martedì 19 giugno 2012

Colle solitario. Davide Giacalone

Mario Mori lo hanno lasciato da solo, senza troppo crucciarsene. Come un ostaggio, considerato sacrificabile. Hanno pensato che potesse bastare, che sulle spalle del generale dei Carabinieri, ex capo del Ros, potesse caricarsi l’intero peso del teorema, delle trattative fra lo Stato e la mafia. Poi Nicola Mancino è stato chiamato a testimoniare e s’è sentito improvvisamente solo. Ha avuto paura, perché una cosa è chiara come il sole: se la trattativa ci fu, se era finalizzata a cancellare il carcere duro, il regime di 41 bis, allora tale risultato fu ottenuto, dalla mafia, nel 1993. Quando il governo era presieduto da Carlo Azelio Ciampi e al ministero dell’interno c’era lui: Mancino.

Io non credo al teorema, benché ritengo che un canale di comunicazione ci fu, fra i disonorati e le loro eccellenze. Il guaio è che il teorema doveva servire a fregare Silvio Berlusconi, sicché i vari Mancino, ben vedendone la forzatura, magari si davano di gomito. Come a dire: mica come noi, che alle toghe facciamo le fusa, che abbiamo ceduto a ogni richiesta corporativa, che abbiamo ammorbidito i possibili pericoli nel velluto dei palazzi e fra i cuscini dei salotti, no, il cavaliere pazzo va allo scontro, così attirando inchieste e processi più di quanto lo zucchero attiri le mosche. Il cavaliere, aggiungo io, non so s’è pazzo, di sicuro ha fallito, perché dopo anni di scontri non è riuscito a riformare la giustizia. Ma loro erano dei vili, dei falsi uomini di Stato che pensarono veramente di abbandonare Mori al suo destino, come in passato avevano abbandonato alla tortura altri carabinieri e altri servitori dello Stato, come avevano lasciato solo Carmelo Canale, in questo modo insultando la memoria di Paolo Borsellino. Che, del resto, isolarono e sconfissero già da vivo. Come prima avevano già fatto con Giovanni Falcone. Questi mezzi uomini hanno veramente creduto che potesse pagare Mori, che si potesse veramente continuare a raccontare palle giudiziarie, a dispetto del calendario.

Quindi, quando Mancino fu interrogato, nel 2011, s’attaccò al telefono e chiamò il Quirinale, per reclamare aiuto. E lo fece in modo comico: se resto solo parlo e se parlo escono altri nomi. Povero il nostro irpino, gli altri nomi erano già usciti. Li avevamo pubblicati noi: Oscar Luigi Scalfaro, Giovanni Conso, Adalberto Capriotti, Cesare Curioni. Non sto a ripetere la storia ancora una volta, perché prima o dopo qualche lettore mi tira una scarpa. Abbiamo fatto i nomi parlando al muro. Non so se Mancino li abbia letti, di sicuro non se ne è preoccupato: chi se ne frega, tanto a questi nessuno dà ascolto, mica sono manettari alla moda, mica giocano al piccolo inquisitore, poi sono pure garantisti, non fanno paura a nessuno. Noi, però, mettevamo in fila date e fatti, prima o dopo destinati a venire a galla. Quando li ha visti, quando gliene hanno, in modo colpevolmente tardivo, chiesto conto, Mancino ha avuto paura. S’è sentito solo. Cosa succede se il teorema viene sincronizzato con il calendario? S’è chiesto. Siamo tutti spacciati. Schiacciati dalla viltà e dall’avere taciuto, sperando che il giustizialismo facesse fuori i loro avversari.

Preoccupazioni che hanno fatto breccia presso l’uomo del Colle, che non ha risposto scandalizzato al suo consigliere, Loris D’Ambrosio, cui Mancino si era rivolto. Napolitano non gli ha detto: non si permetta di sottopormi questioni che riguardano l’autonomia della magistratura. Anzi, ha fatto cose che oggi inducono D’Ambrosio a dire: sono vincolato dal segreto, perché c’è l’immunità presidenziale. Che poi, per la precisine, non è affatto immunità, ma irresponsabilità, nel senso che ogni atto presidenziale deve essere avallato e controfirmato dal governo. Questo è scritto nella Costituzione. Ora il presidente fa sapere d’essersi mosso “nei limiti delle sue prerogative”. Sarebbe stato singolare sostenesse il contrario e, del resto, quegli atti furono sollecitati dal presidente emerito del Senato, già vice presidente del Csm. Ciò non di meno è significativo che s’invochi il “coordinamento” proprio dopo che un tale signore avverte di sentirsi solo e di sentirsi indotto a fare nomi. Tanto per dirne una: perché per Mori non si dovevano coordinare?

E la trattativa? Mori e il Ros parlarono con Ciancimino, questo è sicuro. Era il loro lavoro. L’esito di quella stagione è vincente, perché la mafia è stata colpita duramente, il suo braccio militare spezzato, il suo peso politico fiaccato. Mai abbassare la guardia. Questa genia di disonorati va estinta. Ma non c’è motivo d’ignorare i risultati, conseguiti quando al governo c’erano quelli che furono chiamati “ladri”.

Venti anni fa, però, si produssero due buchi neri: a. la complicità di chi isolò e sconfisse Falcone e Borsellino, lasciandoli soli davanti alla morte; b. la debolezza di chi accolse la richiesta di segnali distensivi, di chi prestò orecchio al capo dei cappellani carcerari e accettò di servirsi di un loro uomo, per distrarre i mafiosi dal mettere bombe davanti alle chiese. I malamente, però, vanno cercati fra i colleghi dei due magistrati eliminati e fra gli osannati della nuova stagione, quella dell’“onestà”. Va fatto, come qui ci siamo sforzati, altrimenti si continua a costruire sulle bugie. A proposito: Leoluca Orlando Cascio è il nuovo sindaco di Palermo. Una parola è picca e due sunnu assai.

Mori non può telefonare a nessuno, né nessuno gli risponderebbe. Ma i mondi responsabili di quei due micidiali buchi sono ancora al potere, e si telefonano. Impauriti, perché la trappola armata per schiacciare l’uno, usando un processo senza capo né coda, ha tutta l’aria di star per scattare sulle loro teste. Sicché si dicono, fra di loro, che quel modo d’istruire i processi va fermato. Che le intercettazioni non possono essere usate in questo modo. Che la ragion di Stato richiede anse di riservatezza. Che il protagonismo giudiziario può devastare le istituzioni, se divorzia dalle sentenze. Noi lo sapevamo e scrivevamo già, quindi possiamo vederli annaspare senza sentirci granché tristi.

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