lunedì 21 aprile 2008

L'unico cattivo d'Italia. Alfio Caruso

Finalmente abbiamo il gran cattivo d'Italia. Nel Paese dei troppi santi l'unico reprobo è Bruno Contrada. Vinto dalla Storia e sconfitto dallo Stato, che lo ha marchiato quale traditore di Boris Giuliano, di Ninni Cassarà, di Beppe Montana e dei tanti sacrificatisi nella trincea del Dovere, lo sbirro settantottenne deve agonizzare e crepare in galera affinché ciascuno di noi ogni mattina si possa guardare allo specchio e sentirsi migliore. Messi da parte sia il controverso iter giudiziario (nel primo processo di appello Contrada era stato prosciolto), sia la certezza che la Legge mai è eguale per tutti (la sacrosanta assoluzione di Andreotti ha cancellato indizi superiori a quelli che hanno prodotto la condanna di Contrada), rimane incomprensibile un simile accanimento. A qualunque nemico in catene, giunto agli sgoccioli della vita, il vincitore concede il conforto degli affetti domestici, il sollievo di chiudere gli occhi nel proprio letto.

A Contrada no: nessuna pietà per chi negli anni di fango palermitani attraversava la terra di nessuno, si sporcava le mani, incontrava Saruzzu 'u spiuni (Rosario Riccobono). All'epoca i collaboratori di giustizia non erano stati ancora inventati, c'erano i confidenti e a essi si prometteva dieci nella speranza di portare a casa uno, convinti che nella sporca guerra contro Cosa Nostra il fine legittimasse i mezzi.

Una decina di giudici ha deciso che il comportamento di Contrada ha superato i confini del lecito; ha dato credito alle accuse di mafiosi da lui perseguitati prima che indossassero le sacri vesti di pseudo pentiti; ha ritenuto che le testimonianze a suo favore di molti rappresentanti delle Istituzioni non avessero alcun valore.

Niente da obiettare, rientra nella discrezionalità di ogni verdetto umano. Tuttavia, siamo sicuri che Contrada sia peggio di Previti, per sua e nostra fortuna lontano dalla galera? Che sia peggio di Priebke, il quale alle Fosse Ardeatine riuscì a essere persino più feroce della rappresaglia predisposta dal suo comando (le vittime innocenti dovevano essere 330, gli assassinati furono 335)? Possibile che le sue perizie mediche siano più inattendibili di quelle che consentirono a Gelli, riconsegnato dalle autorità svizzere, di evitare il carcere? All'epoca tre luminari della cardiologia stabilirono che le condizioni del venerabile non soltanto erano incompatibili con la detenzione, ma addirittura facevano prevedere un suo imminente decesso. Dopo oltre vent'anni Gelli ci riscalda ancora con la sua presenza contornata da dolci poesie meritevoli di premi. Né più né meno quanto è avvenuto in tempi recenti con Nino Rotolo, asceso da killer dei corleonesi al ruolo di capo mandamento di Pagliarelli. Malgrado gli ergastoli fu scarcerato grazie a compiacenti attestazioni su un cuore a pezzi, ma non tale da impedirgli di superare di slancio un muretto per partecipare ai summit della cosca.

D’altronde Contrada non ha suscitato la compassione della Chiesa, benché i suoi monsignori si siano in passato inteneriti perfino per Riina e Provenzano, né ha meritato l'apprezzamento di Dell'Utri, la cui coscienza di uomo d'onore (nel senso di Shakespeare, Giulio Cesare, atto III, scena II), ha voluto ricordare l'eroismo di Mangano, pluriomicida mafioso.

Insomma, caro Contrada, si decida a morire e non rompa. (la Stampa)

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