mercoledì 2 gennaio 2013

Vivere non scontare. Davide Giacalone

 

Siamo entrati nel 2013 a testa china, quasi sia un anno più da scontare che da vivere. A renderlo così poco attraente è la dimensione pubblica, che, per giunta, riempirà di scontata noia i primi due mesi, per culminare in elezioni il cui esito migliore sarebbe un non esito. Eppure, a dispetto di sentimenti diffusi, è proprio la dimensione pubblica a consentire di essere ottimisti. Perché i nostri problemi sono, prima di tutto, dentro la nostra testa e nel modo in cui li concepiamo. Vorrei che l’Italia fosse, al debutto di questo anno, come Felix Baumgartner, l’austriaco che ha saputo buttarsi da un’altezza incredibile: sul ciglio di un vuoto spaventoso, ma ragionevolmente sicura che potrà ancora correre sulle proprie gambe.

E’ possibile, se solo si ragiona. Il nostro prodotto interno lordo, la ricchezza che produciamo, si divide in due parti, non uguali, ma sostanzialmente equivalenti: 50% settore pubblico e 50% settore privato. Dobbiamo essere capaci di iniettare nella prima metà dosi massicce di meritocrazia e digitalizzazione, riuscendo a diminuire il peso burocratico sulla seconda metà, al tempo stesso alleggerendone il fardello fiscale e consentendole maggiore libertà. Non solo non è impossibile, ma è anche relativamente facile, se solo si apre la mente e non s’imbratta la tuta facendosela sotto.

La meritocrazia, nel settore pubblico, non è solo il premio a chi merita. Non funziona così: una classe in cui si danno buoni voti a chi studia e si promuovono anche i somari produrrà comunque ignoranza. Serve premiare i bravi, penalizzare chi non tiene il ritmo e buttare fuori chi stacca le braccia dai remi e attacca a fischiettare. Impossibile, si dice, perché il settore pubblico è refrattario a queste ricette e i dipendenti iper protetti dal sindacato. Sbagliato, rispondo, perché così procedendo saranno comunque licenziati, comunque non assunti, restando a stipendio i fortunati che hanno il solo merito d’essere stati assunti anni addietro. Sbagliato, perché così combinata è una macchina che produce miseria, ignoranza e malattia. Basta saperlo spiegare, e basta che chi lo spiega non sia totalmente inaffidabile, perché ladro, drogato o dissipatore. Non è vero che si avranno contro tutti i dipendenti pubblici, perché quelli bravi, che sono tantissimi, avranno solo da guadagnare.

Sul fronte della digitalizzazione il governo Monti non ha brillato. Non che i predecessori brillassero. Ecco la regola cui attenersi: ogni investimento deve comportare un più consistente taglio alla spesa pubblica corrente. Altrimenti licenziamo chi dirige e governa.

Diminuire le tasse non si può, dicono. Ma non vedono che ci sono aziende italiane capaci di reggere la competizione nei mercati globali, ma incapaci di reggere la tortura burocratica e fiscale. Quindi si deve, e dovendolo si può. Non spostando i pesi, come anche dicono i rimbambiti del centro destra, meno che mai scarnificando i ricchi, come dicono gli ipocriti del centro sinistra (i ricchi, se onesti, pagano già degli spropositi). Si può usando il patrimonio pubblico, mettendolo in un veicolo capace di emettere titoli garantiti dalle vendite (nel tempo), e recuperando risorse da restituire in termini di minore pressione fiscale, possibile per la compressione del debito, e in investimenti.

La digitalizzazione di cui sopra serve anche a ridurre il mostro burocratico. L’Italia è un Paese incivile non solo perché lo Stato ci costa troppo, ma anche perché pretende che si sia noi a determinare quanto sangue dobbiamo trasfondergli. Quel sangue e quel tempo vanno rimessi in circolo.

Si può fare, eccome. E fattolo sembrerà incredibile da quanto in alto siamo precipitati e quanto forti siamo ancora, per correre e gioire. Certo, da qui alla fine di febbraio ci tocca una solfa deprimente e degradante. Viviamola per quello che è: un tributo al passato che non vuole passare. Un ritardo del passato, non certo un anticipo di futuro.

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