mercoledì 17 luglio 2013

La parolaccia. Davide Giacalone

Il problema non è Roberto Calderoli, che gli oranghi è in grado di farli rimpiangere. Per la raffinatezza del loro ragionare e l’eleganza del loro eloquio. Il problema è tutta intera una vita pubblica che a forza d’inseguire il linguaggio del bar è precipitata in quello della bettola. Quella d’ora tarda, quando gli ultimi avventori sono anche i più intossicati. Gli accostamenti animaleschi sono da ora di ricreazione nella scuola elementare e, nell’inescusabilità di quel che Calderoli ha detto, gli va riconosciuto il merito di avere chiesto scusa. Vale quel che vale, ma faccio osservare che la scena è piena di gente che ne dice di peggiori e non solo non chiede scusa, ma si ritrovano sulle prime pagine. Senza scandalo. Meglio non dimenticare che il più riuscito capo politico dell’ultimo anno, il vincitore morale delle scorse elezioni politiche, Giuseppe Grillo, non riesce a compitare una frase senza infilarci un’oscena percentuale di turpiloquio.


La parolaccia segnala un comune sentire di mondo politico e società civile, o, meglio, incivile. Prima di decrittarne la portata, però, mi tocca un breve inciso: considerai male la nomina di una ministro nera al ministero dell’integrazione e considerai sbagliate le sue prime proposte politiche, ribadisco quei giudizi, accompagnandoli con la condanna delle caldarolate. Aggiungo che la reazione di Cecile Kyenge alle parole di Calderoli denotano notevole avvedutezza, ovvero l’opposto di quel che lo stesso ministro dimostrò pretendendo di non stringere la mano a un rappresentate del popolo italiano. Se ha imparato, me ne compiaccio.

Torno alla parolaccia. Quando è d’uopo il linguaggio paludato può capitare che il ricorso a un termine forte sia utile a rompere la stagnazione o a segnalare qualche idea forte. Quando, all’opposto, ci si fa forti delle parole troppo colorite è segno che le idee si sono sbiadite fino a scomparire. Tale fenomeno involutivo è utile per capire la ragione che colloca la società italiana in uno stallo senza apparente via d’uscita. Spesso ci si domanda: ma come è possibile che la classe dirigente non si accorga di quel che è evidente? Perché non si fanno le cose necessarie? Perché non si ascolta la gente, che ben conosce i problemi reali? Risposta: perché incapacità e viltà sono ben distribuite, dal vertice alla base. Come le parolacce.

Qualche tempo addietro mi stupii d’essermi rilassato e divertito alla vista di un film di Ficarra e Picone. Solo alla fine mi resi conto della particolarità: non c’erano parolacce. Ciò me lo faceva passare da bello a sublime. Perché anche la comicità, quasi tutta super politicizzata, non sa più fare a meno del vocabolo triviale, al cui ricorrere scattano subito gli applausi televisivi. Falsi di una falsità imbarazzante. Dai comici al cittadino che vuol mostrare la propria indignazione si passa senza che cambi il vocabolario. Non basta dire che il Tale dovrebbe essere rimosso, lo si deve ingiuriare e desiderare impalato. Altrimenti l’idea non si rende. Da qui poi parte un fenomeno noto: arriva qualcuno e diventa interprete di quel linguaggio, a sua volta ripetuto dall’informazione e accettato come normale. Quei leaders naturali trovano in seguito seguaci ed emuli, fino allo scadere in bettola per avvinazzati terminali. Contro tutti loro non si scatena la reazione delle persone dabbene, ma quella assai più forte ed evidente della bettola concorrente. L’alito che ne emana è complessivamente mefitico.

La volgarità del vocabolo è prodotto e produce volgarità del pensiero. Oramai è più facile che ti apprezzino o detestino per dove scrivi, piuttosto che per cosa scrivi. E se dal tuo dire non si capisce bene da che parte stai, dando per assodato che se non stai dichiaratamente da una parte è segno che sei un venduto alla parte opposta, allora te lo chiedono, procedendo poi con il pregiudizio già confezionato. L’Italia fascista era così, sebbene usasse un vocabolario più fantasioso: memorabile il mussoliniano “panciafichisti”. La derisione dell’altro era il collante della truppa. Quell’Italia profonda è tornata a galla. A sganciarla dal fondo, ove con vergogna era stata ancorata, fu il biennio giustizialista del 1992-1994. Dal cappio d’allora ai manipoli sboccati è stato un percorso inglorioso, cui non si sono sottratti in molti.

Va bene, ci sto: datemi pure del boccuccia. Gliecché vedo avanzare lo schiacciasassi sull’Italia che ha troppo da fare per potersi sboccare e non credo proprio che serva a nulla far le boccacce a quel pericolo. Suggerisco, però, di valutare l’ipotesi che le idee sane non hanno bisogno di linguaggi malati, mentre le parole violente possono anche essere prive d’idee, ma non per questo incapaci di generare violenza. Gli oranghi lo sanno, per questo si battono il petto evitando di scannarsi a vicenda. Che invidia.

Pubblicato da Libero

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