mercoledì 21 aprile 2010

Il futuro delle pensioni. Massimo Mucchetti

Come si pone il problema delle pensioni dopo l’ampia vittoria della maggioranza di governo alle elezioni regionali? All’inizio di un periodo di grazia—tre anni — senza ulteriori ricorsi alle urne, tre sono i punti cruciali: la sostenibilità della spesa pensionistica, l’adeguatezza degli assegni dell’Inps, gli effetti del prolungamento dell’attività degli anziani sul mercato del lavoro.

Il primo punto è a un passo dalla soluzione. Sebbene l'idea non sia stata ancora metabolizzata, l’innalzamento automatico dell’età della pensione è già legge dello Stato. Manca il decreto d’attuazione. Il governo ha tempo fino al 31 dicembre 2014. Ma sarebbe meglio emanarlo al più presto per evitare di finire in mezzo a un altro ciclo elettorale, poco adatto al rigore: subito dopo le politiche del 2013 e le europee del 2014 e prima delle regionali del 2015. Il decreto deve consolidare il principio che si va in pensione sempre più tardi. Dal 2015 pensioni di vecchiaia a 65 anni e 3 mesi per gli uomini e a 60 anni e 3 mesi per le donne, pensioni di anzianità a 62 anni e 3 mesi per i dipendenti e a 63 anni e 3 mesi per gli autonomi.

A partire dal 2020, ogni 5 anni si aggiorneranno i termini in base alle speranze di vita. Nel 2050, si prevede, la soglia della vecchiaia salirà a 68 anni e 5 mesi per gli uomini e a 63 anni e 8 mesi per le donne, l’anzianità a 65 anni e 5 mesi per i dipendenti e a 66 anni e 5 mesi per gli autonomi.
A regime l’Inps rinvierà oltre un milione di pensioni, la riduzione delle uscite da subito sarà minimale, ma poi crescerà fino a un taglio di 8,5 miliardi nel 2040. La spesa pensionistica, dunque, è sotto controllo. E può essere sostenuta dai conti pubblici. La sua incidenza sul prodotto interno lordo è di non poco inferiore a quel che si dice, ove la si compari correttamente agli altri Paesi, e cioè togliendo il Tfr, che è salario differito e non pensione, e considerando gli effetti fiscali, che appesantiscono il conto italiano. Del resto, la spesa sociale italiana, di cui le pensioni sono parte, risulta di poco inferiore alla media europea e di molto a quella tedesca e francese.
Nel 2008, il saldo tra i contributi versati e le pensioni erogate, al netto delle prestazioni assistenziali coperte dalla fiscalità generale, era positivo per lo 0,9% del Pil e concorreva a finanziare la pubblica amministrazione. Ulteriori giri di vite sulle pensioni aumenterebbero questo contributo, ma andrebbero presentati come tali, senza celare gli effetti collaterali.

Già oggi la sostenibilità della spesa pensionistica si ottiene dando di meno e più tardi. I giovani avranno pensioni spesso inferiori alla metà del salario. E i più non avranno granché dalla previdenza integrativa: chi poco guadagna, poco destinerà al fondo pensione. Il passaggio al sistema contributivo, del resto, è già un potente incentivo a rimanere al lavoro. Ma la permanenza degli anziani non di rado costituisce un problema. Lo prova l’incremento dei prepensionamenti.
Al di là della crisi, in un’Italia dove le persone con un posto retribuito sono meno che altrove e la crescita attesa è scarsa, l’occupazione dei vecchi non facilita quella dei giovani. L’economia non è ancora capace di ridisegnare in modo dignitoso la vita lavorativa che dalla progressione ascensionale di un tempo si va ormai trasformando in una parabola. La riforma delle pensioni, insomma, contrasta derive di finanza pubblica alla greca, e perciò va presto fatto anche l’ultimo passo. L’inadeguatezza delle nuove pensioni e il contrasto generazionale sul mercato del lavoro riaprono la questione della redistribuzione del reddito lungo l’intero arco dell’esistenza. (Corriere della Sera)

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