venerdì 17 settembre 2010

Uolter l'Africano. Davide Giacalone

Uolter l’Africano rientra sulla scena con il suo stile inimitabilmente imitante, prima con una portentosa intervista a Gioia (senza che noi s’osi immaginare cosa sarebbe riuscito a secernere ove la testata si fosse chiamata: Noia), poi con un documento di sei pagine, senza illustrazioni, sul quale ora si raccolgono le firme. Dice di non volere fondare una corrente, ma un movimento. Cosa significhi non è chiaro, visto che le correnti compongono un partito mentre i movimenti lo superano e distruggono, ma ci permettiamo di suggerirgli il possibile inno, tratto dalla colonna sonora di un bel film d’animazione: “mi piace quel che muovi, mi piace come muovi, e allora: MUOVI!”.

La premessa del pensoso documento, redatto assieme a Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni, denuncia la crisi del centro destra. Come si vede, gli attempati giovanotti son persone cui non sfugge nulla. Però tendono a non consideare un elemento: il centro destra si tiene Silvio Berlusconi, fin dalle sue origini e nonostante i ripetuti assalti alla baionetta, mentre il centro sinistra non solo ha fatto fuori, ma ha addirittura perso i suoi capi. Nell’ordine: a. Achille Occhetto è uscito dal partito, poi è anche uscito di senno e s’è alleato con Antonio Di Pietro; b. Romano Prodi è l’unico che li ha fatti vincere, ma loro lo hanno detronizzato due volte, sicché il professore balla da solo; c. Francesco Rutelli arriva da lontano e non ha ancora smesso di pellegrinare, tanto che ha fondato un partito alternativo a quello che lo candidò a governare; d. Uolter l’Africano, al secolo Veltroni Walter, era il candidato che univa e fondeva in un solo partito, nel quale oggi non si ritrova più. E se questi sono i capi, figuarevi i gregari. Per non parlare dei poveri elettori.

Fortunatamente la fame nel mondo diminuisce, grazie alla globalizzazione e all’industrializzazione, il che autorizza a credere che è meglio Uolter rimanga da noi. In fondo stiamo bene e certi problemi possiamo gestirli. Non trovandosi di meglio da fare, ed essendo escluso che vada a lavorare, s’è accorto che il Partito Democratico è privo di “bussola strategica”. Cosa sia un tale strumento non mi è noto, ma questo è un dettaglio, perché la cosa divertente è la sua chiosa: nel documento “non c’è una parola contro Bersani”. Dicono che è senza bussola, volendo significare che non sa dove andare e manco come andarci, ma sostengono di non criticarlo. Se lo avessero fatto, immagino, il documento sarebbe stato vietato ai minori.

Andiamo oltre. Il documento è succosamente pregno di frasi fatte sulle riforme: devono essere strutturali e indirizzate al bene del Paese. Roba su cui potrebbero convergere sia Storace che Diliberto, repubblicani e monarchici, juventini e romanisti (ops, dimenticavo, Veltroni è già tutto questo). Ma la cosa bella è che per capitanare una squadra di sconosciuti, indirizzata a far riforme fumose e buoniste, ritengono sia necessario un leader “fuori da sé”. Il rischio è che ne trovino uno fuori di sé. Ci vuole uno della società civile. Che è una di quelle espressioni che provoca l’orticaria, perché capace di congiungere il nulla con il nessuno. A chi si riferiscono? Un grande evasore, in rappresentanza dell’Italia che lavora e si ribella? Un cassintegrato a vita, in rappresentanza dell’innovazione produttiva? Un attore, meglio se attrice? (Potrebbe andare la Sabrina Ferilli, se non fosse che continua a far dichiarazioni d’ammirazione per Massimo D’Alema, che solo a sentirlo nominare i paladini dell’unità a sinistra si scompongono in sette sataniche). O, forse, puntano a Silvio Berlusconi, espressione di sentimenti popolari, laico fin troppo disinibito e acquisito che svuoterebbe la destra.

Il nuovo Movimento, strutturandosi attorno ad un programma vacuo e puntando ad un leader ancora da trovare, avrà il compito di rilanciare la “vocazione maggioritaria”. Che è, al tempo stesso, una creazione e una vittima dell’ottimo romanziere prestato alla politica, o viceversa, o, magari, un politico romanzato. Perché è vero che fu lui a capire, e gliene va reso merito, che la sinistra potrebbe vincere dotandosi d’idee e uomini accettabili, non di coalizioni arlecchinesche, ma è anche vero che fu lui ad affondare la speranza, contraendo l’alleanza con l’estrema destra manettara degli italovaloristi. Il che pone un secondo, e più solido problema: è noto anche ai sassi che la componente cattolica, o, per la precisione, ex democristiana, del Partito Democratico non ne può più di stare a rimorchio di ex o neo comunisti, ma è anche vero che quel con cui devono rompere è, prima di tutto, il dipietrismo, malattia senile del sinistrismo senza idee. Fioroni e Gentiloni farebbero bene a pensarci: non è simpatico prendersela con Bersani, poverello, senza avere il coraggio di puntare il dito sulla piaga più infetta. Programmaticamente parlando, ammesso che a loro importi qualche cosa, la distanza da Bersani si misura in centimetri, quella da Di Pietro in chilometri.

Infine, dice Veltroni che è ancora presto per discutere la leadership della sinistra, dato che il governo non è ancora caduto. Qualcuno lo informi, e con lui la sinistra intera, che l’efficacia di chi guida l’opposizione si misura nel far cadere il governo e predisporre l’alternativa. Quello che aspettava i pomi gli cadessero in testa era Newton, che non fa il centravanti.

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