lunedì 28 febbraio 2011

Tra scuola statale e pubblica c'è un abisso ma la sinistra non lo sa (o finge). Andrea Bellantone

La scuola italiana non regge il passo con i tempi. Non solo perché gli insegnanti non sono stati sempre reclutati con la dovuta cura. Ci sono anche altri problemi: le infrastrutture, ad esempio. Ma anche una
pedagogia generale che, volendo andare verso il progresso, ha finito per distruggere tutto quel che di buono gli anni avevano solidificato e reso sana abitudine. Qualche volta, infatti, per stare al passo con i tempi, occorre conservare ciò che di buono ci ha consegnato il passato, senza la smania di riformare e di cambiare degli equilibri che sono per definizione assai delicati. Basti pensare al buon vecchio insegnamento delle lingue antiche, a quello della storia, per non parlare delle matematiche. Le famiglie italiane hanno già da tempo compreso la disgregazione della scuola pubblica, comprendendo assai bene che la sua origine non può essere cercata né nella cosiddetta carenza di fondi né nella maggiore o minore accondiscendenza dei governi nazionali verso il sistema dell'istruzione statale.
Per questo - chi ha avuto la possibilità - ha già da tempo sottratto i propri figli dalle scuole statali e li ha avviati verso la formazione privata. Su questo gli italiani non hanno alcun dubbio ed è per questa ragione che hanno  Condiviso le linee guida della destra sul tema della scuola, sia nel ciclo 2001-2006 (Moratti) sia nel ciclo 2008-2011 (Gelmini). Il fatto che la sinistra oggi frigni, in difesa di un'istituzione che non funziona più, indica ancora una volta - ma non c'era bisogno di conferme - quale e quanta sia la distanza tra le esigenze del paese (il tanto vituperato senso comune) e la cultura dei progressisti italiani (il tanto esaltato mondo della cultura). Ma nel dibattito sollevato in questi giorni in merito alla scuola pubblica si sente un difetto di fondo, le cui radici sono tutte culturali: la confusione tra scuola pubblica e scuola statale.
La scuola statale è quella di proprietà dello Stato, gestita tramite suoi funzionari e con programmi e metodi definiti dal potere politico. Questa scuola ha senza dubbio fallito il proprio compito e non è più adatta ad una società che si fa sempre più complessa e pluralista, il cui bisogno essenziale è quello di indicare ai giovani modelli di eccellenza. Rispetto al XIX e al XX secolo, in cui la scuola statale ha svolto senza dubbio il ruolo di grande contesto della formazione della comunità nazionale, il panorama è totalmente mutato e il monopolio statale delle istituzioni formative ha perso totalmente senso.
Diverso, invece, è il concetto di scuola pubblica. Una scuola è pubblica quando i criteri di accesso dei suoi allievi e quelli della valutazione non sono influenzati da criteri di discriminazione (nazionalità, religione, orientamenti ideologici, ricchezza, etc.) e quando la sua finalità è quella di dare una formazione basata sulla centralità della dignità umana. Questa scuola è pubblica, nel senso che tutti vi possono accedere e che essa è un luogo trasparente di confronto e maturazione tra le tendenze culturali della società. Rispetto alla scuola statale, c'è quindi una differenza sostanziale: essa non appartiene al potere pubblico, non è gestita dall'amministrazione dello Stato tramite i suoi funzionari, ma è una realtà che nasce e cresce nella società civile.
Rispetto a questa scuola, lo Stato può certamente farsi garante del suo carattere pubblico - cioè aperto, critico, oggettivo - senza tuttavia pretendere di avere su di essa un potere diretto di gestione e controllo. La fine della mitologia dello Stato - tipica del XX secolo - ha già da tempo animato molte riflessioni sul superamento del monopolio statale della scuola. La scuola italiana, tuttavia, fa enorme fatica ad aprirsi verso un sistema multicentrico, concorrenziale, il cui fondamento sia l'idea di una scuola pubblica. Su questo versante si combatte la vera battaglia per la modernizzazione del sistema educativo italiano.
Tutto il resto, dall'evocazione della figura di Gentile da parte di Bocchino al piagnisteo statalista di Bersani, mostra solo l'ineffabile arretratezza della cultura politica italiana. (l'Occidentale)

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