giovedì 17 aprile 2008

Etica dell'impresa (e della tirchieria). Davide Giacalone

Segnalo il caso di Ingvar Kamprad, che non esita a definirsi tirchio, e forse lo è, ma è l’esempio vivente di un’etica dell’impresa che non si lascia assimilare ai pacchiani costumi degli arricchiti. Il nome di quest’uomo forse non dice molto, ma il marchio Ikea riassume tutto. La sua fortuna personale si aggira sui 18 miliardi di euro, l’ultimo fatturato viaggia verso i venti. Diciamo che le preoccupazioni finanziarie non sono le sue principali. Eppure va al mercato verso la chiusura, quando aumentano gli sconti, si muove con il carrello fra gli scaffali cercando le occasioni, vive in una bella, ma normale e lineare villetta in un paesino svizzero, avendola arredata con mobili da lui prodotti e da lui stesso montati. Viaggia per affari, naturalmente, ma rigorosamente low cost. Quando arriva prende la metropolitana. Ha 82 anni, ma non vede perché tirare i remi in barca o perché sperperare: i mobili son quello che sa fare e vivere dignitosamente, preservando la sua “normalità” anonima, gli sembra un gran bel risultato.Ripeto, può darsi che qualche suo comportamento sia un po’ maniacale, ma la sua condotta di vita rende ancor più scandalose le retribuzioni che qualche manager italiano si attribuisce e paga, per giunta mandando allo sfacelo le aziende che amministra. L’etica dell’impresa consiste nel fare. Nel creare prodotti che risolvano i problemi dei clienti, nel creare ricchezza. Non mi piace l’idea che tutti ci si debba adeguare ad una vita monacale, ma la convinzione che l’impresa sia il mezzo dell’arricchimento personale, finalizzato alla “bella vita”, è sbagliata. Ed è decadente.
Il signor Ikea sarà pure spilorcio, ma quel suo approccio al mercato ha consentito di costruire un gruppo che guarda cinesi ed indiani come possibili clienti, non come concorrenti cui soccombere. I tanti riccastri che spiegano le vele al vento, comprano ville, s’aggirano con ingioiellati manichini che, sul mercato, hanno nomi più pregnanti, invece possono solo cercare di scappare con la cassa prima che gli asiatici soffino loro il lavoro. Noi abbiamo manager, che è già generoso definire domestici, incapaci di muoversi senza aerei aziendali. Questo è un signore che ha lavoro in gran parte del mondo e va all’imbarco come tutti gli altri. Il suo catalogo è distribuito in 170 milioni di copie, mentre i prodotti di quegli altri si reggono in ambiti protetti e numericamente ridicoli. Lui prende l’autobus, quegli altri si perdono nel quartiere di casa, se abbandonati dall’autista.
La morale del mercato è nel valore dell’azienda, come nel valore che l’azienda porta al mercato. La finanza è una parte importante di questo mercato, e guai a considerarla in sé negativa. Ma far soldi con la finanza, giocando fra la borsa ed i bilanci taroccati, serve solo ad impoverire tutti, consentendo a qualche zotico d’atteggiarsi a collezionista d’arte. Dalle nostre parti, a mezzadria fra il cattolicesimo pauperista ed il marxismo per denutriti, si considera la ricchezza un peccato od una colpa, salvo poi andare a leccar tartine in ricevimenti post industriali. Mi sa che qualche sana lezione di spilorceria calvinista non guasterebbe.

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