martedì 26 giugno 2012

Coda di paglia. Davide Giacalone

Dovremo essere grati a Nicola Mancino, che inguaiando il Colle ha scatenato un diluvio di articoli pensosi, vergati da costituzionalisti preoccupati e commentatori affranti, sicché, infine, si son trovati a dover sostenere quel che noi scrivevamo solitari: così non si può andare avanti. Leggendoli, dopo un sorriso, trovo conferma di un fatto rilevante: sappiamo tutti benissimo quel che si dovrebbe fare, per raddrizzare l’Italia, ma ogni volta non ci si riesce perché i problemi si preferisce usarli come armi contro gli avversari, piuttosto che risolverli. Speriamo che il rossore quirinalizio, l’affannoso tentativo di minimizzare quel che è gigantesco, propizi il senso di responsabilità, mettendo da parte l’innata italica faziosità.

Ora si mette in dubbio che sia sensato istruire un processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia. Ora si dice che, ove mai ci sia stata, se ne deve valutare la portata politica, non penale. Ancora non hanno preso abbastanza coraggio, non riescono a mettere nero su bianco il nome di Mario Mori, ancora è troppo forte la vergogna per averlo abbandonato, ma sono sulla buona strada. Noi li aiutiamo da anni. Si facciano tornare alla mente anche il nome di un altro carabiniere, Carmelo Canale: era il braccio destro di Paolo Borsellino e fu abbandonato a un processo, durato anni lunghissimi, in cui lo si accusava di mafia. Lo pronuncino, perché la vergogna odierna non sia onta storica.

Comunque, se ne sono accorti: quel processo non sta in piedi. Ben arrivati. Peccato ci siano riusciti solo perché quello sventurato di Mancino ci ha trascinato dentro la presidenza della Repubblica. Il punto è: non si chiede e non si deve chiedere impunità per nessuno, ma uno Stato che lascia i propri servitori nelle mani dell’accusa penale, che continua nei tribunali la battaglia della mafia, non merita rispetto. I politici che non sono all’altezza di capirlo ne meritano ancora meno. Fa piacere leggerlo, ma era evidente da molti anni, come le nostre parole, nel tempo, dimostrano.

Ora si accorgono che le intercettazioni telefoniche possono essere un piede di porco con il quale si svelle ogni cosa, perché, come giustamente, ma tardivamente e nell’occasione sbagliata, dice Giorgio Napolitano: si tolgono frasi dal contesto, non si chiarisce l’insieme e si specula sulle parole. Peccato che, fin qui, sia stato uno sport nazionale. Praticato da quanti oggi lo rimproverano agli altri. Il che ha un lato divertente: è irresistibilmente ridicolo vedere Repubblica che si scapicolla a sostenere che in tal modo non si possono massacrare le istituzioni. Perbacco, da che pulpito!

Solo che ancora non hanno il coraggio di imboccare la via giusta: non si devono limitare le intercettazioni, che sono strumenti d’indagine e prevenzione, ma si deve cancellarne l’uso giudiziario, quindi il deposito delle trascrizioni e l’immediata pubblicazione sui numerosi mattinali di polizia, quali si sono ridotti a essere i giornali italiani.

Ora dicono che i magistrati devono accertare i reati, non scrivere o riscrivere la storia. Ci sono arrivati dopo avere pubblicato non so quante “verità” dei questurini, non so quante “rivelazioni” provenienti dalle celle, salvo poi nascondere con due righe in cronaca l’unica verità vera: erano boiate. Comunque: ben venuti. Adesso si tratta di passare dalle parole ai fatti: le sentenze sociologiche sono abominevoli, la letteratura giudiziaria è deviazionista, la magistratura combattente una violazione del diritto, quindi della legalità.

Ora si dice che, in un così grave momento di crisi, è da irresponsabili indebolire il vertice dello Stato. Quello del governo fu spolpato nel mentre i titoli del nostro debito pubblico finivano sotto attacco. Ma, ancora una volta, non si tratta di non potere o dovere pubblicare quel che emerge, o tacere quel che si pensa, ma di disporre di un sistema giudiziario che liberi in fretta gli innocenti dal sospetto, condannando i colpevoli. Si deve diffondere la cultura del diritto, secondo cui ciascuno è innocente, fino a condanna. (A tal proposito, tra parentesi, avere consentito l’arresto di un senatore, senza che sussista la benché minima esigenza cautelare, è segno di tale incommensurabile viltà, è confessione di una tale chilometrica coda di paglia, che la permanenza di una tale classe politica è nocumento alla Repubblica).

Fin qui questi mali ce li si è tirati dietro, sperano d’annientarci l’avversario. Lo ha fatto la sinistra contro la destra e la destra contro la sinistra. L’ultimo (in ordine di tempo) pugnale ha trafitto l’uomo del Colle. Forse ci siamo: continuare così è suicida. Quel che Napolitano non capì ieri, quando si metteva di traverso, e non capisce oggi, quando cerca di mettersi di sguincio, è che servono le riforme, serve la giustizia, serve il diritto. Non serve a nulla pretendere di salvarsi da soli. Oltre tutto è impossibile.

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