martedì 22 aprile 2008

Musi lunghi nei salotti. Angelo Crespi

Per la prima volta nella storia repubblicana, nessun comunista in Parlamento. Fuori dalle Camere, la sinistra massimalista rischia di perdere la propria influenza anche nel mondo della cultura. Ma per portare a termine la rivoluzione liberale non servono liste di proscrizione, bensì un progetto che rilanci il nostro Paese, attui il ricambio generazionale, ci conduca fuori dal luogocomunismo.

Il risultato è stato sorprendente. Dopo sessant’anni di Repubblica e a quasi vent’anni dalla caduta del Muro, in Parlamento non ci saranno più deputati né senatori che si ispirano direttamente al Partito Comunista. Termina quella che fu definita l’anomalia italiana: il più grande partito comunista d’Occidente capace di governare pur non stando al governo, capace di influenzare la nazione fin nel profondo dell’anima. Di fatto si chiude oggi il Novecento, secolo lungo, denso di tragedie e centinaia di milioni di persone morte per colpa delle ideologie, di cui il Comunismo è la più resistente e pervicace e assassina.
Ovvio che quella italiana fu la versione soft di una diabolica utopia, ma non per questo meno dannosa. I comunisti italiani in quarant’anni di integerrima militanza hanno sempre scelto le strade peggiori che la storia ha in seguito condannato: contro gli Alleati, contro il piano Marshall, contro le Nazioni Unite, contro la Nato, contro Israele, a favore della rivoluzione cinese, a favore dell’invasione d’Ungheria, a favore della invasione polacca, a favore di Ho Ci Min, a favore di Pol Pot, a favore di Fidel Castro, a favore di Khomeini, perfino a favore delle Brigate Rosse e dei terroristi islamici. Di fronte alla pur sommaria elencazione, appare quasi un miracolo che l’Italia abbia potuto crescere e svilupparsi, segno che al di sotto della superficie resistono millenarie radici di buon senso, realismo, cristianesimo, amore per la libertà.

Gli stessi anticorpi che hanno reagito alla prima vera prova di governo della sinistra comunista. La compagine schierata in parte sotto l’arcobaleno e in parte sotto falce e martello ha trascinato nel baratro un già debole Romano Prodi. Fa davvero specie ricordare che abbiamo avuto, fino a pochi giorni fa, presidente della Camera, Fausto Bertinotti, e ministro dell’Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio. Due figure che riassumono alla perfezione i connotati di una sinistra massimalista, dai tratti reazionari, le cui soluzioni alla crisi della postmodernità appaiono antistoriche e utopistiche, tese tra il no alla globalizzazione in chiave pseudorivoluzionaria (Caruso) e il radicalismo laicista (Luxuria), tra un ecologismo catastrofista (Pecoraro Scanio) e un classismo di maniera (Giordano). E sotto le cui insegna ci stavano collettivisti e statalisti convinti, mondialisti e femministe d’antan, vecchi extraparlamentari, reduci del terrorismo, fautori di un nuovo terrorismo, giustizialisti.

Durante la recente campagna elettorale, mentre i comunisti di governo speravano di resistere e mostravano il volto migliore, le altre liste più radicali (Alternativa Comunista e Sinistra Critica) esprimevano – grazie alla par condicio finalmente a una platea più vasta – concetti e idee talmente iperbolici da sconfinare nell’irreale, quasi che il mondo si fosse fermato alla diatriba Stalin-Trozkij e dovessimo approntare nel più breve tempo possibile un piano quinquennale. Solo l’irresponsabile gestione dei mass media, vere case matte del pensiero unico, ha permesso una sovraesposizione di questa ideologia che risulta largamente minoritaria nel Paese, ha permesso che si prolungasse l’agonia di un sistema politico e di potere ora definitivamente morto.
E dobbiamo ringraziare non solo la vittoria di Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, ma anche la caparbietà di Walter Veltroni che ha voluto tagliare con il passato e davvero oggi può dire senza timori di “non essere mai stato comunista”. Un Veltroni che si candida autorevolmente a interpretare il futuro di uno schieramente democratico e riformista. E a cui anche Berlusconi si affida per portare a termine le riforme strutturali e istituzionali.

