva fatto credere di essersi laureato in medicina, di quando le regalò un orrendo pellicciotto lungo e dritto di pelo di lupo, di quando dipingeva e faceva il militante di sinistra, appassionato e contorto) e gli altri tre: Renzo, Eridano Sirio e Roberto Libertà. Per Renzo, la sua “trota” (delfino è troppo chic, roba da femminucce), Bossi sfiora il ridicolo: il ragazzo è stato bocciato tre volte all’esame di maturità e il padre amorevole ha accusato di discriminazione i professori “teròni”. Classico genitore giustificante (anzi teròne), a cui adesso brillano gli occhi perché la sua piccola trota ha preso due “trenta” a Economia e commercio (a casa Bossi dev’essere un evento per cui stappare bottiglie di Coca Cola, visto che il Senatùr è astemio e non beve nemmeno quando va a cena ad Arcore). Ora che la trota è in politica (e sta prendendo un sacco di voti, pena l’ideale decapitazione dei leghisti bresciani), dopo quella mattina di premonizione in cui, ancora adolescente, Bossi gli fece urlare dalla finestra: “Padania libera”, il primogenito è geloso, si sente messo da parte (“Io ho fatto ragioneria e ho finito in cinque anni senza mai finire sotto i riflettori bocciato o rimandato”). Voleva andare all’Isola dei Famosi e Bossi ha detto: “Gli tiro un calcio nel sedere” e ha vietato ad Antonio Marano, allora direttore di rete, di farlo ingaggiare. Riccardo Bossi si è vendicato rinfacciando al padre di non essere andato al battesimo di sua figlia Lavinia (anche la scelta del nome è un chiaro atto di insubordinazione, però), ma da ogni parola ingenua e impacciata esce l’amore assoluto per il padre “supereroe” che lavorava in continuazione, non andava a vederlo giocare a calcio e di notte si metteva alla scrivania, fumando una Camel dietro l’altra, per disegnare i primi poster della Lega. “Io avrò avuto cinque anni e mi sono svegliato, mio padre me l’ha mostrato tutto contento: c’era l’Italia con al nord una gallina che scodellava uova d’oro in un canestro messo all’altezza di Roma. Bellissimo”.

“Ci davano per morti, ci volevano morti” (Umberto Bossi, maggio 1996)

Prima di arrivare alla casa di Gemonio c’è una curva strettissima (che Bossi faceva spesso all’alba, dopo aver passato la notte in qualche pizzeria dopo un comizio). “Abbiamo girato e l’ho vista. Mi sono messo a piangere abbracciato alla casa”, ha detto Bossi, raccontando di quando ha potuto lasciare la clinica svizzera. Casa è dove arrivava e voleva subito appendere, alle pareti del salotto già tappezzato di souvenir e targhe ricordo, il solito quadro che gli avevano regalato al comizio, dono dei leghisti al loro valoroso condottiero, e allora alle cinque del mattino si metteva a confabulare con l’autista per scegliere l’angolo migliore: chiodo, martello, matita, livella, prendeva le misure e segnava il punto con la matita, l’altro stava lì con l’indice. Svegliavano a martellate tutta la famiglia. Poi Bossi andava a dormire soddisfatto. Adesso niente più martellate all’alba, anche perché non c’è un centimetro di muro libero, ma telefonate a mezzanotte o all’una per cambiare una frase, ribadire che Giancarlo Galan “è più bravo a pescare” che a governare, confrontare i sondaggi, inventarsi: “Mettiamo le ali alla Lombardia”. Bossi finge di apprezzare questa sua nuova “tranquillità”, la necessità fisica di non arrabbiarsi troppo, di non lanciarsi sulle cose e sulle persone, di trasformarsi in politico riflessivo (“Prima ero un po’ matto”). Ma si vede che scalpita, vorrebbe ancora andare forte in moto, e a chi maliziosamente gli chiede cosa c’è che non può più concretamente fare risponde muovendo il pugno destro (il sinistro non funziona): “Tutto, posso fare tutto”, con il grugnito soffocato che esce fuori soffiando, ansimando. “Non ero stato mai malato in tutta la vita”, e si è ritrovato senza più il corpo per troppo tempo. Se l’è ripreso con la fatica del guerriero e si è ripreso tutti i voti, anche di più. (il Foglio)

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