lunedì 17 settembre 2012

Note sulla Costituzione - VI - Il carcere - La famiglia. Gianni Pardo

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Secondo l’Art. 27, terzo comma, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Questa norma, indiscutibile per i “trattamenti contrari al senso di umanità”, è allarmante per le ultime parole.
Nell’Italia attuale fanno pensare a biblioteche all’interno delle carceri, a corsi di storia o di informatica per i detenuti, o al coinvolgimento dei carcerati nell’amministrazione della comunità, ma esse potrebbero essere applicate in modo ben diverso da un governo divenuto autoritario ed ideologico. Lo Stato potrebbe prima emanare leggi contro il dissenso e poi mettere in carcere le persone che criticano l’autorità. La nobile finalità del miglioramento morale del condannato potrebbe portare, come in Cina, ai “campi di rieducazione”: “Non solo starai in carcere ma, dal momento che tendo a rieducarti, dovrai studiare la dottrina del partito e dire che ne sei convinto”. Nessuno nega che ne siamo lontani, ma quando si tratta della libertà di parola e ancor più di pensiero, è meglio soffrire il solletico.
Finché si vieta di percuotere il carcerato o di tenerlo in galera senza un ordine del magistrato, sia lode alla Costituzione: ma perché concedere allo Stato il diritto di porsi a maestro di etica? Perché consentirgli di insegnare la morale, mentre tiene qualcuno in galera? È già molto che, per fini di ordine pubblico e di sicurezza, gli si consenta di tenere rinchiuso il corpo di un cittadino: non deve in nessun caso essergli permesso di rinchiuderne anche l’anima. Non molto tempo fa gli avrebbe insegnato che è male essere omosessuali, che è vietato essere atei o infine, come nella Cina di Mao, che non è ammesso essere anticomunisti.
Un liberale ha paura dei moralisti e di una Costituzione che tende chiaramente “al bene”. Ancor più se pensa che il tentativo di insegnarlo, quel bene, sarà poi affidato ai singoli magistrati e ai singoli carcerieri.
La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. In realtà l’art.27 avrebbe dovuto rinunciare all’indicazione di ciò cui deve tendere la reclusione. La pena costituisce un “pagamento” delle proprie colpe e la società “creditrice” dovrebbe accontentarsi di esso, senza pretendere che il debitore si cosparga inoltre il capo di cenere.
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L’Art. 29, secondo comma, statuisce che: "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare”.
Nel primo comma si fa riferimento alla società naturale, prevedendo con essa solo la coppia eterosessuale. Ma l’omosessualità non è meno naturale dell’eterosessualità. Anche chi volesse considerarla una deviazione rispetto alla normalità non può negare che essa sia naturale, come sono naturali l’albinismo o l’alluce valgo. Paradossalmente dunque, con l’accenno alla società naturale, la Costituzione non vieta affatto il pur inutile matrimonio degli omosessuali. Se si fosse scritto “i diritti della famiglia fondata sul matrimonio”, senza parlare di società naturale, non avremmo rimpianto le parole mancanti. Poi il legislatore avrebbe potuto regolare l’istituto nel modo meglio rispondente alla sensibilità collettiva e nel testo ci si sarebbe risparmiata una delle tante tracce di discutibili ideologie.
Più criticabile è il secondo paragrafo, lì dove parla di limiti all’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi: limiti che, ci scommetteremmo, quando esistenti sono a favore dell’uomo e contro la donna. Prova ne sia che un tempo nei reati di adulterio e concubinato per la donna bastava un congiungimento carnale con una persona diversa dal marito (l’art.559 parlava soltanto della moglie adultera) mentre per l’uomo il reato di adulterio era previsto esclusivamente a querela del marito dell’amante, e non della sua propria moglie! Quanto al concubinato, per essere punibile era necessario che il marito tenesse (art.560) la “concubina nella casa coniugale, o notoriamente altrove”. Se l’altra donna non era nella casa coniugale, o se il fatto non era di pubblico dominio, il reato veniva meno. Bisognava proprio che la mancanza di rispetto per la moglie fosse conclamata e scandalosa: sempre che l’articolo non proteggesse in realtà più l’onorabilità della famiglia che della moglie.
Poco importa che queste norme siano state cancellate (anche se parecchi anni dopo il 1948): esse servono almeno a mostrare come la Costituzione sia tutt’altro che quel testo di sovrumana saggezza che molti pretendono sia. (il Legno storto)
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