sabato 13 febbraio 2010

Diritto di cronaca o prepotenza mediatica? Carlo D'Andrea

Per Michele Santoro si tratta di un «abuso di potere»; e il democratico ed ex-ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni, arriva addirittura a parlare di norma «anticostituzionale». Eppure il regolamento che la commissione di Vigilanza Rai ha approvato per disciplinare le partecipazioni dei politici nel mese che precede le prossime elezioni regionali risponde a una prerogativa prevista dalla legge sulla par condicio approvata nel 2000 dall'allora maggioranza di centrosinistra. Lo stesso regolamento, su cui si sta abbattendo il fuoco di fila dell'intellighenzia di sinistra, è stato del resto democraticamente votato dalla commissione su proposta di Marco Beltrandi, esponente radicale del Pd. È curioso inoltre ricordare come nei mesi d'inattività della commissione di palazzo San Macuto, bloccata dal «caso Villari», l'opposizione sottolineò l'interesse della maggioranza all'inerzia dell'organismo di controllo. Paradossalmente, oggi che la commissione funziona e svolge il suo compito di vigilanza, la sua attività diventerebbe un'arma a servizio del premier.

In tutte queste acrobazie della convenienza fa sorridere che i giornalisti sinistrorsi arrivino adesso ad ingiuriare il tentativo legittimo di mettere ordine alle presenze dei politici in tv nel periodo pre-elettorale. Fa sorridere ed è emblematico, soprattutto, come i vari Santoro, Floris e Annunziata spaccino qualsiasi indirizzo come lesivo del proprio «diritto di cronaca», tralasciando il dettaglio che questo diritto senza confini e regole assume le forme di un vero e proprio privilegio che concede loro il «prepotere» di scegliere arbitrariamente cosa mandare in onda, chi e come far intervenire. Il tutto peraltro all'interno di un editore che è pubblico e che, in ossequio all'interesse del pubblico, non può, o non dovrebbe, prescindere da regole.

Questa visione distorta del diritto di cronaca ricorda tanto il vessillo dell'obbligatorietà dell'azione penale, dietro il quale una certa magistratura continua pervicacemente a giustificare l'arbitrarietà della propria attività inquisitoria, rifiutando qualsiasi «contrappeso» da parte del potere politico, espressione diretta della volontà popolare. Entrambi gli atteggiamenti - di giornalisti e pm - sottintendono infatti una mentalità che dà per scontata la colonizzazione di determinati spazi di potere al di fuori di qualsiasi organo di controllo. Con l'aggravante che, rispetto a ieri, informazione e magistratura delegittimano costantemente la sfera politica, cioè chi è chiamato a sovrintendere al funzionamento di una società democratica.

Il tanto deplorato «decreto di San Macuto» ha commesso il peccato «mortale» di dissacrare queste sfere di potere, semplicemente invitando chi conduce gli spazi televisivi Rai a rispettare dei criteri di partecipazione, da parte dei politici, proporzionali alla rappresentanza parlamentare dei gruppi. Altro che bavaglio! Per quanto antipatico e restrittivo, il regolamento cerca d'introdurre soltanto un metodo di buon senso, che diventa tanto più urgente quanto più assistiamo a trasmissioni partigiane, dove l'orientamento politico definisce la rotta per studiare a tavolino l'organizzazione di molti talk-show. La stessa par condicio non molto del resto potrà contro la faziosità di trasmissioni come Ballarò, dove tutto, dai politici invitati agli accademici consultati, ai sondaggi proposti, alle modalità degli interventi è ben costruito e predeterminato. Non è insomma una questione soltanto di tempi. E poi tutti questi watch-dog non ci avevano spiegato che in Italia non esisteva la libertà d'informazione? (Ragionpolitica)

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