Politicamente corretto. Stop
Lo diciamo con somma cautela: l’egemonia comunista è finita. Si apre una nuova stagione nella quale il politicamente corretto e il luogocomunismo non avranno più il peso che hanno avuto finora, almeno a livello politico o parlamentare. Certo, fuori dalla Camere restano i salotti. Ma con queste elezioni c’è la possibilità di archiviare sessant’anni di regime illiberale anche nel campo della cultura e delle arti. Allo stesso modo, la figura dell’intellettuale organico può essere dimenticata. Ovviamente, tutto dipenderà dalla capacità di governo del Pdl in un campo così complicato come quello culturale. Ma ci sono buone speranze che non vengano compiuti gli errori della passata legislatura 2001/2006, quando il Centrodestra sottovalutò il consenso negativo che poteva provenire da un mondo culturale arroccato su posizioni massimaliste.

Ancora qualche giorno fa, 490 intellettuali italiani hanno firmato sull’Unità uno scontato manifesto in favore del Pd e contro Berlusconi, dimostrando quanto sia ancora pervicace la sopravvivenza dell’intellettuale engagé, che preferisce l’ideologia alla verità delle cose, e spesso si dimostra in ritardo perfino rispetto al proprio leader che sembra invece aver metabolizzato davvero i mutamenti dei tempi.
La mania di manifestare o di dare la firma in bianco a qualsiasi appello è una delle cose più comiche dell’intellighenzia italica che – va ricordato – è composta sempre più da canzonettari, comici, attrici e attricette. Nel manifesto citato, compariva pure il nome di uno scultore morto. La difesa degli spin doctor di Veltroni se possibile è ancora più ridicola: “avevamo raccolto l’adesione con largo anticipo”, si sono scusati. Un po’ come si faceva nei formidabili Sessanta e Settanta, quando un presenzialista della firma come Jean Paul Sartre sottoscriveva in bianco qualsiasi appello, o qui da noi un gruppo di radical chic apponeva il proprio nome in calce a un delirante j’accuse contro il commissario Luigi Calabresi (che poi sarebbe stato tragicamente “giustiziato”).

Dopo una così larga vittoria politica, sarebbe un controsenso per un governo liberale stilare una lista di proscrizione che comprenda i 490 sottoscrittori del Pd ed è invece utopico pensare di redigerne una completa che annoveri le migliaia di intellettuali, professori, insegnanti, giornalisti, artisti, scrittori, attori, cantanti che in questi decenni hanno goduto di preponde e facilitazioni immeritate, deprimendo con la loro arroganza l’accademia, la scuola, l’informazione, l’arte, il cinema, la televisione.
Più sensato, lasciar perdere il passato impostando una nuova politica culturale all’insegna della libertà e del buon senso che apra nuovi orizzonti e scenari nel panorama stantio di questi anni. Per far ciò appare fondamentale, innanzitutto, l’apporto del ministro della Cultura. Solo invertendo ai massimi vertici il segno, si può sperare che a cascata muti radicalmente il risultato finale. Serve uno spoil system onesto e trasparente, attraverso il quale premiare nuove professionalità, dando vita a un ricambio generazionale che in Italia si aspetta da decenni.

