martedì 21 settembre 2010

La sindrome di Stoccolma. Maurizio Ferrera

Dopo aver investito molti Paesi dell’Europa continentale, l’onda xenofoba ha raggiunto il cuore della Scandinavia. Nelle elezioni di domenica, i «democratici svedesi» (formazione di estrema destra) hanno ottenuto quasi il 6% dei voti. Una doccia fredda per il leader moderato Frederick Reinfeldt, una sconfitta di proporzioni storiche per i socialdemocratici.

La portata di queste elezioni oltrepassa i confini svedesi. Non si tratta solo di un piccolo terremoto politico, ma della crisi di un intero «modello sociale», per molti aspetti unico al mondo. Un modello capace di combinare in modo virtuoso crescita economica e welfare, difesa delle tradizioni nazionali e apertura verso l’esterno.

L’economia svedese è fra le più prospere del pianeta. Mercato e capitalismo non sono mai stati nemici da abbattere, ma strumenti da addomesticare per produrre ricchezza, senza eccessive sperequazioni. Lo Stato sociale è generoso e inclusivo. Costa caro, ma funziona bene. Impregnato sin dai suoi esordi di etica protestante, il welfare è diventato un elemento centrale dell’identità svedese: è considerato la «casa di tutto il popolo», la parola «imposte» vuol dire anche «tesoro comune».

Il principale artefice del modello è stato il partito socialdemocratico, pioniere di un riformismo ambizioso ma pragmatico e conciliante. Nei cortei del Primo maggio, i militanti del partito hanno sempre sfilato con la bandiera rossa in una mano e quella del Regno di Svezia nell’altra: solidarietà fra i lavoratori di tutto il mondo ma anche rispetto della comunità e identità nazionale. Che cosa è andato storto?

La crisi non è di natura economica: il circolo virtuoso fra crescita e welfare funziona ancora, la Svezia resta la prima della classe in Europa. A scardinare il modello è stata soprattutto l’immigrazione. A torto o a ragione, nell’ultimo decennio si è diffusa la paura di un assalto alla casa e al tesoro comuni da parte di persone «diverse » in termini di cultura, costumi, etica civica. Oggi un terzo della popolazione svedese è costituito da immigrati di prima o seconda generazione. Molti elettori accusano i socialdemocratici di aver spalancato le porte agli stranieri e il partito non è riuscito ad aggiornare il proprio programma al nuovo clima. Il cittadino medio crede ancora al binomio «crescita e welfare», ma non si fida più della combinazione «comunità e apertura ». Se deve scegliere, opta per la chiusura, per la difesa del territorio e dei diritti dei nativi. Il nuovo partito dei «democratici svedesi» ha sobillato e cavalcato questi umori ed è ora l’ago della bilancia nel Parlamento di Stoccolma.

I governi e i partiti politici europei (soprattutto quelli di ispirazione socialdemocratica) farebbero bene a riflettere seriamente sui fattori che hanno prodotto la sindrome di Stoccolma: flussi immigratori troppo intensi e senza filtri, la mancata integrazione degli stranieri (in particolare quelli di seconda generazione), la formazione di enormi ghetti islamici alla periferia delle metropoli, i problemi di sicurezza pubblica. Un progetto sistematico e coerente di rilancio del binomio «comunità e apertura» in chiave liberaldemocratica ed europeista non è stato ancora elaborato, da nessuna delle principali famiglie politiche del continente. Ma sarebbe lo strumento più efficace per rispondere in modo ragionevole alla grande sfida dell’immigrazione, evitando di farci travolgere dall’ondata xenofoba e nazional- protezionista. (Corriere della Sera)

1 commento:

Anonimo ha detto...

Assolutamente d'accordo con lei. In questo nulla in vi e 'una buona idea. Mi associo.
Condivido pienamente il suo punto di vista. Mi piace la tua idea. Offerta di mettere una discussione generale.