giovedì 6 settembre 2012

Note sulla Costituzione - artt. 1 e 2. Gianni Pardo


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Piero Calamandrei
La Costituzione Italiana è fatta oggetto di un ossequio così costante e devoto che a volte sbocca nel feticismo. Qualcuno la ritiene talmente perfetta da sentirsi in dovere di stramaledire chi osa criticarla o propone di cambiarla. Anche se essa stessa prevede con l’art.138 le modalità della propria riforma, per alcuni quell’articolo è come se non esistesse. Il testo è, come il Corano, espressione di una tale superiore saggezza da essere quasi divino. Poiché però già in materia di religione esistono gli atei, deve pure essere lecito che esistano gli empi in materia di Costituzione. È per dar voce a questi reietti che si commenteranno qui alcuni articoli dei Principi fondamentali e dei titoli I, II, III della Parte prima. E solo per questo servirà più di una puntata.

L’Art. 1 recita: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Che significa “fondata sul lavoro”? Esiste forse qualche comunità in cui i beni e i servizi non sono prodotti dal lavoro di qualcuno? Inoltre, dal momento che il lavoro è un’astrazione, evidentemente ci si riferisce ai lavoratori. E allora, vogliamo escludere da coloro su cui si fonda la Repubblica i bambini, i pensionati, gli inabili, le casalinghe? O forse i dirigenti e gli imprenditori, che spesso lavorano più degli altri? Fra l’altro non si può dimenticare che l’art. 3 stabilisce l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Se dunque la Repubblica sentisse una particolare preferenza per una categoria di cittadini rispetto ad un’altra entrerebbe in contrasto con sé stessa.
Né l’art. 1 potrebbe essere salvato dalle parole dette già sul momento da Amintore Fanfani: a parere di quello statista esso escludeva che la Repubblica potesse «fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui». Ma non era necessario escludere ciò per la buona ragione che una simile aberrazione non era venuta in mente a nessuno.
Oggi sembra che tutti conoscano quell’articolo della Costituzione, lo capiscano e lo approvino. Viceversa nel 1947 il grande Calamandrei si domandava: «Quando dovrò spiegare ai miei studenti che cosa significa giuridicamente che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro, che cosa potrò dire?(1)». Ma forse era meno intelligente di tanti nostri contemporanei.
La verità è che ciò che alcuni costituenti avrebbero amato dire era che l’Italia sarebbe stata dominata dai proletari. Una versione edulcorata di “tutto il potere ai Soviet”. Solo che non s’è avuto il coraggio di scriverlo e il risultato è un articolo pomposo che non dice nulla.

L’art. 2 non è né meno pomposo né meno criticabile. Eccolo: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Il verbo “riconosce” implica che ci si riferisca a diritti noti e chiaramente formulati, e questa è mitologia. O forse semplice retorica. Infatti, in quale testo sono? E se non ci si riferisce a un testo chiaro e determinato, lo Stato potrà in ogni momento “riconoscere” un dato diritto e  non “riconoscere” un altro diritto, reputando che esso non sia “inviolabile”. La stessa inviolabilità è un concetto vago il cui ambito, in fin dei conti, è lasciato allo Stato stesso.
Forse anche più pericolosa è l’affermazione per la quale lo Stato «richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». In uno Stato moderno e liberale la solidarietà non è giuridicamente esigibile. Un tempo ai contadini si richiedevano le corvées, cioè prestazioni lavorative non retribuite ma obbligatorie in quanto dovute al feudatario, e il signore avrebbe potuto affermare che esse derivavano dalla necessità di dimostrare la propria solidarietà politica, economica e sociale. E nello stesso modo può agire uno Stato totalitario. Viceversa uno Stato liberale non esige l’adempimento di doveri morali tanto incerti quanto inderogabili. In esso il cittadino non ha doveri “positivi”: deve solo pagare le tasse (col permesso di odiare il fisco) e osservare le leggi. Per il resto può fare quello che vuole. In Inghilterra un tempo ciò si riassumeva con questo principio riassuntivo: «Non dire male della regina e non spaventare i cavalli per strada».
La mentalità di chi scrisse il testo di quell’art. 2 fu forse platonica, rousseauista, teocratica, sovietica, certo non fu liberale. (il Legno storto)

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