Il ministero della Cultura, che molti per mancanza di lungimiranza snobbano, è l’avamposto perfetto per dar vita alla tanto preconizzata rivoluzione liberale: da quel fortino, lo hanno dimostrato i governi di sinistra, si governano centri di potere culturale importantissimi, e a maggior ragione imprescindibili oggi per la divulgazione di un pensiero finalmente libero (la Biennale, gli enti lirici, i musei, le sovrintendenze, le commissioni cinematografiche, le fondazioni…) nonché per l’implementazione di una politica dei beni culturali che sia vero motore di sviluppo dell’Italia.
I beni culturali sono infatti un patrimonio da conservare, ma anche una risorsa da sfruttare. Essi sono la specificità del nostro Paese sia in chiave identitaria che economica. Sono il giacimento inesausto di Bellezza a cui la politica deve attingere per progettare nella tradizione nuove soluzioni che ci conducano fuori dalla crisi. Solo riconoscendo nella Bellezza un valore politico si può infatti sperare che l’Italia ritrovi una propria particolare via nella globalizzazione.

La Rai è irriformabile
Più in generale è però necessario vigilare anche sull’informazione. La Rai è una formidabile generatrice di luoghi comuni, di inutili miti, di false letture del reale e della storia. Non è pensabile modificare nel profondo un patrimonio genetico che si basa su incrostazioni e militanze pluridecennali. E anche lo spoil system tentato in precedenza non ha fatto che perpetuare gli antichi vizi, spesso neppure mutandone il segno. Più sensato appare invece puntare sui nuovi settori, sulle nuove tecnologie, sul multimediale aprendo spazi di libertà e di confronto dove ancora il cancro dell’ideologia non si è propagato con metastasi.
E' però necessario adoperarsi anche nel campo della scuola e dell’università, pensando a una riforma che sia innanzitutto un balzo nel passato. E cioè riportando in vita tutti quei meccanismi di meritocrazia aboliti dall’idea livellatrice post sessantottina: meritocrazia quando si tratta di valutare gli studenti e quando si tratta di valutare i docenti. Soprattutto uscire da una trita idea statalista secondo la quale lo Stato ha il compito primario di irrigimentare i propri cittadini, dalla culla alla laurea.

Infine è necessario che tutti gli uomini di buon senso prestino attenzione agli altri settori: la stampa, le case editrici (comprese le sedicenti liberali), il mondo delle arti in generale, dove l’adesione al politicamente corretto non è sintomo di una libertà agita, bensì prona acquiescenza a un sistema di favori e camarille che oggi per fortuna si sta sgretolando e quindi può essere criticato senza timore di ritorsioni. Ma che può ancora sedurre e fare proseliti per inerzia e residuale capacità attrattiva soprattutto tra gli intellettuali abituati ad abbeverarsi alle greppie della politica.
Come diceva Longanesi “tutte le rivoluzioni iniziano per strada e finiscono a tavola”. Quella comunista è finita nei salotti sempre più ammuffiti della Roma godona o della Milano radical chic. Salotti nei quali si attestano gli ultimi resistenti, pronti a sparare sul nuovo governo o sulla nuova opposizione finalmente riformista. (il Domenicale)

3 commenti:

Anonimo ha detto...

finalmente!!!!!!!!!!!!!

Anonimo ha detto...

ROMA LIBERA

Grazie ALEMANNO

www.democraziaresponsabile.blogspot.com

Anonimo ha detto...

Se non altro, gli elettori hanno buttato fuori a calci nel c*** tutta, o quasi, la sinistra salottiera, fatta di gente arricchita alle spalle del contribuente, di "schicconi" con la erre moscia, di pecorai in giacca e cravatta e dal sesso polivalente, di travestiti, di verdi come i cocomeri (verdi di fuori e rossi dentro); e poi col seguito di intellettuali furbi schierati dalla parte che editorialmente rende di più, di beceri molleggiati con le sospensioni mezze guaste, di attricette sempre alla caccia di soldi e di "avventure", di giornalisti pallonari sempre travagliati dalle vicende giudiziarie di una sola persona, di amministratori giustizialisti ... insomma tutto un mondo felliniano fatto di volti squallidi, espressioni alienate e visi clowneschi di un' umanità senz'anima.
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