martedì 18 settembre 2012

A scuola d'Italia. Davide Giacalone

  

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Venite a scuola, per capire il perché l’Italia è inchiodata e non riesce a muoversi. Entrate in segreteria o nelle classi, e toccherete con mano cosa la tiene ferma: non sono le forze oscure della reazione in agguato, e neanche i potenti interessi delle lobbies, è il non credere che si possa cambiare, la paura, la pigrizia, l’assenza di direttive chiare e inderogabili, le iperboli ministeriali che non diventano realtà. A scuola, come in tanti altri posti, si registra il trionfo dell’Italia burocratica su quella che ha voglia di crescere.
Sono anni che si parla di scuola digitale, però si va indietro anziché avanti. Si lamenta l’assenza di soldi, ma il problema è che se ne spendono troppi. Male. Da tre anni è già disponibile, per tutti gli studenti, tutte le famiglie e tutte le scuole il servizio d’interazione digitale. Valeva per le assenze, come per le comunicazioni, le pagelle, i programmi e via discorrendo. Era anche gratis, nel senso che si era fatto un accordo con i gestori di telefonia mobile, in modo da non far pagare né le famiglie né le scuole. Solo che non lo si rese obbligatorio (come opportunamente, invece, si fece con le dichiarazioni dei redditi). Il governo di allora (Berlusconi) accettò, sbagliando, di far convivere il digitale con l’analogico. Risultato: la risacca porta via anche il buono che c’era e si ricomincia sempre da zero. Senza memoria.

Dicono dalle scuole: per avere il registro digitale ci vuole un computer o un tablet per ogni professore. Non è vero: basta che il bidello raccolga i dati e in segreteria li introducano nel computer. Se vogliono un’indennità speciale, per questo lavoro, meritano il licenziamento. Per mandare l’uomo sulla luna s’impiegò meno elettronica di quel che c’è in una segreteria scolastica. Siccome lo usano solo per approntare gli stipendi è ovvio che la macchina rincula. Ora il ministro dell’istruzione annuncia: un computer per ogni classe (spesa 24 milioni) e un tablet per ogni insegnante del sud (spesa 32 milioni). Non sanno come spendere i soldi dei fondi convergenza, di provenienza europea, sicché la gara è a chi li spende prima. Ma male: comprare computer significa attrezzare un parco che presto sarà tecnologicamente arretrato e progressivamente danneggiato. Soldi che evaporeranno, ammesso che riescano a spenderli veramente. Se si vuol far crescere un mercato e puntare all’innovazione questa roba si esternalizza, chiedendo ai fornitori servizi, non l’ennesima overdose di computer da buttare, magari ancora incartati.

Neanche ci si è liberati dei libri di testo. Ogni anno ne compriamo un quintale (e chi scrive ama i libri, ma quelli veri, non i manuali o le raccolte d’esercizi che cambiano numero per giustificare la diversa edizione). Quest’anno le famiglie spenderanno un centinaio di euro in più rispetto all’anno scorso, come se i soldi abbondassero. Con quei quattrini si potrebbe tranquillamente dotare ogni studente di un computer e dei testi (sempre esternalizzando), senza differenze di reddito e classe sociale. Però si dovrebbe rendere obbligatoria l’adozione dei testi digitali e non si dovrebbe cedere alla misera lobby degli stampatori, che frenano l’innovazione e lucrano su una rendita di posizione che impoverisce l’Italia. Risultato: ancora una volta si adottano testi sia stampati che digitali, con il risultato che in classe entrano solo i primi. Eppure l’Eni aveva già messo a disposizione, due anni fa, la propria piattaforma di e-learning, per far nascere veramente la scuola digitale. Era gratis. Forse per questo si dimentica.

In compenso, dicono al ministero dell’Istruzione, si farà un concorso per assumere gli insegnanti. Solo che si attinge alle graduatorie del passato, con il risultato che i nostri insegnanti sono vecchi. Nella scuola primaria (con i bambini) il 77,2% ha più di 40 anni, con il 39,3 che ne ha più di 50. Nella secondaria gli over 50 sono la metà. Medie nettamente superiori sia a quelle dell’Ocse che a quelle dell’Unione europea. Sono i più bravi? Non lo sappiamo, perché i concorsi non si fanno da lustri. Moltissimi sono bravissimi, tanti sono ciuchissimi, altrettanti non gliene frega nulla. Ma li trattiamo tutti allo stesso modo. Si dice: hanno diritti acquisiti. E i diritti dei ragazzi? Il diritto a stare in una scuola seriamente formativa? Non contano, questi diritti. Salvo poi, con i test Pisa e Invalsi, misurare la desertificazione culturale e lo svantaggio concorrenziale.

La spesa pubblica per l’istruzione, in Italia, ammonta al 4,7% del prodotto interno lordo, mentre la media Ocse è il 5,9. La quota di spesa pubblica destinata all’istruzione è il 9%, meno di noi spende solo il Giappone. E’ povera, la scuola italiana? Sì, è povera, ma non è povera la spesa totale, perché le famiglie spendono un botto. Solo che è la qualità a essere bassa, perché i cittadini spendono senza potere scegliere, senza che siano pubblicati i dati con cui orientarsi. E’ la meritocrazia a essere stata espulsa. Prima dalle cattedre e poi dai banchi. Risultato: i giovani economicamente svantaggiati non hanno ascensori sociali, mentre noi tutti perdiamo la qualità dei migliori.

Ci fermano miserrime resistenze che, però, non trovano davanti a sé governi (plurale, perché sono anni che non si schioda) e politiche degni dei loro nomi. Solo annunci e superficialità, quindi rassegnazione esibizionista. Adesso la digitalizzazione è stata inserita nella spending review e nelle varie “agende”, ma la cruna dell’ago resta vergine: la si smetta di considerare tutto “sperimentale”, perché non c’è un bel niente da sperimentare, e si passi all’obbligo. Fuori da questo c’è solo il parolaismo inconcludente, sicché prende corpo l’abominio di un Paese che dovrebbe essere eccellente nella cultura (e che diamine, se non riusciamo neanche in quello!) e invece affoga nel rivendicazionismo miserando. Alla fine produciamo meno laureati degli altri paesi Ocse.

Venite a scuola e guardate in faccia quel che ci affonda. Poi facciamo pure gli auguri ai nostri figli che, in questi giorni, tornano a scuola. Studiate, non accontentatevi. Protestate.

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