mercoledì 1 agosto 2012

In memoria del necrologio. Davide Giacalone

Nell’estate 2012 il necrologio si porta lungo. Non credendo ai segni del destino non traggo alcun presagio dal rapido succedersi di decessi nel mondo della giustizia, non suppongo simboleggino la resa umana laddove s’è già archiviata la resa sistemica. Osservo, però, che nulla come la morte è calamita di retorica, e nulla come la retorica mortuaria è ricettacolo di bugie e false coscienze. A rendere il tutto interessante, anche sotto il profilo antropologico, è la letteratura del necrologio, essa sì capace di sopravvivere ben oltre la sua funzione vitale.
I necrologi, i piccoli francobolli neri che arricchiscono i giornali e impoveriscono la morte, servivano per dare l’annuncio del trapasso. Erano i tempi in cui i matrimoni s’annunciavano negli albi comunali, a loro volta esposti in bacheche pubbliche: chi aveva da obiettare poteva farsi avanti. Oggi nessuno passa davanti a quelle esposizioni, mentre di certi matrimoni ti danno l’avviso e ti raccontano lo svolgimento anche se non te ne importa un accidente. All’annuncio, dato dalla famiglia affranta, seguivano e seguono le partecipazioni dei condolenti, che si dividono in tre categorie: a. quelli affranti, che son pochi e solitamente assai parchi; b. quelli tirati per i capelli, “che figuraccia non farlo”; c. quelli che colgono l’occasione per mostrarsi vicini al trapassato, affiancandosi ad altri noti, fidandosi del fatto che il protagonista non può protestare, sicché gli si può un poco rubare la scena. Solo la terza categoria non soffre il dettaglio materiale: i necrologi costano una fortuna, che se gli si fosse offerto un luculliano ristoro prima che tirasse le cuoia, il caro estinto ne sarebbe stato felice.

Il necrologio, infine, vive nel mondo analogico e vi sopravvive a dispetto del fatto che i mezzi digitali, dai quali provengono, oramai, quasi tutte le informazioni, non ne ospitano. Al più comunicano: è morto Tizio. E gli altri a chiedersi: quanti anni aveva? La risposta muta significato a seconda del questionante: per i più giovani la morte non ha senso; per quelli di mezza età è l’occasione per valutare la rimanenza media, fra i conosciuti; per i più anziani è segno che la nera signora ha ancora colpito di fianco, questa sera si brinda.

I necrologi lunghi, anzi lunghissimi, però, hanno quasi sempre un redattore istituzionale. Intanto perché non li paga, il che scioglie la favella. Poi perché li usa, se non altro per comunicare quel che stava facendo, grazie ai servigi di chi non c’è più. Poi può capitare che usi il decesso per cercare di regolare i conti, mettendolo su quello di qualcun altro. Della serie: avete ucciso un pezzo di me. Questi sono i necrologi vergati da quanti concepiscono il mondo solo se ne sono il baricentro, talché parlano di sé anche nel cordoglio, incuranti del possibile effetto trascinamento. Necrologi, questi, comunque migliori di quelli vergati in burocratese, che sono una specie di elogio di servizio, a uso dell’ufficio personale. Che cosa triste, essere accompagnati in quel modo nell’ultimo viaggio.

Il lutto più esilarante è quello dei colleghi, i viventi nel mondo in cui si visse, i quali passarono il loro tempo a cercare disperatamente di negare la tua stessa esistenza, a ignorarti affinché fossi ignorato da tutti, e ora, con il certificato di morte opportunamente compulsato, possono sciogliersi: era un grande, colpevolmente sottovalutato. L’infinita grandezza di tale piccineria è motivo d’imperituro sollazzo.

Quindi, siete avvertiti: offritemi un pranzo e, quel giorno lì, fatevi gli affari vostri. Possibilmente godendone.

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